Benché con toni più tenui rispetto alla festosa accoglienza tributatale dal
pubblico133, la commedia incassò giudizi positivi anche da critici e giornalisti, come
rivelano titoli quali Ancora «promosso» Eduardo De Filippo134, Superati con
successo gli «Esami» di Eduardo135 o Gli splendidi “esami„ di Eduardo De
Filippo136. Concordi nel rilevare la continuità di fondo dell’impegno dell’autore, nell’inscrivere l’opera e il suo protagonista in quello che Anna Barsotti ha felicemente definito il «romanzo della vita» eduardiano e nel rimarcare l’ottima qualità della performance; i recensori attribuiscono però significati diversi e talora anche radicalmente opposti all’ultima fatica del nostro artista.
Il punto nevralgico su cui si dividono i vari schieramenti è il finale dell’opera, vale a dire il silenzio di Guglielmo che, annunciato al termine del secondo atto, si
133Entusiasti furono soprattutto i giovani ai quali vennero dedicate le due anteprime fiorentine. Negli
anni del netto rifiuto di ogni autorità, essi accolsero con entusiasmo l’invito di un Eduardo ormai anziano e seppero ascoltarlo anche quando mostrò loro l’inesorabile sgretolarsi delle illusioni giovanili e il cancro che affligge la nostra società, spegnendo il coraggio e l’intraprendenza dei suoi membri. «I guai di Guglielmo Speranza non li hanno spaventati e la malinconia del suo messaggio è stata accolta con la sicurezza di chi si sente ancora di poterla vendicare» - commenta Massimo Dursi nell’articolo intitolato Ancora «promosso» Eduardo De Filippo, apparso nel numero del 22 dicembre 1973 del «Resto del Carlino».
134M. Dursi, art. cit. 135
S. Gaudio, art. cit.
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protrae per l’intera durata del terzo, e la sua prosaica resurrezione, su cui verte il giudizio complessivo della pièce. Prove tangibili, secondo molti, dell’incupirsi dell’orizzonte di De Filippo e della sua fiducia nei futuri destini dell’umanità; per altri invece essi costituirebbero la plastica resa di quell’indignatio che è sempre stata una cifra inconfondibile del suo teatro, rappresenterebbero un gesto di polemica opposizione a un mondo fatto di conformismo e mistificazione, non una rinunciataria
acquiescenza alla legge della menzogna137.
L’indomani della prima fiorentina, Massimo Dursi, inviato speciale del «Resto del Carlino», elogia Eduardo per quest’ultima prova da lui sostenuta e sottolinea la bellezza dei momenti più drammatici toccati dal testo, primi fra tutti i colloqui nei quali Guglielmo elegge gli spettatori a suoi confessori e parla loro dal profondo del cuore. Il pathos diviene vibrante e tangibile quando il protagonista va cercando solidarietà in una donna a sua volta vittima della società, Bonaria, o allorché invoca la pietà del pubblico in sala. Essa giunge, certo, avvolta da un denso afflato umano; nondimeno - afferma il giornalista - «I tristi esami che perseguitano Guglielmo comportano anche per le vittime una ovvia condanna alla cattiva volontà
che impedisce di intendersi e compatirsi»138. Il rifiuto della comunicazione – sembra
137In anni più tardi rispetto a quelli che videro le reazioni “a caldo” di critici e giornalisti che passerò
brevemente in rassegna in questo paragrafo, anche due studiose del calibro di Anna Barsotti e Fiorenza Di Franco si espressero in tal senso.
Quest’ultima, nel volume del 1984 intitolato Le commedie di Eduardo, rifiuta la vulgata di una presunta misantropia senile eduardiana e, a proposito della sua ultima maschera, afferma: «Il suo [il mutismo di Guglielmo] è un atto di protesta [...] È il suo «male», o forse è più giusto dire il suo «bene», l’«ipersensibilismo» che lo spinge all’alienazione volontaria. Ora sarà lui a giudicare gli altri al di fuori e al di sopra della mischia». E riferendosi alla laica resurrezione del protagonista, rincara:«Anche in questa circostanza è palese come le sovrastrutture, i valori retorici abbiano preso il posto di quelli autentici. Contro questo si eleva l’indignazione di Eduardo, e non contro gli uomini come alcuni critici hanno detto, sottolineando che nella commedia risaltava la misantropia dell’autore». [F. Di Franco, Le commedie di Eduardo, op. cit., p. 261].
Il termine indignazione compare già in un testo del 1982, l’ Introduzione a Eduardo della Barsotti, ove è volto a descrivere il tono generale della commedia: «D’altra parte, anche in quest’opera Eduardo riesce a comunicare al pubblico quel motivo dell’indignatio che ha salvato altri suoi testi da ipotesi di disperazione o, peggio, di rassegnazione. Quei lampi di ‘nera’ comicità che segnalano le reazioni incongrue del ‘contesto’ fanno scattare sì la risata, ma continuano a provocare nello spettatore un effetto di complice senso di colpa; e neppure stavolta il ‘silenzio’ dell’attore-personaggio rinuncia ad essere tecnica e viatico di spettacolo». [A. Barsotti, Introduzione a Eduardo, op. cit., pp. 162-3].
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suggerire Dursi – non può essere la risposta al problema e tutto sommato, se si eccettuano le acuminate punte di sdegno, non resta che la mesta malinconia di Speranza: «Sotto lo schermo di insofferenza e di ira ci si strugge di nostalgia per un
bene perduto. Si covano le proprie ferite rintanandosi, in solitudine»139.
Dalle colonne del «Mattino», Silvana Gaudio parla degli Esami in termini di un’«analisi lucida e distaccata [...] della condizione umana» - resa però a tratti accorata dalla partecipazione emotiva dell’autore-attore - che conduce ad una «forma
di accettazione suggerita da una profonda intelligenza»140. Una scuola di
sopportazione dunque; una triste epopea votata al fallimento e peggio ancora alla sottomissione, quella di Guglielmo, il cui «funerale [...] se non ci può insegnare niente, ci può aiutare a condividere, almeno in parte, l’accettazione fiera e rassegnata
di Eduardo»141. La giornalista trasforma insomma la cruda commedia in un pacato
viatico verso quell’autarkeia che meglio si confà ai cinici o agli stoici piuttosto che a un uomo dal temperamento acceso e battagliero del pari di Eduardo. Tutt’al più, secondo la Gaudio, la scena finale potrebbe insegnarci a «renderlo [il funerale] più
serio, con dignità, rifuggendo dagli schemi che sviliscono chi resta e chi se ne va»142.
Nella migliore delle ipotesi, il testo costituirebbe quindi una doverosa lezione di buon gusto.
Un’interpretazione ancor più fuorviante mi pare quella di Ruggero Jacobbi, il quale, dopo aver dipinto il protagonista come un Don Chisciotte disilluso, privato della sua caratteristica fantasiosa ingenuità, ne fa addirittura un diabolico «eroe della
rassegnazione», un «campione della non-resistenza al male»143. Eh già, perché
«l’essere dalla parte della ragione non serve a niente. L’aspettare che il tempo
riconosca la verità significa soltanto votare per il male, per la negazione pura»144, la
139Ibid. 140
S. Gaudio, art. cit.
141Ibid. 142Ibid.
143R. Jacobbi, Guglielmo Speranza un eroe della rassegnazione, in «Sipario», n. 333, febbraio 1974,
p. 7.
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quale secondo Jacobbi trionfa indisturbata nella commedia. E per di più trionfa con la complicità del protagonista stesso, il cui silenzio diviene una sorta di collusione
con l’universo malato che lo circonda145
. Non solo: se Guglielmo è il campione della rassegnazione, non manca neppure una paladina tutta al femminile: Bonaria, «eroina della rassegnazione. Perché se Guglielmo Speranza si porta dietro il piccolo fascismo della sua giovinezza, Bonaria si trascina appresso l’atroce e definitivo fascismo della
prostituzione di sua madre e della miseria dei vicoli»146. Riassumendo, «Tutta la
commedia è un vicolo cieco»147, come subito dopo sentenzia senza diritto d’appello
il critico.
A lasciare interdetti è soprattutto l’interpretazione disfattista di Jacobbi, che sembra suggerire il definitivo approdo eduardiano ad un pessimismo assoluto e senza via d’uscita. Una simile chiave di lettura dimostra l’importanza pressoché nulla conferita al finale dell’opera che, grazie alla prepotente irruzione del fantastastico, ribalta l’esito dello scontro tra Guglielmo e la società che intendeva metterlo a tacere. Non in un sonno eterno piomba la creatura del nostro artista: al contrario, quando meno ce lo aspetteremmo egli si desta per ridere dei propri aguzzini, che può
finalmente contemplare in tutto il loro squallore148. Trascurare questa scena, tanto più
145Ritengo che l’opinione del critico trovi ben pochi appigli – per non dire nessuno – con la posizione
che occupano senza eccezione i protagonisti delle commedie di De Filippo, sempre osteggiati ed emarginati prima ancora che da vicini e amici, dai loro stessi familiari. Vera e propria pecora nera avulsa ed estranea al tessuto sociale è soprattutto il pater familias, maschera prediletta e ricorrente nei testi di Eduardo, a proposito della quale Antonella Ottai parla di una «costitutiva inappartenenza» al microcosmo che le si agita attorno. Si legga a tal proposito l’intervento della studiosa intitolato Padri deboli e padri nobili nel teatro di Eduardo raccolto all’interno del volume Sabato domenica e lunedì. Eduardo De Filippo, teatro vita copione e palcoscenico, op. cit., p. 201.
146R. Jacobbi, art. cit. 147Ibid.
148Pur riconoscendo la centralità dell’esplosiva conclusione della commedia, nella sua recensione
Angelo Maria Ripellino legge la scena del funerale come l’indiscusso trionfo di conformismo e falsità. Agghindando Guglielmo come un bizzarro, risibile manichino, i familiari dimostrano - secondo il critico - di esser riusciti nella loro impresa: hanno di fatto annientato quell’«emaciato Pierrot» i cui comportamenti avevano sempre biasimato come sbandamenti, lo hanno reso davvero nient’altro che una pietosa maschera: «Ma il culmine del Gran Grottesco è nel finale, quando Guglielmo, in nero smoking dai risvolti di raso, i capelli gommati e i pomelli vermigli, con un mazzetto di fiori ravvolto nell’argento delle Pompe Funebri, rivive le proprie esequie, ridendo del sempre presente compare che, in alto cilindro e col viso più bianco di cenere, pronunzia un mellifluo necrologio. Così truccato dai vivi contro la sua volontà, il morto Guglielmo diventa anche lui, come coloro che lo tormentarono, un
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importante in quanto posta a suggello non solo della commedia ma dell’intera produzione drammaturgica di De Filippo, significa a nostro parere travisare in toto il messaggio lanciato al contempo dal testo e dalla stessa esperienza di vita del suo autore.
Lasciando da parte il luciferino e smorzando notevolmente gli accenti, anche Antonio Ghirelli è concorde nel vedere – come aveva già fatto la Gaudio – nel gesto finale del protagonista un esempio della mitezza con cui De Filippo osserva e riproduce la realtà, cogliendone i lati più meschini ma provandone in fondo compassione e pena, ergendosi talvolta a giudice ma mai a carceriere.
E allora
[...] le ferite che la vita procura al suo Protagonista, gli intrighi i pettegolezzi i soprusi i tradimenti a cui Guglielmo Speranza è esposto dal principio alla fine della sua squallida esistenza, sono accettati nell’unico modo che a Eduardo sembra possibile: non con furore e nemmeno con sdegno ma con malinconica rassegnazione, uno stupore doloroso che finisce per sfociare, come un fiume sotterraneo, nel silenzio dell’ultimo atto, rifiuto netto e definitivo di ogni comunicazione con chi calpesta ogni virtù: amore, lealtà, amicizia, rispetto, per perdersi dietro smanie ignobili e una sfrenata cupidigia o, peggio, si lascia dominare dalla più piatta mediocrità149.
Ferma restando la «malinconica rassegnazione» del protagonista, se non altro è svanita dal suo volto l’ombra infamante di una qualche complicità - per quanto soltanto passiva - con la terribile «commissione di controllo», nel determinare la deriva di ogni affetto e valore.
Sul versante opposto, il 22 dicembre 1973 Luigi Compagnone è il primo a leggere la commedia in termini di «vendetta». Immettendola nell’alveo dell’inestinguibile fiume creativo eduardiano, egli vi rintraccia quella stessa rivincita che l’autore - nei panni dei suoi numerosi protagonisti - si prende immancabilmente
simulacro farsesco, un fantoccio di carnevale» - scrive Ripellino in Cancan prima del lutto, compreso entro la silloge intitolata Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti («L’Espresso» 1969-77), edita a Roma da Bulzoni nel 1989, p. 279.
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nei confronti dell’universo che pur si presta a rappresentare. Essa costituirebbe, secondo il giornalista, lo sbocco cui conduce la dialettica tra critica integerrima e senso di appartenenza, suo malgrado, a una realtà che si fa risalire alla plurisecolare storia di Napoli.
Ma per fare quel viso, quella maschera scavata e incisa da segni che ricordano le incrinature di certe antiche terrecotte, ci sono voluti alcuni secoli di storia napoletana, dalla quale è poi nata una storia nella storia, quella di un ceto che non è popolo né borghesia ma un girone a se stante, dove vivono i paria quasi perbene, i «signori» non per censo ma per illusione, non per sangue ma per un comico e tragico equivoco alimentato da un frenetico culto della dignità: per cui essi tutto vogliono sembrare, non potendo essere nulla. [...]
Grottesca, innocente ipocrisia. Lui, Eduardo, tutto questo apparentemente lo esalta, se ne finge il cantore, in sostanza lo critica; ma lo critica con le intenzioni, con il suo disperato cervello pensante, mentre con il cuore pittorescamente vi è dentro, vi è dentro con il suo sangue di vinto, di sconfitto dalla storia stessa della sua gente, del suo ceto, delle sue ineliminabili radici. Allora, quando se ne rende conto, quando si avvede di questo suo sdoppiamento, ci offre una faccia che non rientra nel consueto catalogo delle maschere e che celebra un’aspra e allucinante vendetta: è l’attimo in cui amaramente innalza un monumento all’Abbiezione150.
Negli Esami la «vendetta», questo colossale e severo «monumento all’Abbiezione» si erge in tutta la sua mole proprio nella scena conclusiva. Il funerale di Guglielmo è anche l’occasione in cui il defunto può finalmente prendersi una gustosa rivincita su parenti, “amici”, conoscenti e sconosciuti accorsi alla cerimonia. Esso infatti, col beffardo risveglio del protagonista, è ricondotto da Compagnone all’illustre tradizione della Commedia dell’Arte; ciò che rende la morte di Speranza «una rivincita, la ripetizione ironica del testamento di Pulcinella, così come lo
tramanda l’oleografia»151
.
Sebbene concorde con Jacobbi nel dipingere il protagonista come «un Don
Chisciotte rassegnato alla sconfitta della immaginazione e del movimento»152, anche
per Aggeo Savioli nel finale dell’opera si registra una sorta di rivalsa. Doppia, a parer suo: nei confronti sia del microcosmo malato che Eduardo rappresenta, sia del suo stesso protagonista che non è stato capace di opporvisi:
150L. Compagnone, Prestigiosa «anima in pena», in «Corriere della Sera», 22 dicembre 1973. 151
Ibid.
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Morto Guglielmo Speranza nello stupendo finale, è come se l’interprete in prima persona gli si sostituisse, quasi un suo «doppio» invincibile, imperituro, testimone lucido dell’ennesima, rituale celebrazione di menzogna, d’ipocrisia, di malafede, che sono quei funerali. Dileguato il nome allusivo, la speranza vera resiste. È nell’opera, come scrisse un poeta153
.
Anche Vanda Monaco, concentrandosi sulla solitudine del protagonista caratteristica delle commedie eduardiane, riflette su come l’eventuale sconfitta dell’«eroe bastonato» - per usare l’azzeccata espressione di Benjamin - non determini di conseguenza il crollo dei valori che egli incarna, i quali al contrario hanno sempre la meglio.
Riferendosi a Gli esami non finiscono mai, scrive la giornalista:
Questo rinchiudersi nella poltrona è il segno caratterizzante dell’eroe sconfitto ma, al tempo stesso, la rappresentazione della sconfitta di questo eroe sta anche ad indicare come alla sua sconfitta non corrisponda contestualmente quella della visione morale descritta da Eduardo nella premessa alla commedia154 .
Le conclusioni cui la conduce la sua ampia rassegna del teatro di De Filippo calzano alla perfezione, se rapportate alla nostra commedia :
L’«eroe» sconfitto di Eduardo è colui che riesce a rompere il muro della retorica inteso come apparato di controllo dei gruppi dominanti, e che allora incomincia il suo cammino solitario alla ricerca dei «sentimenti basilari»155.
Lasciando da parte vittorie, sconfitte e vendette, alcuni critici si concentrano su un tema nodale della pièce: la capacità di comunicare un messaggio, una verità sulla nostra esistenza e sulla società in cui si spendono le nostre vite, a discapito del silenzio entro cui si barrica Guglielmo. Seguendo questa traccia, Roberto De Monticelli evidenzia quanto distanti ci troviamo dal mutismo di certi personaggi
beckettiani, dal «silenzio della pantomima dopo la diatriba monologante»156 tipica
del teatro absurdista. Perché quello di Eduardo è - paradossalmente - un silenzio che
153Ibid.
154V. Monaco, L’eroe solo, in «Rinascita», 30 gennaio 1976. 155
Ibid.
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afferma, che mette in risalto la difficoltà di comunicare col prossimo, che porta bruscamente alla luce ogni possibile mistificazione.
Questo è Eduardo oggi, a settantaquattro anni, [...] un uomo che, rinunciando a fare l’artefice magico [...] dice duramente la sua sulla vita, sui tabù di questa società e persino sulla speranza del dopo; e spiega i suoi intermittenti silenzi di prima, sciogliendoli e unificandoli nell’allibito silenzio di quest’ultimo terzo atto. [...] Ormai s’è capito: il suo silenzio è crepitante e vivo come un monologo157.
Dello stesso avviso di Savioli - che cioè la fiducia riposta nell’avvenire non perisca mai nei testi dell’artista, neppure quando sia rappresentata la morte della Speranza con la s maiuscola - è Davide Lajolo. Soffermandosi anch’egli sui diversi significati del silenzio nelle opere di Samuel Beckett e del nostro autore partenopeo, il giornalista afferma che uno iato incolmabile separa la nichilistica afasia del drammaturgo irlandese dalla funzione di denuncia cui assurge il rifiuto della parola in De Filippo; iato che consiste, molto semplicemente, nella sua «fiducia nel fiato della vita»158. Spiega infatti il critico:
[...] Eduardo, proprio perché è intriso nel colera della sua Napoli e sa che il morbo è colpa dell’ingiusta società dei furbastri, non s’arrende e rifiuta anche il falso esame della morte, come nell’ultima commedia e come nei versi delle sue ultime liriche cariche di rivolta. Cioè Eduardo si ostina nel respingere miti e tabù, dalla famiglia alla religione, perché tutti hanno tradito l’uomo ma lui non può tradirlo. E allora ecco l’autocritica di tutta la sua vita, divisa in tre tempi, i tempi delle tre barbe che invece che al mento porta all’occhiello per tutta la commedia159.
Ugo Buzzolan non dà un’interpretazione tanto ottimistica dell’epilogo dell’opera, non scorge nell’irridente resurrezione di Speranza un «rifiuto del falso esame della morte», ma ribadisce con forza la riuscita della comunicazione diretta tra autore e pubblico. Non dobbiamo dimenticare infatti che tale dialogo è dichiaratamente ricercato fin dalle primissime battute del prologo, e d’altra parte le libertà che l’interprete si prende vestendo i panni del protagonista confermano la
157Ibid. 158
D. Lajolo, Eduardo in silenzio, in «Il Giorno», 14 marzo 1974.
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ricerca di un coinvolgimento diretto degli spettatori. Quando ad esempio, sempre nel prologo, annuncia che diversamente da quanto prevede il testo scritto non indosserà le tre barbe, ma si limiterà ad appenderle alla giacca che indossa, De Filippo – lo comprende bene Buzzolan – invita il pubblico «a collaborare, a entrare nello spettacolo, a completare, con la fantasia e un’attiva partecipazione al potere illusorio del teatro, quello che Eduardo non poteva dare attraverso un impossibile
camuffamento»160. E riesce perfettamente nel suo intento, perché davvero esso si
sente la spalla del protagonista, tanto è partecipe delle vicende in cui la vita lo intrappola. La dolorosa dipartita di Guglielmo, il suo sofferto commiato dal mondo non cancellano tutto questo, non possono farlo: la vicinanza del pubblico reale, in carne ed ossa, ha la meglio sul distacco nei confronti dei personaggi in scena; la comunicazione viva e vera con gli spettatori relega in secondo piano il silenzio del protagonista.
160U. Buzzolan, art. cit.
Si potrebbe obiettare – non senza ragione – che tutto ciò rientra in una plurisecolare convenzione teatrale, in quel tacito accordo fra attore e pubblico che prevede da parte del secondo la sospensione della propria incredulità. Sospensione che risulta imprescindibile affinché gli spettatori possano addentrarsi all’interno della finzione che gli interpreti si apprestano a plasmare: per cui bastano pochi trucchi perché un uomo possa esser creduto aitante ragazza e un vecchio giovane imberbe. A costoro tuttavia replicheremo che non sempre il nostro artista poté presentare sul palco lo stesso volto che mostrava fuori dal Teatro, e che anzi, la rinuncia al camuffamento delle proprie fattezze per sentirsi più vicino al personaggio cui doveva dar vita fu una conquista nient’affatto scontata, conseguita solo