• Non ci sono risultati.

Le più vistose innovazioni della commedia sono esposte in bella mostra nel prologo, elemento che già di per sé rappresenta un caso quanto mai isolato nella drammaturgia di De Filippo. Rileggiamone allora l’attacco:

138

A sala buia si alza il sipario mentre un fascio di luce bianca investe il centro di un sipario- comodino di velluto nero.

Con gesto rapido e padronanza del mestiere, Guglielmo Speranza si presenta al pubblico, spaccando in due il velluto nero e avanzando verso il centro della ribalta. Egli indossa un qualsiasi vestito da mattina e reca nella mano sinistra tre barbe finte: nera, grigia e bianca. Queste tre barbette posticce saranno di quelle che i comici guitti di un tempo, per rendere velocissime le loro trasformazioni, usavano fermare sui loro volti mediante cordoncini elastici e resistenti fili color rosa confetto. Dopo l’inchino d’obbligo, l’attore si toglie rispettosamente il berretto goliardico ricavato da un foglio di giornale e inizia il suo discorsetto introduttivo.

GUGLIELMO Pubblico rispettabile, signore e signori: il protagonista della commedia che ascolterete stasera si chiama Guglielmo Speranza. Non vi stupirete, spero, se questo personaggio, che io stesso farò vivere al centro della vicenda e che accompagnerò dalla giovinezza fino alla vecchiaia, non cambierà mai di abito: non può, non deve. L’ho chiesto all’autore e lui mi ha risposto: «L’eroe di questa commedia non è un “tipo”, bensì il prototipo di noi tutti, un eroe la cui esistenza è caratterizzata dagli aspetti positivi e negativi della nostra stessa esistenza, e perciò sarebbe impossibile trovare un vestito che rispecchiasse la sua complessa personalità». E ha precisato: «Un simbolo si riconosce per ciò che pensa e dice, non per il vestito che indossa». E poiché l’autore ha voluto risparmiarvi il personaggio «comodino», cioè la spalla, ogni tanto, nel corso dell’azione, io verrò qui a fare una chiacchieratina con voi, perché possiate apprendere dalla bocca stessa di Guglielmo Speranza il suo pensiero intimo sui fatti accaduti e le previsioni su quelli che dovranno accadere. In altri termini, la sua spalla sarete voi237.

Al levarsi del sipario non scopriamo il classico interno eduardiano studiato nel dettaglio e proiettato verso l’esterno attraverso scale, porte-finestre, balconi o fili del bucato che virtualmente connettono le piccole celle di una brulicante città- alveare; né tantomeno ci attende lo svolgimento di un’azione in medias res, con l’ingresso di domestiche affaccendate e l’accendersi di animate discussioni tra mogli e mariti, genitori e figli, fratelli e sorelle e via dicendo. Niente di tutto ciò: allo spettatore il palcoscenico appare stranamente immerso in una sorta di assonnato torpore, circondato com’è dalla più fitta oscurità. Inaspettatamente, dietro al pesante velario non appare una strutturata scenografia, bensì un secondo sipario. Ma ecco la vera sorpresa: ad infrangere la perplessa attesa giunge, annunciato da un fascio di luce, un attore, che dopo aver rapidamente guadagnato la ribalta, prende con gran disinvoltura la parola e senza troppe cerimonie si presenta al pubblico.

139

Dato certo singolare nel teatro di Eduardo, esso non è però un’assoluta novità. Si ricorderà infatti che in una commedia del 1958, seppur in un secondo momento rispetto all’alzarsi della tela, si era già verificato che un personaggio - rischiarato stavolta da un nostalgico raggio di luna - facesse capolino dai nascosti recessi in cui si trovava per affrontare senza timori il pubblico a tu per tu, essendo egli l’unico in scena. Mi riferisco alla pièce intitolata Il figlio di Pulcinella, ove così la maschera si mostrava al pubblico per la prima volta:

Contemporaneamente il raggio di luna che illuminava la misera baracchetta si ravviva fino a raggiungere un’intensità che riesca a mettere in evidenza ogni dettaglio del posto che investe. La porticina di quella casupola si apre e si richiude un paio di volte, timidamente, come spinta e ritirata da qualcuno che abbia paura di affrontare un pericolo. Dopo questo gioco a rimpiattino, vediamo finalmente spuntare, dallo spazio limitato dell’uscio socchiuso, la sola testa di Pulcinella. Una volta saggiato il terreno, il pavido servo inservibile, sguscia dal suo rifugio come una lumaca. E così, carponi come si trova, mezzo fuori e mezzo dentro, reclina il capo prima verso destra, fissando il pubblico con uno sguardo ambiguo e sornione, poi verso sinistra per osservare, con accorato senso di nostalgia, il panorama di Napoli238.

Privo della baldanza di Guglielmo Speranza e dando anzi prova di un atteggiamento alquanto esitante, Pulcinella fa la propria comparsa seguendo una scaletta affatto analoga a quella che abbiamo osservato nel prologo degli Esami.

Identico è inoltre l’indugio descrittivo sull’aspetto dei personaggi e sui loro movimenti, ciò che, se è vero che rappresenta una preoccupazione costante nella scrittura scenica di Eduardo, merita tuttavia un’attenzione particolare nei casi specifici.

A renderla necessaria, per quanto riguarda Il Figlio di Pulcinella, è il carattere tutt’altro che scontato che De Filippo conferisce ad una maschera plurisecolare e notissima - specialmente a Napoli, sua terra natìa - donandole tratti smaccatamente inediti che risulteranno poi funzionali allo sviluppo dell’opera. Un

movimento, quindi,dall’universale al particolare, o - che è lo stesso - dal prototipo

al tipo, si palesa nella trasformazione della sua espressione da vivace ad affranta,

140

della sua candida casacca in un logoro straccio e dei suoi capelli nero corvino in un canuto cespuglio aggrovigliato e scomposto:

Le sembianze dell’illustre «Acerretano» oltre ad essere mutate dall’ultima volta che il suo nome figurò sui cartelloni del San Carlino, precisamente per la tragica rappresentazione del dramma: «La dama bianca», presentano altresì certi segni caratteristici insoliti che suscitano in chi li osservi da critico e da cultore delle tradizioni, un vivo senso di sgomento e commozione insieme. Mentre, ad esempio, la tradizionale macchia che gli deturpa per metà il volto, è nerissima e lucida, gli angoli della bocca, smorta e tagliata ad arco su di uno spesso e sfacciato intonaco di biacca, si appesantiscono in due pieghe pessimistiche che si disperdono fra le innumerevoli grinze del mento e quelle a festoni del collo. Ciò che in lui dovrà deludere e sorprendere maggiormente è la folta capigliatura incolta e canuta la quale, cinta e compressa da un ciancicato e lercio «pan di zucchero» gli spiove sulla fronte e sulla nuca come vecchi fiocchi di lana caprina. Quella poi che dovrebbe essere la sua principale caratteristica, e cioè l’immacolata casacca, trionfo e splendore del suo glorioso passato, non è altro ormai che un misero cencio, sporco e rattoppato, da prendersi con le pinze239.

La sensazione che l’apparizione del Pulcinella eduardiano genera nel pubblico in sala, col suo amalgama di tratti consueti e inconsueti, familiari e sconosciuti, è quella di un perturbante di matrice freudiana, mentre l’effetto che il drammaturgo può così conseguire è di staccare in parte il proprio personaggio dalla lunga tradizione che lo precede e di donargli, in qualche maniera, un valore aggiunto rispetto a quella.

Un movimento di senso contrario si verifica invece negli Esami, dove il protagonista Guglielmo Speranza deve essere astratto, nelle intenzioni dell’autore, dalla sua individualità per accedere così all’universalità del simbolo, per assurgere dal livello di tipo a quello di prototipo. In questi termini egli stesso si descrive e la

sua emblematica rappresentatività di «Allegoria della condizione umana»240 è

sottolineata, anche visivamente, dal suo abbigliamento, la cui fissità unita all’estrema semplicità della veste da camera - grigia nell’edizione televisiva dell’opera - che indossa, proprio in ragione del suo carettere anonimo e impersonale risulta

particolarmente adatta a figurare l’universale241

. Senza contare che il contrasto che

239Ivi, p. 266.

240Come la definisce Anna Barsotti in Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del

mondo), op. cit., p. 493.

241D’altronde Eduardo, uomo di teatro a tutto tondo, rivendicava con orgoglio la sapiente perizia con

141

essa crea con gli sfarzosi costumi sfoggiati dagli altri personaggi della commedia non potrebbe essere più stridente.

Dal particolare all’universale, dunque: in tal modo De Filippo squarcia la tela

dell’opera e vi fa filtrare la luce della vita reale, di quella che si svolge al di fuori del microcosmo da lui generato, lontano dalla «Strada dove ci si incontra per caso». Evidenziandone la natura simbolica, egli ottiene che le vicende rappresentate non contino in sé e per sé, bensì in rapporto al mondo esterno, del quale la commedia sa di essere mera rappresentazione e non teme di dichiararlo a chiare lettere.

Ma spostiamo adesso la nostra attenzione su un’altra circostanza atipica nei testi di Eduardo: il medesimo scollamento che si verifica tra gli attori delle due

pièces e i rispettivi ruoli. Prosegue in effetti la didascalia del Figlio di Pulcinella:

Eccolo infatti ad affrontare il pubblico a tu per tu, con l’aria scanzonata e sfacciata che gli fu propria in ogni tempo. Al suo apparire, parte dalla platea un applauso che vuole essere l’invito tradizionale degli spettatori che a buon diritto vogliono riconoscere le vere sembianze del loro beniamino. Infatti, fra gli applausi si levano voci intimanti: «Maschera! Maschera!» E Pulcinella, con il gesto abituale, la solleva nell’intento di ringraziare il pubblico per la lusinghiera accoglienza fattagli, ma ad applauso esaurito invece di abbassarla per entrare poi nella finzione scenica, se la toglie completamente come per liberarsi di un oggetto che gli dà fastidio. Felice di mostrare una volta tanto la sua vera faccia, inizia il primo dialogo col pubblico242.

Con quindici anni di anticipo rispetto all’opera di cui ci occupiamo, si sviluppa qui il medesimo gioco che vivacizzerà poi il prologo degli Esami. Non solo infatti il personaggio si compiace dell’esclusivo dominio del palco e di guardare a viso aperto gli spettatori, ma in un curioso processo di straniamento, l’interprete pare anche scollarsi dal ruolo cui è chiamato a dar vita. In questo caso, la frattura fra attore e parte assegnatagli è segnalata dallo sfoggio di una collaudata e acclamata

costumi e il trucco scenici dovevano suscitare nello spettatore. Affermò infatti in un’intervista comparsa sulla rivista «Vogue» nel marzo del 1984 e successivamente confluita in Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, op. cit., p. 176: «Io dico che perfino i calzini di scena se li deve scegliere l’attore stesso, se si vuole che abbiano quel valore simbolico il quale, mescolandosi armoniosamente a tutta una serie di simboli, formerà un’entità completa e così significativa artisticamente da poter essere facilmente comunicata alla platea». Si noti l’insistita ricorrenza dei termini simbolico e simboli nel giro di una sola frase.

142

professionalità da parte del primo (per cui l’interprete è detto «beniamino» e la sua azione acquista i tratti del rituale attraverso la definizione di «gesto abituale») e dalla sua renitenza ad indossare nuovamente la maschera, ciò che sancirebbe il suo definitivo calarsi nella finzione scenica e la sua completa immedesimazione col personaggio.

Parimenti, negli Esami l’interprete di Guglielmo sembra voler

deliberatamente sovvertire l’opinione diffusa secondo la quale la recitazione, per risultare buona e credibile, deve essere “naturale”. Non solo egli ostenta la propria arte nelle movenze («con gesto rapido e padronanza del mestiere», si legge nella didascalia iniziale) - movenze per altro memori della fiorente tradizione comica dello spettacolo e avanspettacolo partenopei, cui Eduardo rimanda, alludendo alla maestria dei «comici guitti di un tempo» -, ma sceglie di presentarsi agli spettatori in veste di attore, non nei panni del personaggio, quando esordisce: «Pubblico rispettabile, signore e signori: il protagonista della commedia che ascolterete stasera si chiama

Guglielmo Speranza. Non vi stupirete, spero, se questo personaggio, che io stesso

farò vivere al centro della vicenda e che accompagnerò dalla giovinezza alla

vecchiaia, non cambierà mai di abito: non può, non deve»243.

Qualora poi si rammenti che durante le riprese dell’edizione televisiva della commedia, avvenute nel 1975, Eduardo nei panni del protagonista scelse di risparmiarsi il fastidio di applicarsi sul viso le tre barbe posticce e di limitarsi ad

appenderle di volta in volta al taschino della giacca che indossava244, la sua

somiglianza al Pulcinella che egli stesso aveva creato - come lui stanco di camuffarsi

243E. De Filippo, Gli esami non finiscono mai, op. cit., p. 5.

Tale frattura tra l’attore e il personaggio cui dà vita sarà tuttavia ben presto sanata, come sottolinea scrupolosamente Anna Barsotti in Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), op. cit., p. 497: «Il passaggio dall’attore al personaggio è risolto poi da Eduardo in due tempi (all’interno dello stesso Prologo che in tal modo “dissolve” in vicenda): nel primo l’attore si trucca da personaggio - Guglielmo: «Ecco! (si applica sul viso la barba nera)» - ma personaggio ancora straniato - «ho venticinque anni, mi sono appena laureato...»; nel secondo, con l’apertura del «sipario di velluto» sulla «strada dove ci si incontra per caso» si dà adito al primo quadro in azione, dove l’attore agisce in quanto personaggio».

244 Cfr. l’articolo di Ugo Buzzolan da noi citato alle pp. 78-9 e il significato che il giornalista

143

e intimamente desideroso di mostrarsi al pubblico a viso aperto - appare quanto mai

sorprendente245.

A fronte delle molte analogie riscontrate fin qui, proseguiamo nella lettura della commedia del ’58. Terminata la didascalia introduttiva, ecco la prima battuta che la maschera indirizza alla volta degli spettatori:

PULCINELLA Scusate, sapete che ore sono? (Qualcuno dalla sala griderà un orario qualunque. Subito un altro affermerà lo stesso orario del primo con una diecina di minuti di differenza. Ancora un altro dichiarerà il medesimo orario con addirittura tre quarti d’ora di anticipo. Altri si daranno da fare al fine di far prevalere la precisione dei loro orologi, i quali saranno in aperto contrasto con i primi tre. Ne nasce in tal modo un nutrito dibattito che Pulcinella, a seconda dei casi, fomenta e accalora con battute di spirito opportune, fino a farlo giungere alle parole scritte del copione le quali hanno inizio col suo intervento autorevole, in chiave di grottesco) Piano, piano, piano! E che, siamo arrivati in mezzo a Portacapuana? Qua stiamo in teatro! (Rettificando) O meglio, voi state a teatro, e io sul terrazzo di casa del barone Arrigo Carolis De Pecorellis Vofà Vofà. Un poco di dignità da parte vostra e un poco di sopportazione da parte mia. Io ho domandato semplicemente: «Che ore sono?» È succieso ‘o terremoto. (Rivolgendosi al pubblico del loggione) Chi ha dato tanta confidenza a voi? Ma guarda quanta vavia pe’ chille tre cientesime ch’hanno pavato. Voi dovete stare con due piedi in una scarpa di neonato, appena nato dalla natività materna. Lasciate parlare i signori che stanno nei palchi e nelle poltrone, che hanno pagato profumatamente. Dice: «Ma nei palchi e nelle poltrone ci sono pure quelli che non hanno pagato». E che vuol dire? Quelli sono autorità e hanno diritto di parlare lo stesso, specialmente quando non pagano. Voi state in piccionaia, lo volete capire sì o no? Dove state seduti voi, una volta si chiamava piccionaia, adesso, per farvi fessi, la chiamano galleria246.

Il Pulcinella eduardiano potrà essere acciaccato e malridotto, ma non ha certo perduto l’antico brio, la schietta e pungente loquela d’un tempo. Come si usava fare nella brillante stagione della Commedia dell’Arte, quando la quarta parete non era ancora stata eretta, egli si rivolge agli spettatori in tutta libertà, ci gioca e li

245Il ruolo di punta che De Filippo assegna all’attore e che nelle due occorrenze testuali da noi

esaminate emerge con particolare evidenza dovrà ricordarci, se mai ce ne fosse bisogno, quanto composita e sfaccettata fosse la sua arte, essendo egli molto spesso attore e regista dei propri testi, oltre ad esserne ovviamente l’autore. Per quanto concerne poi l’importanza che egli attribuiva all’interprete nella creazione dell’incantesimo teatrale, si leggano le dichiarazioni da lui rilasciate nella già menzionata intervista riportata in Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, op. cit., p. 176: « [...] il “confessore spirituale” del personaggio è l’attore, che non deve accetare intermediari. [...] Se è vero che l’autore scrivendo crea il personaggio, è ancora più vero che esso non nasce, teatralmente parlando, finché l’attore non gli dà la vita».

144

rimprovera; ne fomenta l’intervento e li redarguisce; li istiga ad alzare i toni e poi li prende bonariamente in giro. Il suo rapporto confidenziale col pubblico gli consente di evocare luoghi e paesaggi familiari e di “rinfacciargli” le ristrettezze economiche da cui egli per primo è afflitto. Pulcinella mostra insomma una consapevolezza della finzione artistica che in quel preciso luogo e in quel preciso istante sta contribuendo a plasmare che, dopo il passaggio di Diderot, sarebbe divenuta tutt’altro che comune prassi e sarebbe stata sostituita dal gusto per la metateatralità.

È quindi significativo che proprio a quella stagione artistica guardasse Eduardo, quando nel prologo degli Esami fece instaurare alla sua ultima creatura un legame diretto e continuo col pubblico - solo complice di Guglielmo, in mancanza del cosiddetto «personaggio comodino». Ciò che l’autore faceva annunciare in quella

sedeal protagonista avrebbe effettivamente trovato puntuale applicazione per l’intera

durata della pièce, dal momento che gli spettatori sarebbero realmente stati eletti a suoi unici interlocutori, tanto da indurlo a fingere di riportarne esclamazioni e commenti.

Una tecnica, questa, che De Filippo aveva inaugurato nel lontano 1946 in

Questi fantasmi!, dove il protagonista Pasquale Lojacono interloquiva col Professor

Santanna, l’inquilino dell’appartamento di fronte che tuttavia non compariva mai

sulla scena, trasformandosi di fatto in uno spettatore rappresentato247 i cui pensieri

rispecchiavano immancabilmente quelli degli spettatori reali, in carne ed ossa248.

247 Questa la felice definizione datane da Anna Barsotti nella Nota storico-critica preposta alla

commedia e contenuta nel primo volume della Cantata dei giorni dispari, op. cit., p. 125.

248Tale gioco di rispecchiamenti sortiva l’effetto di un’irresistibile comicità, che diveniva travolgente

quando, nel finale della commedia, l’«anima utile» ma invisibile del Professore rivolgeva all’ingenuo Pasquale velate allusioni sull’equivoca natura del suo munifico fantasma benefattore - che lo spettatore reale, al pari del vicino, sapeva benissimo essere l’amante della Signora Lojacono:

- Pasquale: (Entra nella camera, guarda sul tavolo e trova il pacco di biglietti da mille lire. Invaso dalla gioia, con l’ansietà di vedere qualcuno e raccontare esce fuori al balcone di sinistra. Fortunatamente scorge il professor Santanna) «Professo’, professo’, avevate ragione voi... I fantasmi esistono... (ascolta). Come mi avevate consigliato voi. Vi ricordate, quando stamattina ci siamo incontrati? Ho fatto finta di partire, sono tornato e mi sono nascosto llà fuori... Anzi pensavo di restare tutta la notte, invece si è risolto subito. Ci ho parlato... Mi ha lasciato una somma di danaro... (Mostra i biglietti) Guardate... Però dice che ha sciolto la sua condanna, che non comparirà più... (Ascolta)

145

Ugualmente si comporta Guglielmo Speranza, quando ripete i presunti commenti degli spettatori seduti in sala che egli finge non aver udito distintamente. Stavolta dunque impressioni e reazioni riguardo alla scena che si è appena svolta appartengono ad un immaginario pubblico esterno, non interno all’opera:

GUGLIELMO [...] E questo è tutto. (Dopo avere fissato nella sala il suo sguardo indagatore ed essersi reso conto dell’atteggiamento incredulo del pubblico) Nooo? Non è tutto? Avete ragione. (Con un sorriso compiaciuto) Non è tutto. (Con una smorfia aggraziata, come quella che fanno i bambini una volta colti in fallo) Ma mi vergogno di dirvelo. D’altra parte ho promesso di non nascondervi niente e debbo mantenere la parola. Mi sono innamorato di una ragazza. Ma innamorato cotto. È