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In nome della "Speranza".Lettura de "Gli esami non finiscono mai" di Eduardo De Filippo tra vita, scena e allegoria.

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I

NDICE

INTRODUZIONE ... 1

CAPITOLO I BREVE PANORAMICA DELLA DRAMMATURGIA E DELLO SPETTACOLO ITALIANI DEGLI ANNI SESSANTA E SETTANTA ... 3

I. UN’EPOCA DI CAMBIAMENTI: TEMI, DIFFUSIONE E SPAZI DELLE OPERE TEATRALI. ... 3

II. DIALETTICA TRA EVOLUZIONE E TRADIZIONE: I MOLTI VOLTI DEL COMICO. ... 10

III. AL PASSO COI TEMPI.LA POSIZIONE DI EDUARDO. ... 16

CAPITOLO II IL TEATRO DI EDUARDO ... 18

I. TRA SENSIBILITÀ SCENICA E LETTERARIETÀ. ... 18

II. UN PADRE INGOMBRANTE. ... 24

III. MASCHERE NUDE E MASCHERE VIVE. L’INCONTRO CON LUIGI PIRANDELLO. ... 33

IV. DAI GIORNI PARI AI GIORNI DISPARI: LO SPECCHIO DI UN’EPOCA. ... 43

CAPITOLO III GLI ESAMI NON FINISCONO MAI. INTRECCIO, RAPPRESENTAZIONE E RICEZIONE ... 56

I. SINTESI DELLA STORIA. ... 56

II. RAPPRESENTAZIONI E FORTUNA DELLA COMMEDIA. ... 68

III. IL GIUDIZIO DELLA CRITICA... 71

CAPITOLO IV UN CURIOSO CONTATTO ONOMASTICO: DA MA NON È UNA COSA SERIAA GLI ESAMI NON FINISCONO MAI ... 80

I. LA COMMEDIA DI PIRANDELLO. ... 81

(2)

CAPITOLO V

RITRATTO DI UNA FAMIGLIA-BESTIARIO.

CONSIDERAZIONI SUI PERSONAGGI DELLA COMMEDIA ... 91

I. LE “CIVILISSIME” BELVE DELLA NOSTRA SOCIETÀ. ... 100

II. INCORAGGIANTI BARLUMI DI UMANITÀ. ... 118

CAPITOLO VI SUL CRINALE TRA EPICA E ALLEGORIA ... 136

I. PUNTO D’ARRIVO, PUNTO DI PARTENZA. ... 137

II. UN SECOLARE VIAGGIO DIRETTO AL CUORE DEL NOVECENTO. ... 151

CONCLUSIONI ... 162

BIBLIOGRAFIA ... 166

1) BIBLIOGRAFIA SU EDUARDO DE FILIPPO. ... 166

A) OPERE CONSULTATE. ... 166

B) VOLUMI. ... 166

C) ARTICOLI E RECENSIONI IN RIVISTA O QUOTIDIANO. ... 167

D) INTERVISTE A EDUARDO DE FILIPPO. ... 168

(3)

1

I

NTRODUZIONE

Forse non vi è modo migliore per esorcizzare la paura degli esami che sempre ci attendono al varco che scegliere di affrontarli a viso aperto. Così almeno mi è parso quando ho letto per la prima volta la commedia scritta da Eduardo De Filippo nel 1973 e intitolata paradigmaticamente Gli esami non finiscono mai. Le vicissitudini di cui è protagonista Guglielmo Speranza, che egli stesso narra in prima persona al pubblico in sala, forniscono due valide lezioni. Prima: quanto le nostre vite siano esposte al giudizio altrui, spesso iniquo e crudele; seconda: di tali nefaste ingerenze è necessario, in fin dei conti, sbarazzarsi per mezzo di una risata certo amara, sì, ma liberatrice.

In questo elaborato ho voluto far emergere innanzitutto la carica polemica della pièce, in opposizione alle etichette fiaccamente ripetute da una parte della critica, la quale ha visto nell’ultima produzione eduardiana i sintomi di una sua senile e crescente misantropia, di un presunto disfattismo che – a mio parere – fu invece del tutto estraneo al piglio caparbiamente battagliero di Eduardo, alla determinazione con cui egli si batté per tutta la vita al fine di indicare la via per una società migliore.

La panoramica della scena teatrale italiana a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta su cui si apre questa trattazione è volta soprattutto ad evidenziare quanto il nostro autore fosse al passo con le più importanti innovazioni avvenute in ambito drammaturgico sia a livello nazionale che europeo.

Segue una rassegna della sua copiosa produzione, che dagli esordi negli anni Venti si snoda fino a Gli esami, l’ultimo copione da lui firmato, nella quale una particolare attenzione è volta a porre in piena luce le fisionomie dei molti padri che egli scelse per sé – Eduardo Scarpetta, quello biologico, ovviamente, ma anche la nutrita schiera di padri elettivi che De Filippo non smise mai di frequentare durante la sua lunga esistenza, rivisitandoli in maniera originale.

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2

Dopo aver analizzato l’intreccio dell’opera e averne riportato un ampio campionario di giudizi espressi da critici e giornalisti a ridosso della prima fiorentina

presso il Teatro La Pergola, si tenta poi anche un confronto conuna commedia in tre

atti di Luigi Pirandello intitolata Ma non è una cosa seria, partendo dalla curiosa ripresa onomastica esibita dai personaggi degli Esami.

L’analisi delle più vistose caratteristiche dei principali personaggi della pièce – da me ricondotti, ove necessario, alle più antiche creature eduardiane dalle quali paiono discendere – cede infine il passo ad un esame della sua rivoluzionaria veste formale, attraverso la quale è possibile constatare come, in un autore eclettico del pari di Eduardo, i germi del superamento siano contenuti proprio in quell’antica tradizione teatrale guardata con sospetto, se non addirittura ripudiata, dalle Avanguardie in poi.

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3

C

APITOLO

I

B

REVE PANORAMICA DELLA DRAMMATURGIA

E DELLO SPETTACOLO ITALIANI

DEGLI ANNI

S

ESSANTA E

S

ETTANTA

I. UN’EPOCA DI CAMBIAMENTI: TEMI, DIFFUSIONE E SPAZI DELLE OPERE TEATRALI.

Col tramonto degli anni Sessanta, la società si avvia rapidamente verso un deciso cambiamento e i tempi appaiono maturi per una generalizzata messa in discussione delle principali istituzioni politiche e sociali.

Impossibile per chi voglia tracciare una sintetica panoramica della situazione drammaturgica e teatrale, pur limitata alla sola Italia, ignorare l’onda d’urto che dal ’68 si propaga e continua a far sentire le proprie scosse per tutto il decennio successivo. Ecco che infatti, sulla scia di rivolte studentesche e agitazioni sociali; tensioni interne al mondo operaio - insofferente nei confronti delle proprie rappresentanze sindacali e in aperta lotta col sistema produttivo –; a seguito dell’uscita da parte di scuola e università dal recinto appartato, loro tradizionalmente riservato, in nome di un confronto diretto con la realtà; anche la scena è pronta a farsi testimone dei giorni caldi che il mondo stava allora vivendo e, soprattutto, partecipe nel processo di scrittura di una nuova società.

È, questa, una fase di rinnovamento caratterizzata da un diffuso bisogno di egualitarismo e catarsi che ripropone con irruenza miti rivoluzionari e un’ideologia antiautoritaria chiamata a spazzar via i danni causati dal conservatorismo borghese.

Vittime di simili slanci innovatori sono innanzitutto gli Stabili, sorti nell’immediato secondo dopo guerra al fine di riqualificare la scena nazionale, sprovincializzarla e aprire le porte dei teatri a un pubblico quanto più ampio e

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4

variegato possibile. Sogno illuministico che pur non si rivelò una mera utopia, se è vero, come rileva Franca Angelini, che nella generale diserzione dei teatri verificatasi

tra gli anni ’50 e ’601

– cui contribuirono grandemente fattori quali l’apparizione, nel 1953, della televisione e il potenziamento dell’industria cinematografica – gli Stabili ricoprirono un ruolo non trascurabile nel mantenere a teatro una fetta di spettatori. Frutto dell’esigenza di ricostruzione e ricostituzione della società avvertita prepotentemente dopo la catastrofe bellica, adesso gli Stabili, in un clima di dilagante contestazione, sono visti come l’espressione e il mezzo di una politica teatrale passatista, mentre, per usare le parole di Paolo Puppa,

Alla scena si chiede di sollevare la testa, adesso, oltre la sua angustia estetica e di ricominciare a credere, a oltre venti anni dalla frenesia resistenziale ben presto rientrata, al proprio mandato sociale, offrendosi di nuovo quale agente di trasformazione della realtà. Ma per far questo, il teatro deve uscire dal teatro, scendere in strada2.

Abbandonati i tradizionali organi di trasmissione, le opere teatrali cercano quindi nuovi canali per raggiungere un pubblico nuovo e alternativo, al quale si domanda ora di abbracciare la lezione impartita dall’autore, che si serve sempre più

spesso della scena come di una «cattedra storica»3 dalla quale si erge severa la

condanna del capitalismo di stampo americano e del colonialismo, mentre si celebra

la grandezza dell’universo operaio e dell’«Olimpo marxista»4

; ora di essere testimone, se non addirittura principale imputato, dei processi cui il teatro dà nuova voce. Lontano dalle consuete assi di legno dei palcoscenici, l’intero paese sembra in

preda ad una vera e propria «smania inquisitoriale»5 che, come era già avvenuto

1Franca Angelini, Il teatro del Novecento da Pirandello a Fo, Laterza, Roma-Bari, 1976, pp. 143-144.

La studiosa parla di un pubblico teatrale di 6 milioni nel 1950 che risulta drasticamente dimezzato nel ’59 e di 5 milioni di spettatori per il teatro dialettale ridotti a un solo milione. Il quadro, già di per sé sconfortante, è completato dal crollo totale del teatro di rivista.

2Paolo Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 182. 3Ivi, p. 183.

4

Ibid.

(7)

5

negli anni ’50, pone sotto accusa la società in senso lato, facendone emergere tutte le contraddizioni fondanti e le ipocrisie.

Aborriti gli spazi canonici prestabiliti, abbandonata la “gabbia dorata” dei teatri borghesi, non più separati dal pubblico seduto in platea per mezzo della ribalta,

gli interpreti fanno proposte diverse agli spettatori all’interno di palestre, padiglioni

di fiere, stand dei festival dell’Unità. La voce dei drammaturghi trova un apparato fonatorio ad essa consono soprattutto nelle cooperative, disponibili nei confronti della sperimentazione teatrale.

Cruciale è infatti il cambiamento di cui il nostro lessico scenico è protagonista a quest’altezza cronologica e, come già si era verificato negli anni ’50, fortemente responsabile in tal senso è la penetrazione dei repertori di grandi autori stranieri quali, primi fra tutti, Beckett e Ionesco. Se nel secondo dopoguerra l’assorbimento capillare della drammaturgia estera tanto invisa al regime fascista contribuì a promuovere un aggiornamento contenutistico e formale di quella nostrana, parimenti nel decennio successivo la ricezione dei testi absurdisti fa sì che anche l’Italia si incammini rapidamente verso una definitiva rottura col teatro realistico e che dalle opere affiori una visione più problematica e meno fiduciosa circa i destini dell’uomo e della società.

Si tratta, beninteso, di una svolta epocale paragonabile, secondo la Angelini6, al

rifiuto degli ormai logori schemi neorealistici, nello stesso decisivo torno di anni, in ambito cinematografico: come lì il regista si ribella alla prigione della «società degli

oggetti da consumare» «oggettualizzando il mondo, se stessa e i propri mezzi»7

,

in

campo teatrale la crisi umana e sociale si sostanzia della rappresentazione del fallimento del mezzo specifico del teatro: la parola.

6F.Angelini, Il teatro del Novecento da Pirandello a Fo, op. cit., p. 146. 7Ibid.

La studiosa si riferisce in particolare ai film di Antonioni, il quale nel ’58 fu regista teatrale, non a caso, di una pièce di Van Druten significativamente intitolata I am a camera.

(8)

6

Non solo si inscena la disfatta della parola comunicante, che vediamo soccombere sotto i colpi di armi potenti quali l’andamento monologante o l’utilizzo di codici linguistici diversi destinati a viaggiare su binari paralleli, la minima variazione o lo spostamento, ma persino il concetto di persona basato sulla fiducia nell’esistenza di un io unitario, coerente e riconoscibile cade in frantumi, trascinando alla deriva, inevitabilmente, l’idea stessa di personaggio, già entrata in una impasse senza apparente via d’uscita con le Avanguardie storiche. Se lo scambio dialogico tra gli attori sul palco va incontro alla sconfitta, la parola drammatica riesce però a trasmettere agli spettatori la dimensione di un vuoto costante, incolmabile e, ancor peggio, insondabile che risucchia le nostre vite, come quella di Winnie in Giorni

felici.

Né a modificare il nostro linguaggio scenico contribuiscono unicamente esperienze teatrali estere, poiché la scena è ora pronta ad accogliere suggestioni provenienti dai campi più disparati: dalla musica al cinema alle arti figurative. Talvolta gli autori si cibano di «materiali spuri, verbali di polizia, volantini

d’assemblea, carteggi, lavagne»8

; di storia, insomma, di fatti di cronaca. Essi possono derivare i loro testi da opere narrative oppure addirittura fonderne

licenziosamente due o più drammatiche, come afferma Luigi Squarzina9 nelle sue

«tredici tesi da affiggere a una porta inesistente», nelle quali proclama appunto la «nascita di una drammaturgia “di secondo grado”».

Che si tratti di un’epoca gravida di cambiamenti lo si intuisce anche dal fervore con cui si susseguono manifesti programmatici e prese di posizione da parte dei protagonisti della scena italiana, desiderosi di chiarire la natura del loro mandato letterario e, sempre più spesso, sociale.

8P. Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, op. cit., p. 184. 9

A ricordarne le parole è Franca Angelini, Il teatro del Novecento da Pirandello a Fo, op. cit., pp. 146-147.

(9)

7

Ad aprirne la serie è il Manifesto del nuovo teatro italiano, pubblicato col titolo Per

un convegno sul nuovo teatro nel numero di novembre del 1966 del mensile

«Sipario», nella cui lunga lista di firmatari10 trovano posto attori, registi,

drammaturghi, musicisti, scenografi, tecnici del teatro e critici; un gruppo folto e eterogeneo le cui riflessioni si riverseranno poi nel convegno di Ivrea, svoltosi nelle giornate tra il 9 e il 12 giugno dell’anno successivo, durante il quale verranno indicate «quattro condizioni per un aggiornamento inevitabile, allo scopo di sfrondare il provincialismo del testo scritto: teatro dei fatti-inglese; teatro della coscienza-tedesco; teatro della protesta-americano e infine teatro rivoluzionario-terzo

mondo»11.

Per il momento essi si limitano a denunciare il progressivo aggravarsi

dell’isolamento teatrale12

, le cui cause endemiche rinvengono nell’obsolescenza delle

10 In ordine: Corrado Augias, Giuseppe Bartolucci, Marco Bellocchio, Carmelo Bene, Cathy

Berberian, Sylvano Bussotti, Antonio Calenda e Virginio Gazzolo, Ettore Capriolo, Liliana Cavani, Leo De Berardinis, Massimo De Vita e Nuccio Ambrosino, Edoardo Fadini, Roberto Guicciardini, Roberto Lerici, Sergio Liberovici, Emanuele Luzzati, Franco Nonnis, Franco Quadri, Carlo Quartucci e il Teatrogruppo, Luca Ronconi, Giuliano Scabia, Aldo Trionfo.

11P. Puppa, Comicità e solitudine: il tempo della battuta, in E. Marinai, S. Poeta, I. Vazzaz (a cura di),

Introduzione di A. Barsotti, Postfazione di M. I. Aliverti, Comicità negli anni Settanta. Percorsi eccentrici di una metamorfosi fra teatro e media, ETS, Pisa, 2005.

12L’allarme d’altra parte era stato lanciato, con sette anni d’anticipo, dallo stesso Eduardo in una

lettera che egli indirizzò, nell’ottobre del ’59,al Ministro dello Spettacolo e che riscosse una vasta eco, tanto da essere pubblicata su tutti i giornali e persino in volume, all’interno di Teatro anno zero, Parenti, Firenze, 1961, senza però ottenere l’auspicata inversione di rotta del teatro italiano.

A preoccuparlo erano soprattutto l’immissione della politica nell’organizzazione e nella gestione degli spettacoli e l’inevitabile clientelismo che essa comportava, mascherandolo ipocritamente da mecenatismo, cui si sommava una dolorosa incompetenza da parte dei protagonisti della scena dell’epoca e lo stato di inferiorità in cui erano tenuti i maggiori autori teatrali.

Il temperamento sanguigno e battagliero di Eduardo lo ricondusse più volte sulla questione: in un primo momento in veste di drammaturgo, quando nel 1964 firmò il suo polemico e brillante manifesto, L’arte della commedia; in seguito nei panni dell’insegnante, quando sottopose a più riprese lo scottante problema agli allievi dell’ateneo romano: «Perché, per come è congegnata la cosa oggi, tutti possono entrare a fare gli artisti, gli attori. Basta dirlo: “Io sono artista! Sono attore!” Oppure:”Sono comico! Sono tragico!” E tu ci devi credere per forza. Ci sono i quattrini dello stato, del contribuente…»; e ancora: «Quante volte ho detto che il nostro lavoro non è egoistico ma altruistico? Pur sapendo che non c’è niente da fare, pur sapendo che le cose tornano ad essere quelle che sono, noi abbiamo il dovere di tentare di salvare l’avvenire, il futuro. Io perché sto qua? Per quale ragione? Sto qua per aiutare un settore che mi sembra in disfacimento in Italia, a causa delle istituzioni commerciali che si sono create intorno a questo settore artistico, che è fantasia, libertà…» [In P. Quarenghi (a cura di),Prefazione di Ferruccio Marotti, Lezioni di teatro all’Università di Roma «La Sapienza»,Einaudi, Torino, 1986 , pp. 76; 133].

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8

strutture; nella nefasta ingerenza della politica nell’amministrazione dei teatri pubblici; nell’allineamento della critica drammatica alle posizioni ufficiali; nella mancata valorizzazione dei migliori frutti della drammaturgia internazionale; nel generale disinteresse in cui senza eccezioni circolano i principali tentativi di sperimentazione teatrale. Sintomatica di una simile alienazione è la mancanza nel nostro teatro di un riflesso puntuale e sensibile dei cambiamenti recentemente intervenuti nella società italiana, come anche delle più importanti innovazioni - quanto a tecniche drammatiche e modi espressivi - elaborate in paesi esteri.

Rifiutando recisamenteproteste «puramente grammaticali», i firmatari si battono per

una «contestazione assoluta e totale»

,

che conduca finalmente il nostro spettacolo

fuori dalle asfissianti strettoie in cui è precipitato e «si proponga come fine di suscitare, raccogliere, valorizzare, difendere nuove forze e tendenze del teatro, in un continuo rapporto di scambio con tutte le altre manifestazioni artistiche, sulla linea

delle esigenze delle nuove generazioni teatrali»13.

A un modello diverso di teatro guarda invece Alberto Moravia, il quale, nell’ambito di un’inchiesta condotta nel medesimo numero di «Sipario» circa il nuovo corso della scena italiana, afferma a più riprese di ambire ad un teatro squisitamente letterario, lontano dallo spettacolo - pur ineccepibile - allestito sovente dalle avanguardie storiche e dai neosperimentali. Riflettendo su come anche i prodotti più lodevoli delle avanguardie, fra cui ad esempio il Living Theatre, sfocino immancabilmente in qualcosa d’altro, di diverso dal teatro – sia esso balletto, pantomima, tableau vivant, mimica o quant’altro – lo scrittore si domanda polemicamente:

Del resto, abolita o resa “vana” la parola, non si capisce allora perché non si abbandona il teatro per il cinema. Il cinema può dire tutto senza parole, con le immagini in movimento14.

13«Sipario», XXI, novembre 1966, numero 247, p. 3. 14

C. Augias (a cura di), Esiste un nuovo corso? Interviste con Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini, ivi, p. 5.

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9

Al contrario, Moravia ritiene la drammaturgia «un modo di espressione letteraria

come il romanzo, la poesia, il racconto»15 e rivendica per sé un teatro di pura

parola, un «teatro di idee»16 pirandellianamente inteso, vagheggiando l’appartenenza di autori e pubblico a una stessa società borghese o altra che si compiaccia di vedersi rappresentata sulla scena, foss’anche per essere criticata.

Sulla stessa linea di Alberto Moravia si pone l’amico Pier Paolo Pasolini, il quale affida il suo Manifesto per un nuovo teatro alle colonne del numero di gennaio-marzo del ’68 della rivista «Nuovi Argomenti». Adottando l’etichetta moraviana, egli definisce orgogliosamente il suo un teatro di parola, una drammaturgia cioè ontologicamente altra in confronto sia al teatro della chiacchiera,

sia al teatro del gesto o dell’urlo – ovvero, parafrasa Puppa17, rispettivamente agli

Stabili e all’off – che, nonostante le varie ed evidenti differenze, sono accomunati dal rivolgersi entrambi ad un medesimo pubblico borghese e dal disprezzo per la parola, degradata a convenzionale e vuota chiacchiera dal primo, rifiutata irrazionalmente dal secondo.

Ed è proprio la parola a costituire, per Pasolini, il vero fattore di novità del suo teatro,

un teatro concepito per un pubblico scelto di «gruppi avanzati della borghesia»18 -

ovverosia «le poche migliaia di intellettuali di ogni città il cui interesse culturale sia magari ingenuo, provinciale, ma reale» - i quali non si mostreranno «né divertiti né

scandalizzati dal nuovo teatro, perché essi, appartenendo ai gruppi avanzati della

borghesia, sono in tutto pari all’autore dei testi»19.

Una perfetta, assoluta condivisione di orizzonti culturali e ideologici tra autore, interpreti e pubblico è dunque la condizione imprescindibile affinché possa realizzarsi la rappresentazione scenica che, immersa in una simile sacrale comunione

15

Ibid.

16Ibid.

17 P. Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, op. cit., p. 114.

18Pier Paolo Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, in «Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 1968,

numero 9, p.7.

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10

e tutta tesa com’è a veicolare la circolazione di idee, diviene, secondo l’incrollabile

fede dell’autore, un «rito culturale»20

. E tale fede è ben necessaria,

dal momento che si sbandiera un orizzonte ideologico privo di qualsivoglia speranza, per la caduta di terapie vincenti, dalla cultura popolare all’alternativa rivoluzionaria, disastro progettuale accelerato dalla sofferta irrisione al mito della Resistenza e proprio in un momento di generale ripresa di utopie e di palingenesi storiche come il ’6821!

Rigettando in toto linguaggi stereotipi – quella lingua affettata e virtuale, inesistente nell’esperienza quotidiana di ogni italofono, che è l’italiano scritto, il quale Pasolini

intende vivificare sulla scena «evitando ogni purismo di pronuncia»22 - e tecniche

recitative consolidate, il manifesto dell’intellettuale si colloca

in un orizzonte poeticamente postumo, che ignora o sabota la committenza, i calcoli dell’impresario, le istanze degli interpreti, la pazienza del pubblico, le velleità del militante23.

II. DIALETTICA TRA EVOLUZIONE E TRADIZIONE: I MOLTI VOLTI DEL COMICO.

Priva del gusto provocatorio pasoliniano e di qualsivoglia intento scandalistico, oggetto di minor attenzione da parte della critica, la scena comica compie in questi anni un percorso di crescita e aggiornamento dei propri schemi certo degno di un più vivo interesse di quello che finora le è stato concesso. Anzi, rivendica Antonucci,

Alla fine il capitolo del teatro satirico e umoristico […] risulta assai più fecondo e significativo di quello politico, che pure ha suscitato ben maggiore interesse nella critica.

E rincara:

20Ivi, p. 22.

21P. Puppa, Teatro e spettacolo nel secondo Novecento, op. cit., pp. 114-115. 22P. P. Pasolini, Manifesto per un nuovo teatro, art. cit., p. 15.

23

P. Puppa, Itinerari nella drammaturgia del Novecento, in E. Cecchi, N. Sapegno (a cura di), Storia della letteratura italiana, Il Novecento, tomo II, Garzanti, Milano, 1987, p. 833.

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11

Ma, nel nostro paese, è noto che il riso, nonostante Aretino, Machiavelli, Ruzante e Goldoni, è stato guardato sempre con diffidenza e con il pregiudizio di una sua pretesa inferiorità rispetto al «tragico»24.

Fortunatamente tale netta demarcazione di generi propugnata con intransigenza dalla cultura accademica non ha avuto incidenza sulla vita effettiva della scena comica nostrana, i cui vertici Maria Ines Aliverti indica negli attori

indipendenti, meritevoli, secondo la studiosa, di aver deliberatamente ignorato o

originalmente reinventato e smussato il severo confine tra alto e basso, tra la

solennità del tragico e lo spirito farsesco del comico25.

E se sul versante attoriale campeggiano i nomi di Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Dario Fo, Franco Parenti e Franca Valeri – figure, si noti, composite, in alcuni casi dei veri e propri autori-attori – sul piano prettamente drammaturgico il pensiero non può che correre alla Trilogia degli Scarrozzanti di Giovanni Testori.

Studioso e critico d’arte figurativa, poeta e narratore, con i suoi Ambleto (1973), Macbetto (1974) ed Edipus (1977), egli raggiunge l’apice della sua carriera di scrittore. Interamente sottese a un gioco metateatrale allo stesso tempo impudente – per la disinvoltura con cui innesta «citazioni pirandelliane (gli scarrozzanti zingareschi, modellati un po’ sui Giganti della montagna, con accentuato degrado e guitteschi scenari, ridotti a corti-pollai) e lavacri di sangue di senecana memoria

sviliti in un humus paesano»26 sul repertorio classico ed elisabettiano – e sconsolato;

i tre testi costituiscono la dimostrazione tangibile dell’impossibilità di una tragedia tradizionalmente intesa ai giorni nostri. Testori sembra voler affermare che il tragico sta tutto lì: in quell’andamento monologico farneticante che l’io assume allorché il suo sguardo si imbatte nel Male eterno e onnipresente; in quella dizione scomposta che si alimenta di un padano surreale, arcaico e moderno, inverdito da reminescenze folenghiane e ruzantiane, contraddistinte da una snaturalité di matrice gaddiana che

24Giovanni Antonucci, Storia del teatro italiano del Novecento, Studium, Roma, 1986, p. 234. 25

Maria Ines Aliverti, Postfazione, in Comicità negli anni Settanta, op. cit., p. 275.

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12

Puppa apparenta, «per la sua sublime coprolalia, all’intarsio di nobile e di osceno e al

rustico colto del Mistero buffo di Dario Fo»27.

In un’epoca che, nonostante i molti sforzi di intellettuali e artisti, ha smarrito il profondo senso di appartenenza ad una comunità e non sa più riconoscersi nel proprio patrimonio culturale collettivo, il monologo dalle tinte comiche appare l’unica espressione veritiera praticabile, l’unico sbocco pensabile, finanche per il tragico28.

Non sarà allora un caso che di monologhi comici siano fittamente costellati gli anni ’60 e ’70: gli autori-interpreti sono infatti sempre più proiettati verso un impegnativo progetto di recupero e superamento del teatro di Varietà, un «teatro senza tradizione – per questo piaceva ai futuristi – e che tuttavia fonda una tradizione soprattutto

italiana del comico»29.

Degna risposta, secondo la Angelini30, alla rivoluzione drammaturgica tardo

ottocentesca data dallo sgretolamento dell’unità scenica in una babele di frammenti, in un nervoso accumulo di flashes che d’un tratto squarciano la vita del personaggio

27Ivi, p.118. 28

Su una concezione moderna del tragico profondamente distante da quella classica sembra concordare lo stesso Eduardo, il quale non esita ad incitare gli studenti del corso di drammaturgia presso l’Università di Roma a confrontarsi con la tragedia, poiché - a suo parere - ad essa si attagliain realtà una definizione molto più ampia di quella austera che essi sono soliti conferirle.

In questi termini si rivolge ad uno di loro, intimorito da questo imponente e maestoso genere letterario: «Parlando di tragedia, io non penso affatto che, per esempio, la commedia Questi fantasmi! sia una commedia comica. Ho sempre detto pure: questa commedia ed altre commedie mie, quando si parlerà di storia di questo paese o del nostro paese «mondo», si reciteranno come tragedie moderne. Tu pensi alla tragedia classica… Non ci devi pensare! No, devi tenere la parte comica e grottesca della situazione e allora trovi la tragedia moderna, dove si ride, però il caso è tragico».

E successivamente ribadisce: «[…] perché la tragedia di oggi si scrive facendo ridere molto, non superficialmente, ma con delle annotazioni, degli assurdi palesi. […] Io, la tragedia all’Alfieri, non me la sento di scriverla, né ve lo consiglierei mai. La tragedia moderna è quella che fa ridere, non con pagliacciate, con una comicità superficiale, epidermica, ma affondando il dito nella piaga, nel dramma comune, nella tragedia comune… Non ci fissiamo con queste tragedie nere! Se pensate di commuovere il pubblico con la piagnisteria di un testo pesante, voi perdete il senso della tragedia di oggi. Il mio consiglio è di mantenervi in chiave grottesca, di assurdo. Noi ridiamo di tutto in questo mondo, perfino della morte!» [In Lezioni di teatro all’Università di Roma «La Sapienza», op cit., pp. 68; 92].

29 Franca Angelini, Linee di una tradizione comica italiana, in Comicità negli anni Settanta, op. cit.,

p. 23.

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13

o l’azione rappresentata, il Varietà, «con la sua struttura costruita sul numero, sul montaggio di attrazioni basate sulla maestria di singoli attori (il funambolo, il

cantante, il prestigiatore, la macchietta)»31 è «transitorio, fuggitivo, veloce; un teatro

che va verso la trasformazione parallelamente alla velocità e al trasformismo del cinema»32.

E allora ecco che i palchi si trasformano in “arene” interamente a disposizione dell’attore comico, il quale - grazie alla propria camaleontica personalità unita ad un lungo apprendistato teatrale - magicamente dà forma ad un foltissimo inventario umano, prestando la sua voce ad una sterminata schiera di personaggi e macchiette che, bruciando rapidamente e succedendosi l’una l’altra in un incessante vorticare, non mancano di tenere sempre desta l’attenzione del pubblico, abbacinato da quella bocca inarrestabile, da quel corpo che si fa esso stesso interprete della caleidoscopica molteplicità del reale.

È proprio ciò che accade nel testo di gran lunga più rappresentato nell’Italia di quegli anni e responsabile della consacrazione a livello mondiale di un irriverente autore-interprete: Dario Fo. Mi riferisco a Mistero buffo, apparso nel ’69, nel quale, dominando spavaldamente la scena, il comico fa rivivere le pagine dei Vangeli apocrifi medievali in mezzo a rivisitazioni ironiche e beffarde, sullo sfondo luminoso di un utopico millenarismo.

E dunque Angeli ebbri e villani dementi, dolenti Maddalene e Papi smargiassi, Cristi arrabbiati e ladroni in crisi, Paradisi osannanti e Inferni tremolanti di vino, sepolcri insanguinati e bestiari scatologici (vedi il grande peto che suggella la nascita del contadino), si affacciano così dalla figura orchestrale del Sacerdote-mimo, del Gesù Arlecchino, dell’entertainer sciamanico, assorbendo la carica contestatrice e la domanda di partecipazione, al di fuori dei partiti e delle mediazioni istituzionali, che urgono dal basso33.

31Ivi, p. 22. 32

Ivi, p. 21.

(16)

14

Alla giullaresca festa di Dario Fo va senz’altro riconosciuto un pregio: l’essere

aggiornata rispetto alle più innovative tecniche estere di recitazione34. Tuttavia

questo indiscusso capolavoro ha fatto molto di più: ha anticipato i tempi realizzando «l’esito più limpido, più innocente (pertanto trasferibile in qualsivoglia contesto ideologizzato o meno), più duraturo dello street theatre, fissando uno schema figurativo, l’attore che dialoga con una comunità assiepata ai suoi piedi, in grado persino di competere colla moda della rockstar e poi dei comici one man show del

periodo Settanta-Ottanta»35.

L’inesausto brio linguistico e mimico costituisce indubbiamente l’ingrediente vincente della ricetta di Fo; ciononostante non possiamo trascurare la centralità del pubblico e il ruolo attivo che, in mancanza di attori che fungano da spalla al magico affabulatore, esso riveste. Così, in una sorta di cortocircuito temporale, l’interprete si trasforma in giullare medievale, mentre gli spettatori tornano a vestire i panni del popolo in visibilio dinanzi alle sue vertiginose contorsioni, all’inarrestabile innescarsi del racconto.

Centralità della partecipazione attiva del pubblico per la riuscita dello spettacolo, abbiamo detto. Un ulteriore fattore, questo, che dimostra quanto la scena comica sia al passo con i risultati più all’avanguardia in ambito teatrale. Ognuno ricorderà infatti che nel 1968, appena un anno prima che Mistero buffo vedesse la luce, veniva rappresentato a Spoleto, nella chiesa sconsacrata di San Nicolò, l’Orlando furioso di Ronconi e Sanguineti, che non soltanto rivoluzionava lo spazio teatrale nel senso che abbiamo già indicato, vale a dire ponendo sullo stesso piano attori e pubblico, ma consentiva a quest’ultimo di spostarsi e di scegliere le scene da seguire, data la loro simultaneità e penetrabilità.

34È opinione di Puppa che, nell’opera citata, vede in Mistero buffo «una risposta laica al misticismo

corporale del Living e di Grotowski», p. 204.

(17)

15

Trovata l’analogia, non mancano però le differenze - vistose in questo caso -, che risiedono non soltanto nel diverso tipo di coinvolgimento del pubblico all’interno dei due spettacoli, ma anche e soprattutto nel tono e nello spirito delle pièces:

Una piazza giocosa e festosa ospita, in un caso, una collettività di tipo carnevalesco. Un’ironia glaciale, una dimensione fintamente ludica, in realtà luddista, rispetto alle attese e alle abitudini consumistiche di un pubblico pigro, inquadra lo smontaggio sanguinetiano dell’epopea rinascimentale. Qui, Ronconi dilata un labirinto spaesante e vertiginoso, modellato sulla pratica multimediale dell’happening e della performance36.

Isolamento dell’interprete sulla scena; andamento monologante; ricerca di complicità presso il pubblico: queste le principali caratteristiche della comicità tra la fine degli anni Sessanta e il decennio successivo, quando il Varietà è sia punto di partenza per attori che approderanno poi al grande e al piccolo schermo, sia punto di arrivo per coloro che compiranno il percorso inverso, in un clima di reciproco scambio e arricchimento tra il mondo cinematografico e quello teatrale.

Un orizzonte quindi fertile, dinamico, dai molti volti, nonostante non manchino coordinate comuni, come abbiamo avuto modo di osservare. Una scanzonata, vitalistica offerta di sé, della propria voce incantatrice come di quel corpo svelto e dinoccolato, memore della giovanile frequentazione di Jacques Lecoq, nel caso di Fo; il levarsi di una voce rotta e straziata, di una dolente autoconfessione intrisa di ansie religiose, dalla penna di Giovanni Testori; e potremmo rammentare anche la tragica melopea, il manierismo grottesco di Carmelo Bene. Nessuna illusione però circa la completezza del nostro elenco, che potrebbe protrarsi ancora a lungo.

36

P. Puppa, Comicità e solitudine: il tempo della battuta, in Comicità negli anni Settanta, op. cit., p. 78.

(18)

16

III. AL PASSO COI TEMPI.LA POSIZIONE DI EDUARDO.

In tale composito, stimolante sfondo si colloca la tarda produzione di Eduardo

De Filippo, nella fattispecie il suo testamento teatrale37, Gli esami non finiscono mai.

Ultima opera originale lasciataci dal genio partenopeo, in questa mesta commedia in tre atti e un prologo del ’73 compaiono molti degli elementi che abbiamo incontrato nel coevo panorama italiano ed europeo.

Innanzitutto, fin dal prologo si instaura, per dichiarata volontà del protagonista - appoggiato in tal senso dallo stesso autore, come egli tiene a precisare - un rapporto privilegiato fra lui e il pubblico che, in assenza del cosiddetto

«personaggio comodino»38, cioè di una spalla, dovrà ricoprire proprio quella

funzione. Gli spettatori saranno dunque, per l’intera durata della rappresentazione, i confidenti di Guglielmo Speranza: ne udranno le riflessioni e ne apprenderanno i sentimenti lungo tutto lo sviluppo dell’azione, salvo nell’atto finale, dove a sostituirlo durante la malattia sarà la moglie, Gigliola Fortezza.

La topica dell’incomunicabilità poi, centrale nel teatro del secondo Novecento, trova magistrale espressione nell’ossimorico, paradossale monologo muto del protagonista. Eduardo riesce così in una sfida tutt’altro che semplice: comunicare l’incomunicabilità. E il messaggio di Guglielmo Speranza, rifiutato dagli altri personaggi, non tarda ad arrivare, tagliente e desolato come non mai, agli spettatori in sala.

L’amarezza della pièce, accresciuta da repentini lampi di nera comicità, è però inframezzata da gags e lazzi, sapientemente alleggerita da un ritmo movimentato e vario.

37

O quantomeno drammaturgico, visto che la sua attività di insegnante di teatro lo tenne impegnato per ancora molti anni, così come il mestiere d’attore; senza contare che in seguito alla commedia che ci accingiamo ad analizzare Eduardo si cimentò in una sfida persino più ardita: la traduzione della Tempesta shakespeariana in napoletano.

(19)

17

Altrettanto sfaccettata è infine la tecnica teatrale di cui l’autore fa sfoggio, capace di amalgamare fra loro esperienze lontanissime quali la Commedia dell’Arte, la lunga tradizione dello spettacolo e dell’avanspettacolo napoletano e le punte di

diamante della più avanzata drammaturgia europea. Un congedo dunque - quello di

Eduardo dalla scrittura per la scena - all’insegna di una dialettica tra conservazione e innovazione; tra venerando rispetto per la tradizione e infaticabile ricerca di una personale sintesi che potremmo assumere come il leitmotiv della sua lunga, poliedrica esperienza teatrale:

Diciamo di solito che per l’uomo la nascita è il punto di partenza e la maturità il punto di arrivo. Io l’ho sempre visto rovesciato questo concetto, e cioè la nascita per l’uomo è il punto di arrivo su questa terra. Quello che egli realizza nel corso della sua vita, da adulto, e l’immancabile morte, sono il punto di partenza per quelli che vengono dopo di lui, i giovani. Questi milioni, miliardi di punti di partenza, che milioni, miliardi di esseri umani lasciano nel morire, sono la vita che continua. La vita che continua è la tradizione. Secondo il mio concetto questi punti di partenza lasciati da esseri umani eccelsi e non eccelsi non debbono essere considerati un peso morto, un qualcosa di retrivo da disprezzare. Anche se da giovani ci sentiamo la forza di sollevare il mondo e farlo girare a modo nostro, non vi pare che la forza di miliardi di esperienze fatte da altri, e che poi sono noi, perché uomini come noi, ci possano aiutare? Io sono convinto di sì. E sono convinto che persino per confutare un’esperienza del passato e negarla, questa esperienza bisogna averla approfondita e persino amata. Se si usa la vita che continua, la tradizione, nel modo giusto, essa ci può dare le ali. Certo, se ci si ferma al passato diventa un fatto negativo, ma se ce ne serviamo come di un

trampolino, salteremo molto più in alto che se partissimo da terra. Non vi pare39? [Corsivo mio].

39

Queste parole furono pronunciate da Eduardo De Filippo nel corso del suo primo incontro con gli studenti dell’università di Roma, presso il Teatro Ateneo, il 4 aprile 1981.Il testo della conferenza, pubblicato in L’attore, tradizione e ricerca. Seminari scenici di Eduardo De Filippo, estratto del n. 27 di «Biblioteca teatrale», 1981, è citato in Eduardo De Filippo. Lezioni di teatro all’Università di Roma «La Sapienza», op. cit., p. XXV.

(20)

18

C

APITOLO

II

I

L TEATRO DI

E

DUARDO

I. TRA SENSIBILITÀ SCENICA E LETTERARIETÀ.

Parlare della produzione drammaturgica eduardiana significa parlare di un

prodotto originalissimo, in virtù, innanzitutto, dell’inedita «trinità artistica»40 di un

uomo di teatro a tutto tondo, che racchiude entro la sua complessa personalità le

competenze - solitamente distinte nell’era dell’industria teatrale - dell’attore, dell’autore e del regista. Vi è dell’altro: i tre volti non si limitano a coesistere, ma sfumano i loro contorni fino ad ottenere un meraviglioso dipinto entro il quale le tonalità dell’uno si mescolano proficuamente con quelle dell’altro. Per trovare una simile completezza artistica dobbiamo certo risalire molto addietro nel tempo, forse

fino ad un autore-interprete del calibro di Molière41.

Certo, per valutare le molte svolte ed evoluzioni di una scrittura che si dipana

per oltre mezzo secolo - almeno dal 1920 al 1973, se non teniamo conto della più

tarda traduzione napoletana della Tempesta shakespeariana e dei primi tentativi

drammaturgici legati all’esperienza del teatro di Varietà e di rivista, per gran parte esclusi dalla posteriore raccolta complessiva in volumi dell’opera eduardiana per l’editore Einaudi – non possiamo tenere unicamente conto della maturazione intellettuale e della crescita stilistica dell’autore, ma anche delle ragioni dell’attore e

40

Come la definisce Anna Barsotti in Introduzione a Eduardo, Laterza, Bari, 1992, p. 8.

41 Nella relazione stilata dall’Accademia Nazionale dei Lincei in occasione del conferimento a

Eduardo, nel 1972, del Premio Internazionale «Antonio Feltrinelli», il cosiddetto Nobel italiano, fra i principali pregi dell’artista è indicato proprio quello di riassumere «nella sua personalità tre figure rimaste, nella pratica del palcoscenico, isolate e divise, ma che, dal Ruzante a Molière, ai nostri comici dell’arte, costituirono gli elementi essenziali della drammaturgia: l’autore, l’attore e il regista». L’Estratto dalle Adunanze straordinarie per il conferimento dei Premi «Antonio Feltrinelli» della seduta dell’Accademia Nazionale dei Lincei svoltasi il 18 dicembre 1972 è citato in G. Antonucci, Eduardo De Filippo. Introduzione e guida allo studio dell’opera eduardiana. Storia e antologia della critica, Le Monnier, Firenze, 1990, p. 35.

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19

di quelle del regista, sempre esposti ad un contatto diretto col pubblico attraverso

quelmeravigliosorito teatrale costituito dalla messa in scena42.

Una scrittura pensata per le assi del palcoscenico, dunque e, almeno finché è durato il sodalizio con la sorella Titina e il fratello Peppino, legata a condizionamenti

esterniquali la facies e le caratteristiche degli attori che avrebbero interpretato i suoi

personaggi: alla professione capocomicale di Eduardo, che tanto ci ricorda la fertile tradizione della Commedia dell’Arte.

Una scrittura che si trasforma in un atto teatrale globale, dove persino il ruolo del pubblico è prefigurato, per dichiarazione stessa di Eduardo:

Cosa aspetto in questo mio studio […]: il segnale che dia il «chi di scena», il fatidico «primo… secondo», che manda su il sipario e scopre per il pubblico la realtà costruita, e per l’attore la finzione reale. […] Con la mia immaginazione cerco di mettere uno spettatore in ogni piccolo angolo della mia camera […] E se scrivessi? Con il continuo stridio della penna riuscirò […] a rivedere i mille volti?43

Finti mentalmente dall’autore o realmente seduti nelle loro poltroncine, gli spettatori occupano sempre un posto privilegiato nell’opera di questo grande autore, non soltanto in veste di insostituibili interlocutori, ma anche di destinatari di un messaggio che domanda a gran voce di trovare un’applicazione pratica nella vita della società di cui essi - come Eduardo - fanno parte; di quella società che hanno ogni giorno sotto gli occhi e alla quale attinge avidamente il suo teatro, anche quando sembra rifugiarsi nella finzione, nella magia, nel sogno; anche quando sembra abbandonare la dimensione quotidiana per sconfinare in orizzonti epici o simbolici, come avviene negli ultimi drammi degli anni ’70. Si spiega in questo modo la costante attenzione che il maestro rivolge al pubblico, che lo porta persino ad

42 «Dalla esperienza dell’attore, che si misura quotidianamente col suo pubblico, - prosegue la

relazione dell’Accademia Nazionale dei Lincei – dai benefici di un gioco teatrale che si serve anche dell’improvvisazione, da una tecnica cosciente e prodigiosa, si formò un’idea di teatro che […] rispettava, nella forza della tradizione dialettale, la spontanea magia dello spettacolo, e insieme non dimenticava il testo scritto, autonomo, di sicuro valore letterario». [Ivi, pp. 35-6].

43

Queste parole, apparse per la prima volta nel numero di agosto del 1936 della rivista «Il Dramma», sono riportate da Anna Barsotti in Introduzione a Eduardo, op. cit., p. 8.

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20

oltrepassare la ribalta ed accomodarsi virtualmente in platea, durante il processo creativo:

Se un’idea […] è valida, con il tempo matura, migliora e allora la commedia si sviluppa come testo e anche come teatro, come spettacolo completo, messo in scena e recitato nei minimi particolari, esattamente come io l’ho voluto, visto e sentito e come, purtroppo, non lo sentirò mai più quando sarà diventato realtà teatrale. […] Finché tengo la commedia dentro di me, e ne sono il primo, solo e beato spettatore, cerco di far sì che le mie tre attività teatrali si aiutino a vicenda…44 [Corsivo mio].

Quand’anche non condizionata dalle necessità stringenti della scena e libera di vagare nell’iperuranio della fervida immaginazione dello scrittore, la commedia pare quasi ontologicamente impossibilitata a prescindere da questi quattro poli: l’autore, l’interprete, il regista e il pubblico. E forse è proprio grazie al legame a doppio filo con la sua concreta rappresentazione e circolazione nei teatri che il testo eduardiano riesce immancabilmente a schivare le insidiose anse intellettualistiche ed estetizzanti,

risultando sempre così «vivo»45

.

È il rapporto artigianale che De Filippo intrattiene

col teatro a vivificarne i frutti drammaturgici con linfa inestinguibile.

Si realizza così, nei capolavori del nostro triplice artista, quel felice connubio tra una cultura orale e gestuale, mimica, di matrice squisitamente partenopea, vicina al teatro di Varietà e di rivista, all’avanspettacolo e alla farsa popolare, che privilegia l’aspetto fonico ed espressivo della parola, e la migliore tradizione teatrale europea, che al contrario pone in posizione di spicco il significato e le idee che esso veicola piuttosto che il significante; il quale connubio è prerogativa caratteristica, secondo

Anna Barsotti, della «scrittura scenica»46 di Eduardo

,

che si accinge cioè a porre fin

44La citazione, tratta dal volume I capolavori di Eduardo, Torino, Einaudi, 1973, p. 220, è riportata in

Antonella Ottai, Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo, in A. Ottai e P. Quarenghi (a cura di), L’arte della commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo, Bulzoni, Roma, 1990, p. 96.

45 Egli d’altra parte ne era ben consapevole e anzi, additava questa qualità come prerequisito

fondamentale delle sue opere: «Non so quando le mie commedie moriranno e non mi interessa: l’importante è che siano nate vive» [In Isabella Q. De Filippo (a cura di), Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, Bompiani, Milano, 1985, p. 142].

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21

da subito le condizioni della futura rappresentazione, pur senza rinunciare ad una indubbia letterarietà.

È quanto si evince da un’attenta lettura del corsivo delle sue commedie: le didascalie che, pur svolgendo un primo e fondamentale ruolo tecnico e funzionale – quello ad esempio di creare le scenografie che faranno da sfondo alle commedie; descrivere l’aspetto e gli stati d’animo dei personaggi; seguirne i movimenti sulla scena - risuonano talvolta di uno struggente lirismo e divengono, in alcune circostanze privilegiate, sede della feconda sovrapposizione tra l’autore e il personaggio e testimonianza della loro comune natura di “creature teatrali”, nate cioè

per il teatro e vissute - si può dire - unicamente attraverso o in funzione di esso47.

Penso in particolare alla didascalia iniziale di uno dei più precoci successi del

nostro autore

,

l’atto unico Sik-Sik, l’artefice magico, scritto nel 1929 e inizialmente

concepito come sketch da inserire all’interno della rivista Pulcinella principe in

sogno. La gaglioffa epopea di questo simpaticissimo artista guitto vagamente filosofo

o, come lo ha felicemente definito la Barsotti, «illusionista-illuso», si apriva, fino all’edizione del ’59 della Cantata dei giorni pari, con una sorta di vibrante, emozionata confessione dell’attore Eduardo–Sik-Sik:

Sono le ventuno e trenta. Il pubblico si affolla davanti al botteghino. Fra un quarto d’ora avrà inizio lo spettacolo. Ecco l’unico istante, nel quale sento la responsabilità formidabile del mio compito: questa folla è anonima, sconosciuta, esigente. E mai come in questo istante io sono fuori, ancora completamente fuori dal cerchio della finzione. […] Fino a che la luce della ribalta non m’acceca con le sue piccole stelle luminose e il buio della sala non spalanca il suo baratro infinito […]. La tela si leva. Ecco le piccole stelle. Ecco il baratro. Ecco l’attore48.

Ora, poiché tale splendida notazione autobiografica non può in alcun modo trovare una traduzione scenica, si capisce come essa sia stata concepita e di conseguenza scritta pensando ad un lettore, non ad uno spettatore. E che non si tratti di un caso

47«La mia vera casa è il palcoscenico, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita, sono

uno sfollato»- dichiarò Eduardo, come leggo in Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, op. cit., p. 148.

48

La didascalia, eliminata nelle edizioni successive della Cantata, è riportata da A. Ottai, Le due scritture: il tondo e il corsivo nelle commedie di Eduardo, op. cit., p. 93.

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isolato rileva l’acuta analisi di Antonella Ottai, la quale sottolinea come anche le indicazioni scenografiche sono percorse da un «affetto dei luoghi» che «chiama in prima istanza non tanto uno spettatore, quanto un lettore, a perdersi per un attimo nel

mondo del fuori scena, in una complicità di “amorosi sensi”»49; così come le

didascalie relative ai personaggi dimostrano «un’amorosità, una pietas, una poesia della persona, che tratta e trattiene la figura nella narrazione prima che l’intreccio la

declini nell’azione. E di questa sospensione è partecipe un lettore […]»50

. Altrimenti detto:

[…] se si analizza la didascalia delle commedie di Eduardo per trovarvi la perfetta specularità con la scena che le traduce o che le dovrebbe tradurre, si vede subito che l’una contiene più funzioni di quante l’altra riesca ad assorbire. Restituiti al corpo, alla voce, allo spazio, agli oggetti tutti gli elementi loro pertinenti; sovrapposta all’azione agita la pagina che la scrive – o che la registra -, questa finisce con lo smarginare in alcune parti. Esiste quindi nella scrittura un residuo, un resto «scenicamente intrattabile», un luogo proprio che resiste al trattamento teatrale, e di cui la scena non riferisce51.

Possiamo quindi accantonare le sterili discussioni di coloro che fanno coincidere il valore delle opere di Eduardo con la sua irresistibile bravura d’interprete, dal momento che non soltanto le sue commedie sono state rappresentate sui palcoscenici di tutto il mondo, dall’Inghilterra alla Russia, da attori che si

esprimevano nelle lingue più disparate52 e che mancavano, ovviamente, del retroterra

culturale partenopeo che informava l’arte di De Filippo53, ma hanno continuato e

49

Ivi, p. 91.

50Ibid.

51Ivi, pp. 87-88.

52 A dargliene atto è anche la prestigiosa Accademia Nazionale dei Lincei, che osserva nella

menzionata relazione del ’72: «I testi di Eduardo vivono al di là dell’efficace rappresentazione data dal loro autore. Se così non fosse, non si riuscirebbe a spiegare il successo che essi hanno riscosso fuori della loro terra d’origine, tradotti e recitati in lingue diverse». [In G. Antonucci, Eduardo De Filippo. Introduzione e guida allo studio dell’opera eduardiana. Storia e antologia della critica, op. cit., p. 36].

53A proposito delle risorse dell’attore napoletano, Eduardo afferma: «[…] egli possiede naturalezza,

ritmo, creatività; se è bravo sa improvvisare, cosa quasi impossibile per un attore in lingua; ha un bagaglio tradizionale di sotterfugi, malizie, lazzi, convenzioni sceniche che è utile qualora ad esso si unisca senso di misura, intelligenza, sensibilità» - come avveniva appunto nel suo caso.[In Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, op. cit. p. 172].

(25)

23

continuano tuttora, a ormai più di trent’anni dalla sua morte, ad essere recitate provocando riso e sdegno, commozione e amarezza nelle vecchie come nelle nuove generazioni. A ciò si aggiunga la consapevolezza che la lettura del testo fornisce talvolta una conoscenza diversa e più intima dell’opera rispetto a quella che ne avremmo qualora fossimo dei semplici spettatori, e capiremo che la drammaturgia, nella penna di questo grande uomo di teatro, non è affatto subordinata alla recitazione, ma ricopre un ruolo tutt’altro che servile, costituendo al contrario un momento imprescindibile affinché le altre due arti del nostro autore possano espletarsi.

Scrittura scenica e letteraria, essa vive una sorta di paradosso: gode di un valore autonomo che la eterna, come solo ai grandi classici della letteratura accade, eppure è impensabile al di fuori del mondo per cui è nata: il teatro, con tutte le marche di temporalità, materialità, concretezza e finanche vanità che la rappresentazione scenica reca con sé. Lungi però dal riportarne conseguenze nefaste, mi pare che quest’esistenza posta sul crinale tra due mondi diversi e complementari consenta alla drammaturgia eduardiana di accedere all’universalità delle tematiche e dei sentimenti che tratta senza mai pagare lo scotto di un tedioso andamento didascalico o di un’annichilente astrattezza.

Perciò, prima di affrontare un’analisi degli snodi della lunga e folta carriera drammaturgica di De Filippo, reputo doveroso uno sguardo a quel rigoglioso fermento teatrale che animava la Napoli dei primi decenni del Novecento, quando fin dalla più tenera età egli imparò a conoscere ed amare la scena, si affermò come attore e iniziò ad approcciarsi alla scrittura di atti unici e poi di commedie di più ampio respiro.

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24

II. UN PADRE INGOMBRANTE.

Il “battesimo teatrale” del piccolo Eduardo non si fece attendere a lungo: a soli quattro anni il fanciullo debuttava sulla scena con una comparsa in un’opera

parodica, la Geisha, nella compagnia del padre naturale Eduardo Scarpetta, il grande

attore–autore che all’epoca spopolava nella roccaforte del Teatro Fiorentini e di cui Eduardo era figlio d’arte.

La sua prima formazione avvenne dunque all’ombra di una figura di spicco all’interno del quadro artistico della Napoli del tempo. Alla personalità di Scarpetta si suole infatti riferirsi come al cosiddetto riformatore del teatro partenopeo.

Benché non ignorasse la ricca eredità del teatro popolaresco e farsesco di Antonio Petito, l’ultimo grande Pulcinella, Eduardo Scarpetta aveva compreso che il teatro delle maschere era ormai giunto al tramonto e tentò dunque di indirizzare il solco della tradizione partenopea verso una comicità maggiormente realistica, e comunque più legata agli uomini che alle situazioni, dalle quali invece solitamente scaturiva e rifluiva libera di protrarsi anche per delle lunghe scene; a discrezione degli interpreti insomma, che spesso recitavano «a soggetto».

Così, anziché impersonare una maschera, l’artista si cucì addosso il fortunato personaggio di Felice Sciosciammocca, emblema del piccolo-borghese sfrontato,

donnaiolo, scaltro, ambizioso e taccagno eppur simpatico, che fu per lui una vera e

propria garanzia di successo. Egli si propose di trarre la materia delle proprie commedie dall’ambiente sociale che più gli pareva consono ad una genuina, bonaria comicità: la borghesia appunto, della quale si rivelò un acuto osservatore, rappresentandone i vizi e le contraddizioni con impareggiabile lucidità e sensibilità artistica. Inoltre, affinché le sue opere mostrassero una più solida struttura, Scarpetta si servì del repertorio che giungeva provvidamente d’oltralpe: i tanto plauditi

vaudevilles e le pochades francesi, grazie ai quali la vena macchiettistica napoletana

(27)

25

della semplice traduzione e «costituì

,

sottolinea Antonucci – più che un

adattamento di temi e situazioni tipicamente parigini, un trapianto felicissimo nel

costume napoletano»54.

Comunque, se Scarpetta attirava un gran numero di fedeli spettatori, principalmente di estrazione piccolo-borghese, altrettanto fortunate erano le opere di un altro acclamato autore-interprete: Federico Stella. Presso il teatro San Ferdinando, i membri dei ceti più bassi e popolari accorrevano ad assistere alle rappresentazioni di drammi a tinte forti, spesso adattamenti dei romanzi d’appendice di Francesco Mastriani, in cui Stella dava vita ad un sempre rinnovato conflitto fra Bene e Male, che si concludeva immancabilmente con la vittoria del primo, ovvero - che è lo stesso - col trionfo della povera gente.

Lontano da simili plebiscitari consensi si situava infine un gruppo di artisti che faceva capo a Salvatore Di Giacomo e guardava ad un teatro dialettale di più alto livello, degno di essere definito «teatro d’arte». Elettivamente affine alla lezione verista di Verga, Di Giacomo firmava testi dotati di grande incisività drammatica, nei quali il destino del singolo personaggio veniva risucchiato entro quello corale, ammantato da un potente afflato poetico. Pur senza mai eguagliarlo in talento, in molti si posero sulla sua scia. Per citarne solo alcuni: Ernesto Murolo, Libero Bovio, Rocco Galdieri, Diego Petriccione, Eduardo Pignalosa, Francesco Corbinci.

A costoro si rivolgeva implicitamente Eduardo Scarpetta, quando dichiarò con fierezza:

Io sostenni, sostengo e sosterrò sempre che dati i costumi, l’indole e le tradizioni del nostro popolo, non è possibile, qui a Napoli, altro teatro che non sia il comico; e dimostrai che tutti i tentativi e gli esperimenti fatti per un teatro diverso da quello puramente comico erano tutti miseramente falliti. […] Perché? Perché il nuovo genere non piaceva al pubblico che io ho sempre ritenuto e ritengo giudice sovrano e inappellabile in fatto d’arte; e perché mancavano gli autori. Mancavano allora e mancano oggi. Lo spirito di un popolo è così complesso che a renderlo occorre solo un capolavoro; e di capolavori io non ne ho visti, né riesco a scorgerne sull’orizzonte […] Giacché per capolavoro intendo un lavoro, il quale abbia repliche

54

G. Antonucci, Eduardo De Filippo. Introduzione e guida allo studio dell’opera eduardiana. Storia e antologia della critica, op. cit., pp. 4-5.

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26

numerosissime e successo sempre crescente di pubblico e di cassetta. A parer mio la vera missione del teatro dialettale non è quella di essere un teatro delinquente, ma bensì quella di colpire con la satira o far della morale divertendo55.

Centralità delle aspettative e dei gusti del pubblico; ricerca di una comicità che, senza mai smettere di suscitare il riso e la distensione degli animi, non si pieghi a

promuovere un «teatro delinquente»56; non sia mai frivola o, peggio ancora, becera,

ma, al contrario, diventi l’arma di una pungente satira sociale e veicoli al contempo la circolazione di un messaggio etico-morale. Ritengo che questi siano i principali insegnamenti che Eduardo ha tratto dal padre, oltre ad altri di carattere prettamente tecnico.

Come non pensare infatti a quella sorta di imperativo categorico che per De Filippo era l’intrattenimento del pubblico, il destarne l’attenzione e lo stuzzicarne la curiosità? Tale preoccupazione non è mai venuta meno durante l’arco della sua

pluridecennale carriera57, come dimostra l’insistenza delle sue dichiarazioni in

proposito. Per rammentarne solo alcune:

55 E. Scarpetta, Cinquant’anni di palcoscenico, Savelli, Milano, 1982, pp. 396-7, citato da A.

Bisicchia,Invito alla lettura di Eduardo De Filippo, Mursia, Milano, 1982, pp. 26-7.

56Degno di nota è l’uso scarpettiano di un termine altamente ambiguo quale «delinquente» a definire

ciò che, a parer suo, il teatro dialettale non doveva assolutamente divenire. È probabile che attraverso tale attributo l’artista volesse designare un certo tipo di spettacolo canagliesco e gratuito, sostanzialmente privo di una qualsiasi ragion d’essere.

57Desideroso di riscuoterne il favore, il teatro di Eduardo non “subisce” tuttavia i gusti dei suoi

spettatori e continua a perseguire i propri obiettivi, riassumibili nella formula che condensa l’utopia di uno dei suoi personaggi meglio riusciti, Don Antonio Barracano, il Sindaco del Rione Sanità: «un mondo che giri lo stesso, ma un poco meno rotondo e più quadrato» [Il Sindaco del Rione Sanità, in Cantata dei giorni dispari, volume III, Einaudi, Torino, 2006, p. 84].

E che Eduardo non fu mai succube delle aspettative altrui - del pubblico come della critica - dimostra la sua stessa evoluzione artistica e la ricerca incessante che lo portò, fra i malumori generali, ad abbandonare le vesti che aveva indossato agli inizi della sua professione e a porre fine alla compagnia del «Teatro Umoristico I De Filippo», quando la congiuntura storica e sociale in cui versava il nostro paese gli suggerì un teatro diverso, meno evasivo e più impegnato nella ricostruzione morale del popolo italiano. D’altronde già prima egli aveva dato prova di grande coraggio, quando, benché sull’onda di un incredibile successo, seppe distaccarsi dallo spettacolo di Varietà per confrontarsi con il meglio che la scena nazionale aveva da offrire: la drammaturgia di Pirandello.

La relazione che intrattiene con gli spettatori è quindi di mutuo scambio, un dare e avere nel quale l’autore-attore mantiene e rivendica, con un atteggiamento a metà strada fra il carezzevole e il protervo, una propria sfera di autonomia: «Tendi sempre una mano al pubblico, vedrai che lui te la stringerà nella sua destra. Non tendergli anche l’altra mano perché te la rifiuterà senz’altro, sdegnosamente. Ma tu aspetta e vedrai che sarà lui a tenderti la seconda, desideroso di farsela

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Scrivere una commedia impegnata è facile; il difficile è impegnare il pubblico ad ascoltarla58. Per scrivere una commedia valida occorre prima di tutto un’idea che faccia discutere il pubblico, che lo faccia contento. […] Hai lavorato bene quando hai fermato il pubblico e l’hai messo in una tensione da seguire questo dialogo perché vuole saperne di più. Il pubblico è esigente59.

Il teatro non è un libro […]: deve essere vivo e quindi per un’ora e mezzo, due ore, deve avere sempre un aspetto di sorpresa. Perciò il pubblico viene a vedere le mie commedie perché si diverte e intanto porta a casa qualcosa60.

Ma l’esempio paterno non si limitò a influenzare il rapporto tra Eduardo e i suoi spettatori. I debiti scarpettiani nella recitazione e nella scrittura del figlio appariranno tanto più evidenti se paragoniamo la sua arte con quella di un altro talentuoso autore-interprete: Raffaele Viviani. I suoi graffianti testi descrivono una Napoli brulicante di vita e dolori, passioni e miseria attraverso pennellate molto più nervose e decise rispetto al lieve tocco di Eduardo, alla sua mano composta e aggraziata. Una sorta di epica popolare da una parte; una lirica ora placidamente sorridente, ora malinconica e pensosa dall’altra. Al vicolo buio e affamato, percorso da impulsi priapei e umori corporali si sostituisce il più ristretto e rasserenante interno di abitazioni piccolo-borghesi; alla predilezione per il gesto-canto del café

chantant subentra l’amore per il parlato-scritto della rivista. E a separare i due

cammini interviene proprio, secondo Puppa, l’assimilazione da parte di Eduardo della lezione paterna:

Perché è sotto il segno del padre Scarpetta che Eduardo matura il suo stile di interprete e di scrittore, è sotto la sua comicità prudente e manierata che depura gli impulsi farseschi e gli effluvi pulcinelleschi desunti dalla «bassa». In un certo senso se Viviani rappresenta un po’ il Plauto (e l’Aristofane) di un mondo rusticano-urbano, l’asse Scarpetta-Eduardo agisce come

stringere, ed allora sarai tu a rifiutargliela, facendogli però intendere che una sera o l’altra gliela tenderai affettuosamente. Insomma, se tu ti rifiuti, ti seguirà per sempre, se ti rifiuta lui sei fottuto» - si legge in Quattro commedie di Eduardo e Vincenzo Scarpetta, Einaudi, Torino, 1974, p. 55, come riporta F. Angelini in Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi, in A. Ottai, P. Quarenghi (a cura di), L’arte della commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo, op. cit., p. 16.

58Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, op. cit., p. 164.

59 P. Quarenghi (a cura di), Eduardo De Filippo. Lezioni di teatro all’Università di Roma «La

Sapienza», op. cit., pp. 19-20.

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