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La supposta ispirazione pirandelliana della commedia - manifesta almeno nella ripresa del nome del protagonista - getterebbe nuova luce anche sugli altri personaggi della pièce, la cui onomastica pare comunque memore del presunto ipotesto del 1918.

Procedendo con ordine, mi sembra che i motivi che spinsero Eduardo a battezzare il proprio portavoce Guglielmo Speranza risiedano nel significato che lo stesso Memmo conferisce al proprio nome in Ma non è una cosa seria. Volendo

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convincere i presenti della genialità della propria trovata e troncare la resistenza di Gasparina al matrimonio per burla, spiega infatti il protagonista:

MEMMO [...](A Gasparina) Prenderai solo un’ipoteca legale sul mio nome. Capite, signori? In comune, soltanto il nome, che non è neanche un nome proprio, vi faccio osservare: «Speranza»! comunissimo! Chi non ne ha166?

Un nome comune risulta particolarmente adatto a designare un personaggio che voglia simboleggiare l’umanità intera, com’è dichiarato a chiare lettere nel prologo degli Esami; tanto più che nel corso dell’opera lo vedremo spogliato di qualsiasi cosa gli appartenga, esautorato e scarnificato da una società avida oltre ogni misura e immaginazione. Tale destino – adesso lo capiamo – è racchiuso e preconizzato dal cognome stesso del protagonista, un nome comune appunto, non proprio; un cognome che a torto egli crede suo, poiché in verità non lo è affatto: appartiene a tutti, al pari dell’immagine, del corpo, dell’intimità, della professione e della vita familiare che Guglielmo sbaglia a reputare suoi, come in seguito sarà costretto a riconoscere. Non solo: la battuta del personaggio pirandelliano che abbiamo appena ricordato annuncia anche la triste sorte cui andrà incontro l’istituto familiare nella tarda opera di De Filippo, ove solo un nome testimonierà un’unione che non tiene più conto dei legami di sangue, dell’ascolto e della comprensione reciproci che a rigore dovrebbero costituire la dolcezza dell’humus domestico. Negli Esami dei rapporti tra i membri di tale cellula non resterà che il guscio vuoto insomma, come era già avvenuto nel Giuoco delle parti di Pirandello.

Non escluderei che anche il nome della protagonista di Ma non è una cosa

seria, Gasparina Torretta, risuonasse nelle orecchie dell’autore partenopeo, quando

166Ivi, p. 31.

La battuta, pressoché identica, compariva già nella novella La signora Speranza, ove Biagio esclamava rivolto a Carolina Pentoni - detta anche Pentolona Carolini nonché, per amor di sintesi, Carolinona -, la modesta proprietaria di pensione che intendeva prendere in moglie: «In comune, davanti alla legge, solo il nome, che non è neanche un nome proprio, vi faccio notare, signori: Speranza, nome comune. Non so che farmene, e te lo cedo volentieri» . [In L. Pirandello, Novelle per un anno, edizione integrale in un solo volume a cura di Italo Borzi e Maria Argenziano, Newton Compton Editori, Roma, 2006, p. 1385].

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decise di chiamare la propria creatura Gigliola Fortezza – nome che, sebbene mantenga una certa assonanza con quello pirandelliano, mostra però un ispessimento semantico tutto eduardiano, volto ad ammantare la giovane di un’aura di purezza soltanto apparente, come tra un attimo avremo modo di osservare.

Ma in questo caso non un’analogia collega i due personaggi femminili, ma al contrario una netta opposizione. I caratteri, gli atteggiamenti, le aspettative e le estrazioni sociali di queste donne non potrebbero essere più distanti e anzi, la bontà d’animo, la tenacia e l’umiltà di Gasparina la assimilano piuttosto alla rivale di

Gigliola: Bonaria, l’amante di Guglielmo167

. Entrambe si rivelano infatti capaci di sconfinato altruismo e di una tenerezza del tutto disinteressata in nome della quale sono pronte a sacrificare se stesse, compiendo un gesto che solo ad un’analisi superficiale potrà essere scambiato per remissività. Perché in realtà esse sono persone dotate di grande forza interiore, in grado di far fronte alla più cruda miseria e di conservarsi «miracolosamente» pure in mezzo alla corruzione e al malcostume diffusi che le circondano, per riprendere l’avverbio usato da Memmo. Perciò le loro decisioni andranno interpretate come le prove incontrovertibili di un amore sincero -

ma forse è meglio parlare di affetto, nel caso di Gasparina168 -, non come i sintomi di

un’indole debole che non sa opporsi al flusso degli eventi.

Fortezza e Torretta: due cognomi parlanti, verrebbe da dire, che trasmettono un’idea di sicurezza, di stabilità. Ma mentre la gentile signorina di Ma non è una cosa seria manifesta tale qualità attraverso la sua indefessa opposizione alle asprezze e alle ingiustizie cui la vita la espone, il cognome Fortezza vuol evidenziare con ogni probabilità non già un pregio, bensì la macchia più turpe del personaggio che

167Si noti che entrambi i nomi, Gigliola e Bonaria, rimandano a un’idea di nitore morale, di candore

spirituale; il ché non fa che mettere in maggior risalto la parodica stonatura, il grottesco contrasto tra nomenclatura ed essenza, nel caso della moglie del protagonista. Nome ossimorico, volutamente stridente il primo; nome perfettamente calzante, descrittivo e rappresentativo della persona il secondo.

168 Nonostante la Torretta pirandelliana affermi di desiderare per prima lo scioglimento del

matrimonio con Memmo Speranza, le sue parole non convincono, e che si tratti in realtà di un sacrificio ch’ella sarebbe disposta a compiere per porre fine alle sofferenze del giovane rivela – suo malgrado - il rifiorito aspetto fisico della donna, che meglio di mille parole esprime il giovamento e il benessere che il rilassato stile di vita concessole dalle recenti nozze le aveva apportato.

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designa, vale a dire l’inamovibile formalismo di Gigliola, la sua gretta chiusura verso il prossimo che si traduce in un bigotto conservatorismo, nella deriva morale sua e

degli altri membri di quello che definiremmo un clan, piuttosto che una famiglia169.

A fronte dei casi fin qui esaminati, mi si permetta di rilevare un’ultima spia onomastica, suggerita, questa volta, da un cognome altrettanto eloquente: La Spina, affibbiato al subdolo antagonista di Guglielmo. Nessun dubbio che De Filippo lo abbia scelto proprio per sottolinearne l’ipocrisia, per smentirne fin dal principio ogni costruzione mistificatrice, bollandolo indelebilmente come una spina nel fianco del protagonista, nonostante egli ami definirsi il personale angelo custode dello Speranza. Colpisce però – e fa riflettere – il fatto che nella commedia del ’18 il fraterno amico di Memmo possedesse un cognome dotato di un’evidenza ugualmente lampante: Lamanna. E di fatto Vico – tale il suo nome – non perdeva occasione per dimostrare al protagonista la propria affettuosa apprensione, quando egli, acceso da nuovo amore per la fanciulla cui aveva promesso e poi negato le nozze, avrebbe voluto correre da lei, incurante della coltellata ricevuta dal di lei fratello. Il personaggio pirandelliano rappresentava dunque una vera benedizione, o così dovette sembrare a Eduardo, quando per tutta risposta battezzò la propria luciferina creatura La Spina.

Ricapitolando: lo spensierato – per non dire scapestrato – protagonista cede il passo ad un vero e proprio campione di senno e responsabilità; la compagna dagli

169L’irrimediabile perdita dei valori connessi al concetto di famiglia e la loro sostituzione con una

glaciale incuranza del prossimo sono riflessi dagli stessi ambienti in cui si snocciola l’esistenza di Gigliola. A cominciare dalla dimora paterna, prima e fondamentale scuola di conformismo e di rinnegamento dei sentimenti per la promettente discente. All’abitazione dei Fortezza - nonostante l’impressione di veneranda rispettabilità che non manca di suscitare negli ospiti e l’imponenza dell’antico mobilio - è del tutto estranea quella grazia leggiadra che aleggia nel rustico appartamentino ceduto da Memmo a Gasparina nei tre atti pirandelliani. Essa è infatti il risultato di un incontro, di un fertile abbraccio tra l’eleganza e la raffinatezza di lui e la genuina – ma accurata – semplicità della donna; laddove invece la proprietà della famiglia Fortezza è tanto appariscente quanto anonima, assolutamente incapace di comunicare alcunché a proposito dei suoi inquilini, men che mai una qualche armonia o una loro felice complementarietà. Perciò, se la conclusione di Ma non è una cosa seria prefigura l’inizio della vita coniugale di Memmo e Gasparina in un interno delizioso, vitale e assolato che certamente diverrà il loro nido d’amore; ecco che il finale degli Esami ci mostra il lento estinguersi del protagonista in un salone buio e disordinato, riempito non dall’affetto dei parenti, bensì da cumuli di libri e giornali, unica compagnia di Guglielmo.

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umili natali ma dal cuore grande e generoso diviene un’inacidita borghese dall’animo meschino; mentre il fido compare, dietro i suoi ridanciani effluvi di cameratismo, cova adesso un’invidia cieca per il protagonista e un incoffessabile desiderio di rovinarlo.

Forti di tali conclusioni, accantoniamo adesso l’affascinante scienza dei nomi per tentare di stabilire altri possibili punti di contatto tra queste due pur diversissime commedie, ribadendo ancora una volta che attraverso tale operazione non intendiamo assolutamente porre la pièce eduardiana in un rapporto di filiazione diretta da quella del siciliano – ciò che sarebbe azzardato, vista e considerata l’irriducibile alterità dei due testi.

Potremmo ad esempio ipotizzare che l’ardita operazione di rovesciamento condotta da De Filippo a partire dall’opera pirandelliana in ambito onomastico emerga altresì da un certo opposto andamento, dalla direzione contraria percorsa dalle due opere, che riassumerei così: dallo scherzo alla serietà in Ma non è una cosa

seria; dal giudizio all’irrisione negli Esami non finiscono mai.

Un cammino di maturazione e progressiva consapevolezza di sé e delle proprie aspirazioni è quello compiuto dal pirandelliano Memmo Speranza, il quale solo al calar del sipario scoprirà la verità nascosta dietro la burla; troverà un appagante amore proprio in quel matrimonio nato come negazione stessa dell’amore, suggerito com’era dall’acuta prontezza - che tanto piaceva al Boccaccio - di chi, volendosi cavar dall’impiccio, opta per il riso. E l’invito alla leggerezza, a prendersi gioco dei casi della vita attraversa l’intera commedia, essendo incessantemente reiterato - quasi un ritornello - dal professor Virgadamo, uno degli affezionati ospiti della pensione Torretta, che frequenta unicamente perché lì si fan grosse risate - come dichiara apertamente. Memmo Speranza, il cui ingresso in scena apre sempre i battenti al buonumore, rientra ovviamente nelle sue grazie e continuamente l’anziano professore di pedagogia lo incoraggia a mantenere intatta la propria freschezza, la propria indole gaia e scanzonata.

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Viceversa, il traguardo finalmente raggiunto dal protagonista di Ma non è una

cosa seria è qualcosa di già acquisito, di innato per l’assennato Speranza eduardiano.

Egli non sposa per scherzo ma per amore; un amore sbocciato da un subitaneo colpo di fulmine e gradualmente appassito a causa dell’interminabile serie di prove che Guglielmo è tenuto ad affrontare, prima di potersi unire a Gigliola. Ancora una volta dunque l’iter è opposto, se nella pièce del Maestro agrigentino a delle nozze improvvise, bislacche e strampalate corrisponde poi un lento processo di conoscenza e innamoramento reciproci.

Tuttavia, sebbene gli sia del tutto estranea la vena scapestrata e bohémienne dell’avo pirandelliano, anche la maschera di De Filippo percorre l’irto sentiero che conduce alla consapevolezza. Benché saggio e inquadrato per disposizione naturale, Guglielmo raggiungerà la fatale soglia soltanto al termine della propria esistenza, amaro coronamento dell’interminabile serie di esami sostenuti.

Ma non di se stesso deve prendere coscienza il protagonista eduardiano – come spettava invece al Memmo di Ma non è una cosa seria – bensì degli altri, e tale aspro cammino non condurrà ad un roseo lieto fine, ma allo sdegnoso rifiuto di un mondo la cui ignobile forma sistematicamente non combacia con la bella facciata che ostenta170.

170Al termine della metamorfosi che si snoda lungo l’intero arco della pièce, il nostro Guglielmo

reduce dalla miriade di sfide affrontate somiglia piuttosto al Perazzetti protagonista della novella Non è una cosa seria, che non al Memmo Speranza della commedia che ne derivò. Gli scoppi di risa che tanto somigliano al verso di un’anatra e che sistematicamente assalgono il Perazzetti come delle vere e proprie crisi, alimentando la sua universale fama di pazzo, non sono in realtà frutto di una «fantasia mobilissima e quanto mai capricciosa» - come la definisce ironicamente Pirandello -, ma il prodotto di uno spiccatissimo senso critico, di un’autentica conoscenza del genere umano. La sua infallibile capacità d’osservazione gli ha infatti consentito di carpire un segreto: l’inappianabile contrasto tra l’essenza bestiale degli individui e l’impeccabile apparenza dietro cui essa si cela. È dunque la percezione di tale grottesca sproporzione la ragione del misterioso «anatrare» del protagonista: «Sapeva bene Perazzetti, per propria esperienza, quanto in ogni uomo il fondo dell’essere sia diverso dalle fittizie interpretazioni che ciascuno se ne dà spontaneamente, o per inconscia finzione, per quel bisogno di crederci o d’esser creduti diversi da quel che siamo, o per imitazione degli altri, o per le necessità e le convenzioni sociali. Su questo fondo dell’essere egli aveva fatto studii particolari. Lo chiamava l’antro della bestia. E intendeva della bestia originaria acquattata dentro a ciascuno di noi, sotto tutti gli strati di coscienza, che gli si sono a mano a mano sovrapposti con gli anni. L’uomo, diceva Perazzetti, a toccarlo, a solleticarlo in questo o in quello strato, risponde con inchini, con sorrisi, porge la mano, dice buon giorno e buona sera, dà magari in prestito cento lire; ma guai ad

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Quando la mostruosa «pompa a filtro» del calcolo distaccato e straniante ha aspirato ogni briciola di umano calore, ha risucchiato finanche l’ombra della benefica freschezza degli affetti, l’inno al riso e al godimento della vita innalzato dal vecchio Virgadamo non può che tradursi nell’agghiacciante risata di Guglielmo, posta a sigillo di una tragica epopea, di una definitiva rottura con un universo che non merita altro se non polemica irrisione.

andarlo a stuzzicare laggiù, nell’antro della bestia: scappa fuori il ladro, il farabutto, l’assassino». [In L. Pirandello, Novelle per un anno, op. cit., p. 964].

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C

APITOLO

V

R

ITRATTO DI UNA FAMIGLIA

-

BESTIARIO

C

ONSIDERAZIONI SUI PERSONAGGI DELLA COMMEDIA

L’umanità che popola le pagine degli Esami è intrisa fin nel midollo del più meschino egoismo. Quel che è più grave è che i personaggi della commedia non sono stati indotti a disinteressarsi dei propri simili - ad affliggerli persino - da una condizione di drammatica necessità: non l’indigenza ha insegnato loro a mettere se stessi al primo posto. Dimentico della miseria e della fame, questo agghiacciante campionario umano dimostra quanto gratuite siano invidia e crudeltà, quando da troppo tempo si è vittime del conformismo e del biglietto di banca. Del resto lo abbiamo spesso ripetuto: di fronte al naufragio dei valori più autentici, dei veri pilastri della civiltà, De Filippo ci indica che questi due simulacri rappresentano le sole bandiere sopravvissute al deflagrare del cosiddetto boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta; bandiere che sventolano sinistramente allo spirare impetuoso di un’ipocrita superficialità.

Per averne piena coscienza basterà porre a confronto due opposte rese di una medesima situazione: quella dell’assistenza prestata ad un parente moribondo rispettivamente nella commedia giovanile Natale in casa Cupiello e nell’ultima prova drammaturgica, Gli esami non finiscono mai.

Memori come siamo della distrazione e dell’automatismo con cui i familiari di Guglielmo gli somministrano pillole come fossero caramelle, niente potrebbe toccarci più di quell’apprensiva folla di amici, vicini e parenti assiepati attorno al letto di Luca Cupiello, il candido protagonista che, dopo aver scoperto le molte incomprensioni e i dissapori che hanno attecchito, a sua totale insaputa, sotto il tetto di casa propria, resta schiacciato dal peso di tale dolorosa scoperta. Egli soccomberà - ne è certo lo spettatore al calar del sipario. Ciononostante la sua morte non avverrà invano: i suoi congiunti hanno infatti ritrovato la perduta unità, che ha il pungente,

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aulentissimo aroma del caffè che riempie l’aria della propria invitante fragranza, in un perpetuo circolare di tazzine da una mano all’altra degli astanti. Un quadro forse un po’ goffo – in cui le nuove generazioni si perdono in discorsi non esattamente appropriati e un marito ritardatario, sinceramente combattuto sulla scelta di attendere il risveglio di Lucariello o correre al posto di lavoro, ne approfitta per carpire alla moglie informazioni sul menù del pranzo – ma pulsante di vero affetto e d’amore. Quell’amore che l’agonizzante pater familias si compiace di contemplare, dopo averlo inseguito per tutta la vita sotto le mitiche sembianze del Presepio:

[...] Luca disperde lo sguardo lontano, come per inseguire una visione incantevole: un Presepe grande come il mondo, sul quale scorge il brulichio festoso di uomini veri, ma piccoli piccoli, che si dànno un da fare incredibile per giungere in fretta alla capanna, dove un vero asinello e una vera mucca, piccoli anch’essi come gli uomini, stanno riscaldando con i loro fiati un Gesù Bambino grande grande che palpita e piange, come piangerebbe un qualunque neonato piccolo piccolo171...

A Guglielmo Speranza invece non sarà data la possibilità di spegnersi con un estasiato sorriso dischiuso sulle labbra; o di esclamare, al culmine della gioia: «Ma

che bellu Presebbio!»172, osservando coloro che lo circondano; né tanto meno godrà

del ritrovamento dei propri cari, in punto di morte173. Tutt’altro: i personaggi che,

suo malgrado, fanno parte della vita del nostro protagonista paiono fare a gara, quanto a bassezze, viltà, rancori mal sopiti e calunnie maliziosamente messe in circolo sul suo conto.

In sostanza, nella commedia del ’73 avvertiamo la dolorosa mancanza della riconciliazione finale, dell’estrema ricezione dell’ osteggiato messaggio incarnato dal

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E. De Filippo, Natale in casa Cupiello, in Cantata dei giorni pari, Einaudi, Torino, 2015, p. 412.

172Ibid.

173Il confronto tra le due scene al fine di metterne in luce la radicale alterità è proposto anche da Anna

Barsotti, la quale, riferendosi al terzo atto degli Esami, scrive: «L’epilogo, con la sua topica crisi di cordoglio, riconduce a quello di Natale in casa Cupiello: nella ‘fine’ il ‘principio’ del teatro di Eduardo? Qui però all’ansia sincera e naturalmente istrionica dei famigliari e dei vicini si sostituisce l’enfasi evidentemente falsa di marionette borghesi, irrigidite in una distratta ripetizione di gesti e di parole; e al coro d’insieme non si contrappone più il balbettio delirante ma ostinatamente utopico di un Lucariello-Don Chisciotte, bensì il silenzio dispettosamente scettico di un Guglielmo che non ha più Speranza». [A. Barsotti, Introduzione a Eduardo, op. cit., p. 162].

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protagonista che ci faceva dimenticare i precedenti squilibri e gli attriti che avevano impedito la comunicazione tra i Cupiello. Anzi, negli Esami De Filippo dimostra come proprio entro le mura di casa si radichino di preferenza diffidenze, sfiducie ed astio reciproci; come non solo la famiglia non sia affatto un vivificante luogo di incontro e di crescita, ma si arrivi persino a desiderare la morte, pur di sfuggire agli esami di mogli, figli e nuore - i più zelanti e cinici membri di quell’asfissiante «commissione di controllo» di cui l’intera società fa parte.

A sei anni di distanza dal Contratto, Eduardo sembra fornire una seconda e più convincente prova di quanto pretestuosa fosse quella «catena d’amore» latrice di vita di cui il finto santone Geronta Sebezio si serviva per arricchirsi, alle spalle della credulità e della cattiveria altrui, racchiusa come in uno scrigno entro le spesse mura di casa174.

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Interdetto dai propri fratelli e costretto a vivere di espedienti, il protagonista della pièce del 1967 decideva di volgere a proprio vantaggio quella perfidia tutta domestica che era stata la causa prima della sua rovina, trasformandola in motivo di benessere economico e successo sociale. Come? Dietro promessa di una sicura resurrezione, Geronta induceva i propri sciocchi clienti a firmare un contratto morale nel quale si impegnavano - fra le altre cose - a donare un terzo del proprio asse ereditario ad un lontano parente da loro mal tollerato in vita, se non addirittura detestato. La rianimazione – superfluo specificarlo – non avveniva, e l’acclamato santo poteva dunque trattenere una lauta parcella dagli