La nostra rassegna sulla tortuosa formazione artistica di De Filippo non potrebbe dirsi completa senza almeno un accenno all’incontro che si sarebbe rivelato fertile di contatti e contrasti per il divenire del giovane autore-attore: quello con Luigi Pirandello, avvenuto nel 1933 presso il Teatro Sannazzaro di Napoli.
Il trentatreenne Eduardo si presentava al grande letterato siciliano con due progetti quanto mai ambiziosi: la traduzione in napoletano di Liolà – che fu rappresentato per la prima volta all’Odeon di Milano il 21 maggio del 1935 con una magistrale interpretazione di Peppino, al quale era affidata la parte del protagonista – e l’adattamento teatrale della novella L’abito nuovo; sfida estremamente ardua, dato
che si tratta di una delle più essenziali scritte da Pirandello75. Tra questi due lavori si
75 Lo scarno racconto pirandelliano narra il drammatico dilemma che affligge il protagonista
Crispucci, scrivano e galoppino presso lo studio dell’avvocato Boccanera. Uomo introverso e mansueto, egli ci viene presentato come un tutt’uno con l’abito misero e liso dal quale non osa separarsi, essendo il simbolo d’una onesta miseria difesa con orgoglio. Apprendiamo però dall’iniziale dialogo con l’avvocato che il suo status economico e sociale può cambiare, a patto che Crispucci si rassegni – come tutti si aspettano che faccia – ad accettare l’eredità lasciatagli dalla moglie che in vita lo ha disonorato e abbandonato con una figlia ancor piccola da crescere. Incassare l’eredità – lo capisce bene il modesto impiegato – significa anche incassare la vergogna e la pubblica umiliazione d’una ricchezza cumulata grazie alla professione infamante della defunta moglie; perciò egli, pur rendendosi conto che quel denaro faciliterebbe le nozze della figlia, non sa decidersi a riscuoterlo. Dopo diciotto lunghi giorni di trepidante attesa per la figlia e la madre del Crispucci, lasciate da lui
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frappose la messa in scena, desiderata proprio da quest’ultimo, del Berretto a sonagli da parte della Compagnia dei fratelli De Filippo. Stavolta il ruolo di protagonista
spettò a Eduardo, che con la sua performance conquistò Savinio76, il quale d’altronde
aveva già profondamente apprezzato l’iniezione «di puro sangue partenopeo»
all’interno del corpus siculo di Liolà77
.
Non si trattò quindi del repentino incrociarsi di due strade che altrimenti si sarebbero mantenute separate e distanti l’una dall’altra, bensì di una intensa frequentazione tra i due drammaturghi che si protrasse a lungo, senza però che Pirandello potesse assistere alla prima dell’Abito nuovo, avvenuta il primo aprile 1937 al Manzoni di Milano, quando egli era ormai morto. A trarne vantaggio non fu
– precisa la Angelini78
- solo Eduardo, ma anche l’anziano Pirandello, che nella recitazione e scrittura partenopea del giovane teatrante aveva trovato una risposta al
senza alcuna notizia, vediamo ricomparire il protagonista nella misera stamberga in cui abitano, preceduto dai bauli contenenti la turpe eredità che si è piegato a riscuotere. Il protagonista appare adesso goffamente infagottato in un abito nuovo troppo ampio per il suo corpo minuto. Il disagio che il suo grottesco aspetto causa alle due donne diventa palpabile col silenzio che piomba sulla stanza in cui i tre sono riuniti. Fina, la figlia, si fa coraggio e domanda al padre se ha cenato. «Wagon- restaurant», esclama Crispucci, e sulla sua sprezzante risposta si chiude l’amara novella.
Venendo al testo che Eduardo seppe trarne, sorprende innanzi tutto l’ampiezza di respiro che con i suoi articolati tre atti egli conferì al racconto pirandelliano. L’intreccio resta fedele al testo originario, ma è notevolmente ampliato grazie all’inserimento di situazioni e personaggi nuovi. Tra le principali differenze che separano le due versioni, ricordiamo che l’antefatto della novella – la morte della moglie adultera – viene invece rappresentato in scena nel primo atto eduardiano. Ma soprattutto il drammaturgo partenopeo si rivelò perfettamente in grado di plasmare un personaggio nuovo, di staccarsi dalla traccia pirandelliana per creare un’opera inedita e – quel che è più importante – smaccatamente sua. Così, se il Crispucci della novella reprime le parole che gli affiorano sulle labbra ricacciandole nell’«abisso di silenzio» in cui si svolge la sua intera esistenza, il Crispucci del dramma dà libero sfogo a tutti i suoi pensieri nel magistrale finale in cui – altra differenza – perde la vita, distrutta dall’accettazione di quella squallida eredità.
76«Quanto a Eduardo, non è possibile descrivere per quali modi egli sia andato rendendo sempre più
ansiosa la sua mitezza raziocinante, e come egli abbia fatto sobbalzare, fino al clima della tragedia, la sua debolezza e la sua umiliazione di vinto» - dichiarò il critico e artista, come leggo in F. Angelini, Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi, op. cit., p. 29, che a sua volta cita da S. Zappulla Muscarà (a cura di), L. Pirandello, Carteggi inediti, in «Quaderni dell’Istituto di Studi Pirandelliani», n. 2, Bulzoni, Roma, 1980, p. 366.
Del resto Eduardo ricevette un giudizio entusiasta da parte dello stesso Pirandello, notoriamente critico nei confronti delle rappresentazioni delle proprie opere. In una lettera a lui indirizzata del febbraio 1936 ammise: «Ciampa era un personaggio che attendeva da vent’anni il suo vero interprete». [In F. Angelini, Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi, op. cit., ibid.].
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Le parole di Savinio sono riportate da Anna Barsotti nell’Introduzione a Eduardo, op. cit., p. 27.
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problema teorico che da tempo lo assillava: quello del parlar bene piuttosto che bello,
e dunque del ricorso al dialetto in nome della verità, non del folclore79.
Ecco dunque la soluzione: Pirandello, per quindici cruciali giorni del dicembre 1935, scrive le principali battute che generano l’azione scenica e De
Filippo ne traduce il pensiero soggiacente nella sua lingua natia, in napoletano. Il
punto di partenza non è quindi una commedia appositamente approntata dal
drammaturgo siciliano, bensì un fitto colloquio tra i due, una comunione di forze e di
impegno. Il coinvolgimento dell’illustre letterato è evidente quando esclama con enfasi: «Se io scrivo la commedia in italiano, lei poi la dovrà tradurre. Se invece i dialoghi li scriviamo insieme, il personaggio centrale parlerà con le sue parole, e
allora sarà più vivo più reale!»80.
L’adattamento teatrale dell’Abito nuovo costituisce un nodo focale nel percorso eduardiano di conquista della propria identità artistica. Nonostante il timor
sacro che doveva infondergli il venerato modello, egli firma un’opera nella quale
risalta la sua inconfondibile zampata: non si tratta di una mera traduzione, ma di una vera e propria riscrittura, di un testo nuovo e originale che, partendo da quello pirandelliano, lo attraversa per giungere poi ad assestarsi come qualcosa di altro e diverso rispetto alla novella. Non solo: secondo la Angelini «in questo episodio si sintetizza sia il passato di Eduardo che il suo progetto futuro: essere sempre meno
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Su tal punto concorda Eduardo, che così rimprovera un suo allievo che aveva proposto di servirsi del dialetto calabrese per ragioni folcloristiche: «No, folcloristico no. Deve essere un dialetto che aiuti la lingua, che dia anche vitalità alla lingua italiana. Tanti detti nostri, romani e napoletani, sono entrati a far parte della lingua italiana. Proprio il folclore a me non è mai piaciuto».
L’adozione del dialetto per De Filippo non è dunque una scelta di comodo né un rifugiarsi in un ambiente noto e circoscritto, bensì il servirsi di uno strumento in grado di vivificare la lingua nazionale dal suo interno, donandole quella linfa legata alla naturalezza con cui i parlanti vi si approcciano. E precisa infatti: «Tanto non ne possiamo uscire: uno come lei, calabrese, seppure scrive in italiano scriverà sempre in calabrese; un napoletano scriverà sempre in napoletano; un siciliano scriverà sempre in siciliano. Leggetevi Pirandello e osservate». [In P. Quarenghi (a cura di), Eduardo De Filippo. Lezioni di teatro all’Università di Roma «La Sapienza», op. cit., p. 53].
80Pirandello, in Eduardo De Filippo, Il giuoco delle parti, in AA. VV., Eduardo De Filippo e il Teatro
San Ferdinando, Edizioni Teatro San Ferdinando, Napoli, 1954, citato da A. Barsotti, Introduzione a Eduardo, op. cit., p. 27.
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napoletano, alla maniera del suo passato col Teatro Umoristico, e sempre più
italiano, alla maniera della sua versione napoletana di un testo di Pirandello»81.
Sovente demonizzato da gran parte della critica come un accidente estraneo al talento di De Filippo che ne avrebbe “guastato” la genuinità tutta farsesca e
partenopea
,
l’incontro con Pirandello mi pare invece significativo e per certi versinecessario, data la ferma volontà del nostro autore di non rinchiudere la propria arte entro stretti recinti regionalistici e dialettali, di far riecheggiare l’eco delle sue opere in tutta la nazione e data anche la sua ansia di confrontarsi con temi e problematiche sempre più impegnativi. Tutto ciò è piuttosto un merito che un motivo di biasimo e fraintendono il significato di questo fortunato contatto coloro che lo riassumono nella facile etichetta di un supposto pirandellismo contratto da Eduardo, quasi si trattasse di un morbo letale. Per tali ragioni sottoscrivo pienamente il giudizio di Bisicchia, per il quale esso non è tanto una «moda», quanto «un’area entro cui sperimentare una propria idea di teatro, dalla quale riescono a emergere delle grosse personalità come quella di Rosso di San Secondo e di Bontempelli»; perciò «subirne il fascino non è una colpa, quanto non lo è misurarsi con un’esperienza che propone una filosofia della vita più legata a quella crisi dell’uomo novecentesco che generò, nel teatro europeo, il frantumarsi della sua psicologia e la ricerca di una nuova
identità»82 - quella che forse meglio di ogni altra descrive il dramma del secolo
appena trascorso.
Ben lontane dall’essere un infausto prodotto del caso, la conoscenza e la successiva collaborazione col drammaturgo siciliano furono invece fortemente voluti
da Eduardo83, il quale - occorre ricordarlo - si era già misurato con temi
81
F. Angelini, Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi, op. cit., pp. 29-30.
82A. Biscchia, Invito alla lettura di Eduardo De Filippo, op. cit., pp. 56-7.
83Lo conferma, se mai ce ne fosse bisogno, la testimonianza di Peppino: «Io ero giovane allora. […]
Ero giovane e avevo in cima ai miei pensieri una cosa sola: le nostre commedie. Stimavo e veneravo Pirandello: però ritenevo sbagliato sacrificare per lui il nostro repertorio. Mio fratello Eduardo, invece, la pensava diversamente. L’idea del Liolà era venuta a lui e Pirandello si era trovato subito d’accordo»
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espressamente pirandelliani, pur senza mai scadere in una pedante imitazione dell’ammiratissimo modello.
Si pensi ad esempio al motivo della pazzia, comparso in un’opera del ’22 - di undici anni precedente dunque il fatidico incontro - Uomo e galantuomo, e ripreso, a distanza di cinque anni, in Ditegli sempre di sì. Nonostante quest’ultima mostri un
appesantimento della tematica in direzione di una più severa critica sociale rispetto
all’atmosfera ancora sorniona e guittesca della precedente commedia, neppure la follia di Michele Murri - protagonista di Ditegli sempre di sì - ne rispecchia la pirandelliana metafora di malattia sociale universalmente intesa, priva cioè di qualsiasi attributo storico, geografico o economico. Direi piuttosto che essa rappresenta l’arma grazie alla quale può levarsi una voce di denuncia, di dissenso verso una società che solo se guardata da un punto di vista straniato – quello appunto del pazzo – si scopre essere il regno dell’ipocrisia, del formalismo e delle convenzioni più ottuse. E benché la pazzia si leghi qui ad un altro tema squisitamente pirandelliano - la mistificazione del linguaggio, la falsità della parola, l’incomunicabilità fra gli individui - basterà ricordare il legame che il refrain
ossessivamente ripetuto dal protagonista fino a diventare un vero e proprio tic84
intrattiene con la tradizionale comicità partenopea per comprendere quanta originalità mantenga l’operazione di Eduardo, quanto ampio sia il suo margine di autonomia.
E Michele non è né il primo, né l’ultimo dei suoi personaggi ad esperire la convenzionalità di quella che dovrebbe essere una lingua di scambio, garante della circolazione di idee e del dialogo, quindi dell’incontro fra i soggetti, e invece si dimostra l’espressione dell’atrofia sociale e della solitudine umana. Di fronte a tale situazione, i protagonisti delle commedie di Eduardo reagiscono in maniera di volta in volta diversa; innanzitutto creandosi un linguaggio proprio che, per la sua sincerità
- ricorda in Farse e commedie, Marotta, Napoli, 1984, citato da F. Angelini, Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi, op. cit., p. 28.
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e per il suo carattere privato, contribuisce all’aggravarsi del loro isolamento e ad astrarli ancor più dal mondo che li circonda. È quanto avviene nel già ricordato Sik-
Sik, l’artefice magico, in cui l’inedita mistura di italiano e dialetto ne rimarca la
goffaggine e, dispiegandosi in lunghi monologhi – data la mancanza di risposta da parte dell’immaginario pubblico interno – lo aliena dalla realtà, collocandolo definitivamente nel suo magico mondo personale, inaccessibile agli altri.
Col passare del tempo le reazioni dei protagonisti assumeranno contorni più
netti e polemici, diverranno silenziose ribellioni o si serviranno ora della cecità, ora
dell’immobilità, ora della malattia per condurre la loro ostinata rivolta contro una società falsa che si tappa le orecchie pur di non udire le loro verità. Nondimeno, lo scarto nei confronti di Pirandello è palesato proprio dalla permanenza della società: un organismo sempre concreto e tangibile; stavolta sì: storicamente, geograficamente ed economicamente connotato. Sebbene i capolavori di questo grande drammaturgo riescano immancabilmente a valicare i confini territoriali e temporali, tali dimensioni permangono nelle sue opere e apportano un soffio vitale alle storie che sottendono. «Il pirandellismo si caratterizza per una natura propriamente filosofica, l’eduardismo per una natura propriamente storica. […] I sofismi pirandelliani in Eduardo si concretizzano, diventano realtà sofferta, non più a livello di pensiero o di logica, ma a livello di vita» - sintetizza Bisicchia85. Solo se teniamo presente la natura tutta immanente delle commedie di Eduardo potremo capire come egli abbia attraversato Pirandello, non bloccandosi al suo cospetto.
Per avere una prova tangibile dell’abisso che separa non soltanto le loro produzioni e poetiche, ma persino le filosofie della vita e dell’arte che li animarono sarà sufficiente confrontare le accezioni che essi conferirono ad un medesimo
sostantivo: umorismo. Se ad esso Pirandello dedicò un intero saggio86, all’insegna
dell’umorismo si apre pure la prima produzione drammaturgica eduardiana, giacché
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A. Bisicchia, Invito alla lettura di Eduardo, op. cit., p. 57.
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nel 1930 la neonata Compagnia dei fratelli De Filippo si presentava al pubblico proprio col nome di «Teatro Umoristico».
Mezzo, in entrambi i casi, per grattare via le apparenze e scavare sotto la crosta della banalità, della “normale” quotidianità, gli obiettivi di tale operazione non potrebbero essere più distanti: Pirandello se ne serve per accedere al tragico in un’epoca che sembra negarne i registri e per rendere la cifra di una irreparabile dissoluzione del personaggio e della realtà, che si riflette nello sgretolamento formale delle opere umoristiche, appunto; Eduardo lo utilizza per ispessire la risata, facendone emergere un retrogusto acre. Tuttavia, la risata resta: l’umorismo consiste infatti «nella parte amara della risata, non nell’episodio ridicolo del vivere quotidiano. Esso è determinato dalla delusione dell’uomo che per natura è ottimista»
- afferma in un’intervista Eduardo87. Per dirla con Puppa, egli ne devia il significato
in un’«accezione etico-emotiva»88, il che non meraviglia in un autore per il quale
«tutto ha inizio, sempre, da uno stimolo emotivo: reazione a un’ingiustizia, sdegno per l’ipocrisia mia e altrui, solidarietà e simpatia umana per una persona o un gruppo di persone, ribellione contro leggi superate e anacronistiche con il mondo di oggi,
sgomento di fronte a fatti che, come le guerre, sconvolgono la vita dei popoli»89.
Dunque non si tratta soltanto della marca stilistica della sua comicità, ma di un modo di guardare alla vita e di reagire di fronte alle storture, alle brutture, alle ingiustizie con le quali ci troviamo ogni giorno ad avere a che fare.
Indubbiamente l’incontro col letterato agrigentino lo segnò profondamente, sia sul piano attoriale che su quello drammaturgico, dove l’influenza fu doppia. A livello di struttura formale, Eduardo si allontanò una volta per tutte dalla
87 L’intervista, rilasciata a G. Sarno nel numero di «Roma» del 31 marzo 1940 è citata in F. Di Franco,
Le commedie di Eduardo, op. cit., p. X.
88P. Puppa, Itinerari nella drammaturgia del Novecento, op. cit., p. 793. 89
I capolavori di Eduardo, vol. I, Einaudi, Torino, 1973, p. VII, citati in F. Di Franco, Le commedie di Eduardo, op. cit., p. XII.
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«drammaturgia dell’attrazione»90 - eredità del teatro di Varietà che lo portava a
scrivere atti slegati l’uno dall’altro, passibili di essere recitati separatamente e tenuti insieme unicamente dal tema comune – per approdare alla più letteraria
«drammaturgia dell’azione»91
, nella quale si riscontra una maggiore consequenzialità tra le parti in cui l’opera si struttura. Dal punto di vista tematico, è innegabile che i testi successivi alla collaborazione con Pirandello mostrino un forte appesantimento ideologico, come anche che i protagonisti tendano sempre più al simbolo.
Non dobbiamo però dimenticare che quello di Eduardo è un autonomo percorso di crescita artistica, non un tentativo di avvicinarsi a un modello dato. Grazie a questa fortunata relazione, accadde che l’instancabile ricerca individuale poté felicemente saldarsi con l’insegnamento del maestro plasmando una scrittura nuova e più matura ma - non ci stanchiamo di ripeterlo - diversa da quella di Pirandello.
Innanzitutto manca, in De Filippo, la dimensione metafisica - e forse anche fantastica - entro cui sfociano, senza eccezioni, le dialettiche pirandelliane. Le sue vicende restano saldamente ancorate alla vita: è dalla continua osservazione del flusso della vita che scorre tutto attorno a lui che Eduardo attinge la materia prima
del suo teatro92. Le fondamenta delle sue opere sono costituite da piccoli episodi
quotidiani apparentemente privi d’importanza, dalle vicende e vicissitudini di uomini e donne comuni che si dibattono contro miriadi di difficoltà per sopravvivere al
90 Così la denomina F. Angelini in Eduardo negli anni trenta: abiti vecchi e nuovi, op. cit., p. 32. 91Ibid.
92«Occhi e orecchie mie sono stati asserviti da sempre – e non esagero – a uno spirito di osservazione
instancabile, ossessivo, che mi ha tenuto e mi tiene inchiodato al mio prossimo e che mi porta a lasciarmi affascinare dal modo di essere e di esprimersi dell’umanità. […] Solo perché ho assorbito avidamente, e con pietà, la vita di tanta gente, ho potuto creare un linguaggio che, sebbene elaborato teatralmente, diventa mezzo di espressione dei vari personaggi e non del solo autore» - dichiara il drammaturgo in I capolavori di Eduardo, vol. I, Einaudi, Torino, 1973, p. VII, citati in F. Di Franco, Le commedie di Eduardo, op. cit., p. XII..
Il medesimo consiglio dà ai suoi studenti, invitandoli a «vivere di osservazione, stare a sentire i dialoghi nei negozi, sull’autobus, avere sempre l’orecchio al teatro… E prendere appunti, segnare, segnare» - come si apprende da P. Quarenghi (a cura di), Eduardo De Filippo. Lezioni di teatro all’Università di Roma «La Sapienza», op. cit., p. 37.
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giornaliero scontro tra il soggetto e la comunità, tra l’io e il mondo. È al teatro della
vita che egli guarda, non alla filosofia della vita.
Scrive infatti Anna Barsotti a proposito della diversa natura
dell’incomunicabilità eduardiana rispetto a quella di Pirandello, Beckett e Ionesco: Gli manca l’esasperazione intellettuale, la portata metafisica del problema, rispetto a quegli altri. Ma è una mancanza che si traduce in fattore di originalità: i suoi drammi mettono in scena la vita quotidiana, mostrano le tragedie, anzi le tragi-commedie che si consumano nell’esistenza anonima di uomini normali, determinate dall’incomprensione, dalle frustrazioni, dalla volontà di illudersi, ma che tendono a risolversi nella consapevolezza93.
Proprio in quest’unico sentiero che conduce ad una lucida presa di coscienza della realtà si immette tutta quanta la folta schiera dei protagonisti eduardiani. Talvolta essi riescono ad imporre le proprie ragioni, a far trionfare i propri ideali, a rendere l’umanità racchiusa entro il loro piccolo microcosmo più “umana”. Altre