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Ma non è una cosa seria, tratta da due precedenti novelle intitolate

rispettivamente Non è una cosa seria e La signora Speranza161, esordì sul palco del

Teatro Rossini di Livorno il 22 novembre del 1918 e fu pubblicata nello stesso anno dall’editore Treves, a Milano.

Al centro della pièce vi sono le vicende di un Don Giovanni in piena regola: Memmo Speranza che, sopravvissuto per miracolo al duello col mancato cognato - ovvero col fratello di una delle innumerevoli fanciulle di cui ha macchiato l’onore - decide di dare un taglio alle beghe matrimoniali adottando una soluzione a dir poco singolare: sposandosi.

Eh già, perché la contraddizione è soltanto apparente: basterà infatti trovare una donna disposta ad esser moglie esclusivamente sulla carta ed egli potrà coltivare le proprie abitudini libertine sino alla fine dei suoi giorni, liberandosi una volta per tutte dal timore che qualcuna delle sue amanti abbia a domandargli di farne la propria signora. D’altronde la scelta è semplice e ricade in men che non si dica sulla proprietaria di una modesta pensione, Gasparina Torretta: una donna che dimostra molti più anni di quanti realmente possegga, precocemente invecchiata a causa delle preoccupazioni che ha sempre affrontato in totale solitudine e rassegnata a non piacer mai ad anima viva. Di fronte ad una simile offerta, ella pensa si tratti di uno scherzo, ma l’insistenza di Speranza la convince che fa sul serio e Gasparina non può che acconsentire ad un accordo tanto vantaggioso per entrambi.

161Già apparsa sulle colonne del «Corriere della Sera» il 7 gennaio del 1910, Non è una cosa seria

confluì inizialmente nella raccolta Terzetti, edita a Milano dalla Treves nel 1912; passò poi nel Carnevale dei morti, stampato a Firenze dall’editore Battistelli nel ’19 e fece infine parte della Giara, pubblicata da Bemporad nel 1928.

Mai inclusa dal suo autore nei primi quattordici volumi delle Novelle per un anno che videro la luce tra il 1922 e il 1936, né compresa entro la raccolta postuma Una giornata, edita a Milano dalla Mondadori nel 1937, La signora Speranza era tuttavia comparsa già molti anni addietro, nel lontano 1903, all’interno della seconda serie di novelle del volume Beffe della morte e della vita, pubblicato a Firenze dall’editore Lumachi.

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Accade però che ben presto il protagonista si pente dell’unione legalmente stipulata con la donna, ed ella, da persona di buon cuore qual è, si affanna subito a cercare un cavillo qualsiasi che gli consenta di annullarla.

Ecco dunque il colpo di scena: quando si reca a trovare la coniuge per udire il piano che ella ha architettato con la complicità del decrepito e balbuziente signor Barranco, che ambirebbe a prenderla in moglie, Memmo non può fare a meno di notare quanto la quiete e il riposo nella residenza di campagna di cui le ha fatto dono abbiano ringiovanito lo stanco volto di lei, che adesso gli appare invece «tutta un

riso»162. Già vittima dell’insospettato fascino della consorte, è infine la sua

generosità a determinare un repentino mutamento nell’animo di Speranza: egli si ravvede della propria irresponsabile condotta e sul finale della commedia si dichiara intenzionato a trascorrere il resto della propria esistenza con Gasparina. Adesso sì, proprio come un vero marito e una vera moglie:

MEMMO E se ti dicessi sul serio che non scherzo più? GASPARINA Non ci crederei.

MEMMO Se ti dicessi sul serio che mi sono seccato, stancato, nauseato della mia pazza vita di scapestrato, degli amici stupidi e delle donnette più stupide, e delle signorine più stupide ancora? Proprio stancato, sai? Proprio nauseato! Anche perché gli anni miei – capisci? – non comportano più la dissipazione a cui mi sono abbandonato finora. Se ti dicessi che questo lo sento ora; lo sto sentendo ora, qua, con una sincerità che mi fa quasi paura, perché è una sorpresa anche per me stesso; qua, ora, davanti a una cara donnina che s’è fatta bella, non so come! Per qual prodigio d’amore! Ma certo in premio d’essersi miracolosamente serbata pura così, in mezzo a tutte le miserie e le contrarietà della vita... Ebbene, se ti dicessi questo? – Guardami negli occhi! Ti dico la verità!

[...]

GASPARINA Badi, signor Speranza, che diventa allora una cosa seria! MEMMO Ma è, è, è una cosa seria163!

Anche soltanto da questa breve introduzione traspare un Pirandello eccezionalmente brioso, a tratti quasi farsesco, ampiamente godibile anche da parte di un pubblico variegato, sebbene pure quest’opera presenti l’inconfondibile firma del suo autore, quell’insolubile tensione dialettica tra due opposti poli che anima tutta

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In L. Pirandello, Ma non è una cosa seria e Il giuoco delle parti, Mondadori, Milano, 1971, p. 80.

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la produzione letteraria dell’agrigentino. Non a caso Marco Praga definì la commedia «meno pirandelliana delle altre nell’argomento, nella costruzione; pirandellianissima

nel dialogo»164, che puntualmente sfida il comune buon senso opponendogli una

paradossale verità.

Nello specifico, a fronteggiarsi in questo piacevolissimo testo sono le ragioni dell’intelletto e quelle del cuore. Così, mentre la fredda logica spinge Memmo a celebrare su due piedi il matrimonio per burla, i sentimenti lo portano subito dopo a maledire tale scelta e a dibattersi nella frustrazione e nel rammarico che gli derivano dal saperla definitiva e irreversibile. È ciò che Magnasco, un amico di Memmo, tenta di spiegare a Loletta, che soffre le pene di un amore non più corrisposto per Speranza e giudica illogico il comportamento scontroso che lui le riserva:

MAGNASCO Ma sì, appunto: umano. Perché il trionfo della logica, vedi, Loletta, è stato quel suo matrimonio. Perfetta astrazione. Ragionamento che filava a meraviglia! Eh, tu non comprendi, Loletta mia! La logica, sai che cos’è? Ecco: immagina una specie di pompa a filtro. La pompa è qua. (Indica la testa.) Il filtro, s’allunga fino al cuore. Tu hai un sentimento? La macchina che si chiama logica te lo pompa e te lo filtra; e il sentimento perde subito il suo calore; il suo torbido; si raffredda; si purifica: si i-de- a-liz-za! Fila tutto a meraviglia perché – sfido! – siamo fuori della vita, nell’astrazione. La vita è lì, dov’è il torbido e il calore, dove non c’è più logica, capisci? Ma ti sembra logico, scusa, che tu pianga, adesso? È umano165!

L’azione è dunque generata dalla scollamento esistente tra la ragionevolezza, l’opportunità sociale da una parte, e le passioni, i sentimenti disinteressati e travolgenti dall’altra. Se in un primo momento il protagonista intende arginare i propri rischiosi amori opponendovi l’inespugnabile roccaforte di una legale finzione,

164Come leggo nell’Introduzione alla commedia a cura di Corrado Simioni in L. Pirandello, Ma non è

una cosa seria, Il giuoco delle parti, op. cit., p. XXXIII.

165Ivi, pp. 38-9.

Della verità qui espressa da Magnasco fa il proprio vessillo il protagonista di un’altra pièce piarandelliana: Leone Gala, il marito tradito del Giuoco delle parti. Replicando a Guido, l’amante della moglie che non si capacita di come si possa arrivare – come è riuscito a fare Leone – a rinunciare alla vita per osservar vivere gli altri e sé stessi dall’esterno, egli afferma dall’alto della sua stoica imperturbabilità che tale rinuncia è tuttavia compensata da «un godimento meraviglioso: il giuoco appunto dell’intelletto che ti chiarifica tutto il torbido dei sentimenti, che ti fissa in linee placide e precise tutto ciò che ti si muove dentro tumultuosamente». Ivi, p. 101.

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di un rapporto tanto internamente vuoto quanto esternamente solido; e se nel secondo atto assistiamo alla ribellione del cuore, il quale rivendica all’intelletto le proprie ragioni; ecco che sul finale i due storici nemici imparano la via per una pacifica convivenza: la moglie per copertura diviene allora la fanciulla realmente amata, il vero oggetto del desiderio di Memmo; l’apparenza torna a coincidere con la sostanza.

Ma cosa accadrebbe se anziché deporre le armi, un’assurda ragionevolezza riuscisse a congelare la vitalità dei sentimenti; se la frattura tra realtà e finzione non riuscisse a ricomporsi? Potrei sbagliarmi, ma ho l’impressione che anche Eduardo si sia posto questo interrogativo e che la sua risposta sia arrivata proprio con il testo del ’73. Giunto alla fase conclusiva della propria esistenza, De Filippo potrebbe aver voluto mostrare a tutti noi una tetra distopia: un universo in cui la terribile «pompa a filtro» ha risucchiato e annichilito tutto ciò che d’umano esisteva; in cui ogni manifestazione d’affetto ubbidisce a un criterio di convenienza e opportunismo; in cui il nucleo familiare è stato irrimediabilmente corroso da sfiducia reciproca e profitto economico. Forse un memento affinché non si realizzasse una dimensione che doveva apparirgli quanto mai vicina a quella che sfilava sotto il suo sguardo attento.