L’iter artistico di Eduardo, quell’infinito percorso di ricerca cui soltanto la morte avrebbe posto termine, conobbe una tappa fondamentale nella tormentata stesura di un testo che, simbolicamente, chiude una fase e spalanca i battenti a quello che sarebbe stato il futuro del suo teatro. Mi riferisco ovviamente a Natale in casa
Cupiello, la cui lunga genesi abbraccia - cronologicamente, prima ancora che sotto
un profilo tecnico o contenutistico - un periodo di svolta per il nostro artista, che coincide con la fine del «Teatro Umoristico I De Filippo» e la nascita del «Teatro di Eduardo».
Esordita nel 1931, l’anno del debutto della Compagnia dei fratelli De Filippo, come atto unico, - il secondo attuale - la commedia si accrebbe per l’aggiunta di un secondo atto – ovverosia il primo – intorno al ’32-’33, quando Eduardo aveva ormai abbandonato l’avanspettacolo presso il Cinema-Teatro Kursaal e si era affacciato al Sannazzaro di Napoli, e fu infine completata con l’inserimento del terzo e ultimo atto
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«L’eduardismo crede nella vita e, benché parta da premesse pessimistiche, dal senso della sconfitta, dell’impotenza, dello scacco, non si lascia prendere da suggestioni irrazionalistiche, ma cerca un contatto più diretto col reale in modo da indirizzarlo verso soluzioni più legate alla storia dell’uomo, che è la storia del suo personaggio, il personaggio Eduardo: amaro, ironico, misantropo, tartufesco, polemico; non il personaggio-monologo, ma quello che vive in funzione del coro, che cerca un rapporto di conoscenza, di chiarificazioni [...]. Un personaggio che non ha bisogno di maschera, perché maschera vivente, che non anela al travestimento, dato che sa inserirsi nella rete del vivere comune senza poteri magici o stregoneschi, o filosofici, senza il compiacimento di nascondersi sotto altre forme, proprio perché maschera viva e non maschera nuda», scrive Andrea Bisicchia in Invito alla lettura di Eduardo De Filippo, op. cit., pp. 63-4.
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avvenuto probabilmente solo nel 194399, l’anno che sancì la fine della tanto plaudita
collaborazione col fratello Peppino.
Tale travagliata composizione riflette l’intensità del fermento che animava il nostro drammaturgo, la profondità della sua crescita artistica, le difficoltà che seppe superare conseguendone una maggiore maturità, come traspare non soltanto - dal punto di vista stilistico e formale - dall’abbandono degli iniziali moduli farseschi e di un certo andamento che ancora risentiva della sceneggiata partenopea, ma anche - dal punto di vista tematico - dall’affievolimento del coro in favore di un’inedita centralità accordata al protagonista. In Lucariello - l’inguaribile sognatore che, corazzato della propria tenera ingenuità, ingaggia il duello con un mondo che rifiuta i suoi valori umani incarnati nell’immagine-simbolo del presepio - confluisce, a ben vedere, la figura dello stesso Eduardo. E la sovrapposizione tra l’autore e le sue creature sarà una marca ricorrente in tutte le opere successive, verrebbe da dire la firma del «Teatro di Eduardo»:
L’architettura stessa dell’opera predispone la centralità di un personaggio che ritornerà in varie metamorfosi sceniche, in un rapporto di identificazione «ambigua» con l’Autore. Si chiami Lucariello e poi Gennaro Jovine o Pasquale Lojacono, Alberto Stigliano o Guglielmo Speranza, è come la reincarnazione di una maschera umana, che soffre in modi progressivamente più coscienti il dramma della solitudine. Questo dramma oltrepassa la simulazione artistica di una incompatibilità psicologica fra i singoli, per trasformarsi in metafora teatrale d’una media incomprensione fra gli uomini, le cui radici storiche saranno di volta in volta aggiornate100.
Terminato il sodalizio col fratello Peppino – Titina invece tornerà a recitare assieme a Eduardo indossando i panni, fra i molti altri, di un’indimenticabile Filumena Marturano nel 1946 – il nostro autore-interprete si sente finalmente libero di approfondire le note amarognole e dolenti che già le commedie scritte per il
99A sostenerlo è A. Barsotti in La drammaturgia di Eduardo De Filippo, op. cit., p. 47. La sua
ricostruzione cronologica poggia - dichiara la studiosa - su una lettera a lei inviata dallo stesso De Filippo in data 22.2.1983.
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«Teatro Umoristico» mostravano, sia pur timidamente101. A spingerlo in questa
direzione non è solo il frutto della lunga riflessione artistica che Eduardo ha condotto su di sé, ma anche – o forse soprattutto – la mutata congiuntura storica in cui affonda il nostro paese.
Sono gli anni terribili della seconda guerra mondiale, anni di incertezza e di abbandono del popolo a se stesso, anni in cui la miseria, le sofferenze, le difficoltà e la sfiducia generalizzata paiono avere la meglio sui valori che fino ad allora avevano fondato le norme del vivere sociale. Ciò che è più grave è che agli sconfitti ideali non ne subentrano automaticamente dei nuovi; semplicemente, gli individui versano in uno stato di totale disorientamento in cui la vicinanza e il sostegno reciproco non sono che un lontano ricordo, offuscato dalla fame e dalle necessità più stringenti. Guardandosi alle spalle, Eduardo riconosce alla crisi bellica un ruolo di spartiacque all’interno della propria produzione drammaturgica: prima, le opere che tentavano senza successo di resuscitare un universo già morto e sepolto – ma il tempo avrebbe rivelato quanto infondato fosse questo giudizio disfattista, dimostrando come alcune tra le sue più precoci commedie si configurassero già come dei veri e propri classici; dopo, una scrittura capace di cogliere nel segno, di dare vita sul palco a ciò che accadeva fuori dal teatro. In sintesi: una scrittura contemporanea, attuale, attenta ai fenomeni che giorno per giorno andavano sviluppandosi:
In quelle commedie [dell’anteguerra] volevo mostrare il mondo dell’intreccio e dell’intrigo e dell’interesse: l’adultero, il giocatore, il superstizioso, l’indolente, l’imbroglione. Tutte componenti di un riconoscibile e definibile modo di vivere napoletano appartenente al XIX secolo. In quelle commedie ho tenuto in vita una Napoli che era già morta in parte e in parte era coperta e nascosta dalla paternalistica premura del regime fascista e che se dovesse rinascere oggi sarebbe vista in maniera differente, e sotto un aspetto differente.
101«Noi avevamo compreso che «il teatro napoletano» essendo alla base essenzialmente comico e più
spesso «grottesco», aveva bisogno, per questo, in alternativa sapientemente equilibrata, di riflessi seri tra quelli buffi: dal bianco al nero insomma e viceversa» - dichiara Peppino in Una famiglia difficile, Marotta, Napoli, 1977, p. 255, citato in F. Di Franco, Le commedie di Eduardo, op. cit., p. X.
La sua osservazione sembra ricollegarsi quasi letteralmente alla già ricordata dichiarazione programmatica del padre Eduardo Scarpetta, alla cui opera il «Teatro Umoristico» intendeva agganciarsi, salvo perfezionarla, nelle intenzioni di Peppino, attraverso il conferimento di un sentore più agro a testi che comunque restavano schiettamente comici.
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Il nuovo secolo, questo XX secolo non è giunto a Napoli che con l’arrivo degli Alleati: la seconda guerra mondiale, qui, mi sembra ha fatto passare cento anni in una notte. E se così tanto tempo è passato, allora ho bisogno di scrivere di altre cose. […] Sento questo bisogno di cambiare, di raccogliere la sfida dell’oggi; se non lo facessi, mi sembrerebbe di essere diventato inutile. Il tipo di teatro che mi attira adesso, riduce l’abituale intreccio, l’intrigo e la meccanica al minimo, e cerca di toccare i fatti della vita, della vita di tutti i giorni; e forse mi permetterà di buttarci dentro ogni sera qualcosa di nuovo, qualunque cosa che durante il giorno mi abbia sufficientemente impressionato102.
In un simile clima, come abbiamo accennato, sempre più spesso Eduardo dà la parola a personaggi che in realtà hanno tutta l’aria di essere suoi portavoce, nella misura in cui esprimono il profondo bisogno di rifondare un genere umano malato, divenuto sordo e avido, incapace di ascoltare e di essere ascoltato, estraneo a qualsiasi dimostrazione di solidarietà. I protagonisti delle sue opere – nonostante il loro atteggiamento per certi aspetti succube e la posizione spesso esautorata che occupano; a dispetto del loro carattere bonariamente faceto o candidamente illuso - si ergono insomma ad alfieri di un sospirato nuovo umanesimo, di una società più giusta che talvolta sembra possibile, talaltra sfugge loro dalle dita, sotto la pressione dello scontro con gli altri personaggi, ovvero col mondo che ne osteggia le ragioni. Ecco allora che l’immaginazione, il sogno, la magia, finanche i fantasmi fanno il loro ingresso in scena, a rappresentare degli universi alternativi in cui il cambiamento che essi domandano con forza e insistenza può finalmente prendere forma. E difatti, pur osservando l’intransigente imperativo della verità storica e sociale, la drammaturgia di De Filippo non è affatto apparentata – si badi – alla corrente neorealistica che imperversava nel secondo dopoguerra; e non lo è perché egli non smise mai di credere nella possibilità di abbattere il confine tra realtà e invenzione, tra vita e creazione artistica, e di poter liberamente circolare fra questi due regni solitamente nemici, procedendo ora in una direzione ora nell’altra. E forse è proprio grazie al crollo di tali frontiere che i suoi protagonisti acquistano quel più simbolico cui solo i prodotti della fantasia possono accedere, liberi come sono da qualsivoglia
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R. Iacobbi, Napoli milionaria!, in «Il Cosmopolita», 1945, citato da F. Di Franco, Le commedie di Eduardo, op. cit., pp. XI-XII.
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connotazione o limitazione. Altrimenti detto, la storia, filtrata attraverso l’arte, si eterna:
Le diverse situazioni drammatiche del teatro eduardiano sempre più tenderanno a riconoscersi nell’opposizione primaria fra un protagonista maschile e tutti gli altri personaggi nel ruolo di antagonista collettivo. Ma il personaggio centrale diventa interprete e mediatore di una condizione umana che supera i confini geografici, sociali e culturali da cui è originato: pur possedendo specifiche connotazioni, rappresenta un intero modo di rapportarsi all’esistenza; anche perché la focalizzazione multipla degli altri personaggi assicura alla materia scenica un’impostazione dialettica. Solo in questa prospettiva, il «Teatro di Eduardo» significherà anche «teatro del protagonista»103.
Questa seconda primavera del teatro eduardiano comincia nel 1945 con la scrittura di un testo la cui fortuna fu senz’altro meritata: Napoli milionaria!
Nella critica all’arte tutta partenopea dell’arrangiamento, a
quell’attaccamento alla vita e al benessere che porta gli individui a sconfiggere ogni concreta avversità ma che li scava interiormente avanzata da un padre detronizzato nonché reduce di guerra per volere del caso, si avverte l’aderenza alla reale situazione di Napoli e, per estensione, dell’intera nazione. D’altra parte la miseria spirituale che si contrappone alla ricchezza materiale ottenuta grazie al contrabbando, questo doloroso rovescio della medaglia non impedisce a Gennaro Jovine di levare alta la sua invocazione di una palingenesi morale, sociale e storica, di una rinascita del paese in seguito all’uscita dal buio tunnel del ventennio fascista e del conflitto mondiale. Le sue parole, accolte sul finale dell’opera dai familiari pentiti e redenti, sono però rivolte anche ad un altro interlocutore, un destinatario insieme più ampio e “vero”: il pubblico seduto in sala, chiamato anch’esso alla lunga ma speranzosa attesa della fine della notte e del sorgere di una nuova alba.
Non si tratta però di una morale consolatoria né, tanto meno, di un altisonante
eroismo preconfezionato del protagonista, entrambi risultando piuttosto
dall’esperienza, da un brusco contatto con la Storia di fronte al quale non è concesso restare impassibili e che non lascia certo immutati. Quella qui come altrove proposta
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è dunque una morale “storica”, vale a dire – spiega Lucio Villari - una «superiore
consapevolezza della difficoltà del vivere e dell’agire»104
raggiunta solo dopo aver esperito il turbamento, lo sconvolgimento totale del proprio microcosmo.
Eduardo doveva essere ben cosciente del valore di rottura con tutto ciò che aveva creato fino ad allora, se è vero, come dichiarò in un’intervista, che durante la messa in scena «a Roma, alla fine del primo atto, mi diressi verso la ribalta e dissi al pubblico: “Questo primo atto umoristico è legato al vecchio teatro fatto finora. Dal
secondo atto nasce il mio nuovo teatro”»105
.
Nessuna sorpresa allora che quando, in seguito, Eduardo decise di raggruppare la propria produzione drammaturgica in quattro volumi complessivi per le edizioni Einaudi, proprio con Napoli milionaria! si alzasse il sipario sui cosiddetti
giorni dispari – ossia i giorni infausti, duri, angosciosi della guerra e
dell’occupazione, in un primo momento, ma che si dilatarono poi ad accogliere le molte crisi che sarebbero seguite, il periodo del detestato boom economico e dell’ affermazione del terribile binomio consumismo-conformismo – a separarli in maniera irreversibile da quelli pari, l’epoca cioè della gioventù del nostro autore,
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L. Villari, Eduardo: il senso e la malinconia della storia, in «Nuovi argomenti» n. 15, luglio- settembre 1985, p. 4.
105L. Madeo, L’attore, tradizione e teatro raccontato dal grande Eduardo, «La Stampa», 5 aprile
1981, citato in F. Di Franco, Le commedie di Eduardo, op. cit., p. XI.
La consapevolezza della propria inversione di rotta affiora con grande nitidezza anche dall’emozionato ricordo della prima di Napoli Milionaria!, svoltasi il 25 marzo 1945 presso il Teatro San Carlo di Napoli. Racconta con crescente commozione Eduardo: «Quasi tutti i teatri erano requisiti. C’era il fronte fermo verso Firenze. C’era la fame, e tanta gente disperata. Ottenni il San Carlo per una sera. I professori dell’orchestra, per assistere allo spettacolo, si erano infilati nel golfo […] Arrivai al terzo atto con sgomento. Recitavo e sentivo attorno a me un silenzio assoluto, terribile. Quando dissi l’ultima battuta: ‘Deve passare la notte’, e scese il pesante velario, ci fu un silenzio ancora, per otto, dieci secondi, poi scoppiò un applauso furioso, e anche un pianto irrefrenabile, tutti avevano in mano un fazzoletto, gli orchestrali del golfo mistico che si erano alzati in piedi, i macchinisti che avevano invaso la scena, il pubblico che era salito sul palco, tutti piangevano e anch’io piangevo, e piangeva Raffaele Viviani che era corso ad abbracciarmi».
L’intervista, rilasciata a Enzo Biagi e pubblicata in «La Stampa», Torino, 5 aprile 1959, è citata da G. Antonucci in Eduardo De Filippo. Introduzione e guida allo studio dell’opera eduardiana. Storia e antologia della critica, op. cit., pp. 32-3.
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bipartita tra la spensieratezza che solitamente connota questa stagione della vita e il
clima di disfacimento legato al disastroso ventennio fascista106.
A conferma di quanto precedentemente sostenuto - ovvero che il grande mondo e i suoi rovesciamenti, la Storia con la s maiuscola entrino sì nelle commedie del nostro artista, ma sempre e soltanto attraverso il filtro ristretto della prospettiva del protagonista – ci sembra giunga anche il riferimento al genere musicale
contenuto nel titolo della raccolta: cantata107. Sbocciata nei primi anni del
diciassettesimo secolo e in voga fino al diciannovesimo, la cantata designava un componimento dallo stile monodico, in cui solitamente una voce solista accompagnata da un basso continuo alternava arie a recitativi. Genere ispirato ad un intimo, soffuso lirismo, la cantata era tuttavia, soprattutto nel periodo dei suoi albori, caratterizzata da una grande varietà di toni, la cui vasta gamma andava dalla gaia o buffa canzonetta, all’aria spiccatamente elegiaca, fino a registri più prettamente drammatici; per cui si capisce il motivo che spinse De Filippo ad ascrivere il proprio teatro fatto al contempo di lagrime e riso, di commozione e sdegno, a tale tradizione. Tanto più che questo genere musicale, conosciuto in tutta Europa, trovò in Italia la sua culla e fu portato ad alti livelli proprio dalla florida scuola napoletana in cui
106D’altronde sarebbe scorretto imputare la natura più evasiva delle prime commedie di Eduardo
unicamente al saldo cordone ombelicale che ancora le connetteva al teatro comico di matrice scarpettiana, all’avanspettacolo, alla farsa e al Varietà, senza tener conto dell’impedimento concreto costituito dalla dittatura allora al potere. A tal proposito egli narra un episodio davvero curioso: «Nel ’27 scrissi Ditegli sempre di sì. È uno dei miei primi lavori. Quella era l’epoca d’oro del fascismo ed il titolo era allusivo. […] Mi trovavo a Torino a recitare questa commedia e quando finì il primo atto l’impresario, che si chiamava Chiarella, venne nel mio camerino e mi disse: «Eduardo, tu devi uscire adesso fuori del sipario e devi dire qualcosa al pubblico perché è stata proclamata la fondazione dell’Impero». Prima che iniziasse il secondo atto io mi presentai al pubblico e dissi: «L’impresario Chiarella è venuto a dirmi una cosa meravigliosa. Questa commedia è fortunata perché è cominciata in un regno e finisce in un impero! Ditegli sempre di sì!» Tutti quanti a ridere». E commenta così la produzione di quegli anni: «Erano allusioni, allegorie, un po’ di fantasia dentro, e poi si dava la battuta. Ma fino a quando c’era il fascismo ho dovuto chiudere dentro tutto quello che c’era da dire». [P. Quarenghi (a cura di), Eduardo De Filippo. Lezioni di teatro all’Università di Roma «La Sapienza», op. cit., pp. 107-8].
107 Rispettivamente, la Cantata dei giorni pari, in un unico volume edito per la prima volta nel 1959,
riunisce le opere scritte fra il ’20 e il ’42, ovvero comprese entro gli estremi di Farmacia di turno e Io, l’erede; la Cantata dei giorni dispari, in tre volumi - il primo dei quali vide la luce nel 1951 -, contiene i testi scritti fra il ’45 e il ’73, vale a dire da Napoli milionaria! a Gli esami non finiscono mai.
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brillarono personalità di spicco quali Francesco Provenzale e Alessandro Scarlatti. Un omaggio alla cultura partenopea è del resto contenuto anche negli attributi che figurano nelle due raccolte, ove pari e dispari, oltre a designare rispettivamente i giorni fausti e quelli infausti, potrebbero conservare memoria dell’universo di numeri che per ogni buon napoletano costituisce un vero e proprio linguaggio alternativo, non meno familiare del dialetto, alla base tra l’altro del popolarissimo gioco del lotto. E ancora un altro indizio interpretativo il titolo delle raccolte potrebbe recare con sé: vale a dire l’innalzamento del tono e l’accentuazione della natura
“
operativa” dei testi del nostro artista, se è vero, come nota Villari, che «la cantata,antichissimo componimento musicale, proprio negli anni della maggiore produzione drammaturgica di Eduardo, aveva avuto in Italia […] una particolare connotazione
sociale e politica che esprimeva, anche musicalmente, l’angoscia della guerra»108.
Dovremmo dedurne, come fa lo studioso, «che cantata fosse per Eduardo qualcosa di
più di “commedia”, quasi una sigla allusiva del suo impegno politico»109
.
Prima ancora del suo coinvolgimento nella vita politica del paese, coronato dalla nomina a senatore a vita nel 1981, è infatti attraverso il teatro che Eduardo combatte le proprie battaglie che definirei però civili, poiché si collocano sempre al di fuori – e al di sopra – di ogni bandiera o colore politico. È un impegno che, sebbene presente anche in opere precedenti – si pensi ad esempio all’agguerrita lotta di una madre, Filumena Marturano, affinché i suoi figli vengano riconosciuti legittimi e sfuggano così alla waste land costituita dai figli di N.N. – si approfondisce sempre più a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta.
L’Italia si è ormai lasciata alle spalle fame e miseria e conosce invece un periodo di ritrovato benessere economico che si traduce immediatamente in un frenetico, cinico consumismo. È l’epoca in cui lo stile di vita americano si impone nel belpaese e non conosce rivali, contribuendo - come rileva il sensibilissimo sismografo dei mutamenti sociali, ché altro non è la penna di Eduardo - allo
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L. Villari, Eduardo: il senso e la malinconia della storia, art. cit., p. 6.
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svuotamento dei valori tradizionali di comunità e famiglie italiane e alla promozione di un sostanziale disinteresse reciproco e di una disarmante superficialità, fino alla caduta di quello stesso modello proveniente d’oltreoceano appena affermatosi.
De Filippo reagisce a tale depauperamento umano inscenando con crescente frequenza la crisi dell’istituto che per lui rappresenta lo scrigno dei più alti ideali di civiltà e armonia, dei sentimenti ancestrali che dovrebbero regolare il vivere comunitario: la famiglia.
L’insistita ricorrenza del familiarismo eduardiano risale in realtà a tempi più
remoti, tanto che la sua intera produzione - osserva Puppa - «si potrebbe allora
rileggere quale un dialogo di famiglia a puntate, dalle prime comiche, attraverso poi risvolti crepuscolari fino alle cantate più dispari, ai drammi neri in coincidenza