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La classificazione della disabilità: dall’etichettamento diagnostico alla comprensione del

I. Capitolo

1. La classificazione della disabilità: dall’etichettamento diagnostico alla comprensione del

Nel tempo si sono susseguiti ed hanno convissuto differenti modelli tramite i quali si è cercato di “interpretare” e “classificare” la disabilità al fine di porre in essere politiche aderenti alle necessità presentate da questo gruppo così poco omogeneo. Risulta interessante inoltre riflettere sull’ impatto di tali modelli in rapporto all’ inserimento professionale delle persone in condizione di disabilità. Nagi è stato il primo a tentare di effettuare una classificazione della disabilità. Il modello si i fonda sulle ricerche nel campo della riabilitazione e nasce con l’intento di essere un riferimento per pianificare gli interventi utili a distribuire due tipologie di aiuti economici previsti dalla normativa americana. I concetti salienti di questa proposta sono:

• la presenza di una patologia attiva: è un danno, o uno sconvolgimento, all’integrità della struttura corporea (come ad esempio un trauma, un’infezione, o un processo degenerativo);

• la menomazione: è una perdita o anormalità a livello organico o del sistema corporeo, inclusi i sintomi clinici. Di solito la patologia produce qualche tipo di menomazione, ma non è detto che la menomazione sia sempre associata a una patologia attiva;

• limitazioni funzionali: sono gli attributi individuali e le restrizioni nelle performance, sia a livello psicofisico (come ad esempio camminare o parlare), che in rapporto alle attività quotidiane e ai ruoli sociali che la persona è chiamata a svolgere (Snyder A.R.” et al”, 2008);

• disabilità: è il frutto dell’interazione che si sviluppa tra una persona (con le sue condizioni di salute) e il suo ambiente (Nagi, 1965: 101). Il modello di Nagi pone l’ accento sull’ importanza dell’ ambiente , considerando i fattori familiari e sociali che influenzano la disabilità. Le conseguenze per l’individuo, quindi, possono essere descritte sia a livello personale che sociale (Snyder A.R. et al., 2008). Tale prospettiva prende in considerazione anche il ruolo sociale laddove le capacità dell’individuo devono essere sempre viste in rapporto ai ruoli sociali che è chiamato a svolgere; l’inabilità, di conseguenza, può essere stimata solo in base al loro mancato compimento (Nagi, 1964). Riassumendo, quindi, possiamo definire la disabilità come un gap tra le capacità degli individui e le esigenze dell’ambiente fisico e sociale in rapporto al ruolo che essi sono chiamati a svolgere La questione cruciale per definire la disabilità, secondo Nagi è: inabile a fare cosa?

In Inghilterra negli anni Sessanta, Harris realizza uno studio a partire dalla constatazione della presenza di un gruppo consistente, e crescente, di persone che vivono in condizione di povertà a causa del loro scarso grado di autonomia e di capacità lavorativa. L’obiettivo dell’autrice è quello di approfondire, appunto, la correlazione esistente tra povertà e ridotta autonomia e identificare strumenti utili per la prevenzione e per l’intervento. Nella sua proposta distingue due concetti: • impairment: la mancanza di un arto (parziale o totale) oppure una disfunzione;

• handicap: riduzione delle abilità della persona in attività quotidiane come, ad esempio, la cura di sé, l’alimentazione, il vestirsi e il lavarsi. (Harris, 1971).

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Queste due categorie riflettono il rapporto esistente tra le patologie e le conseguenze che queste hanno sul funzionamento degli individui. Secondo tale prospettiva sono menomati coloro che hanno una menomazione, mentre l’handicap sopraggiunge se si riscontrano incidenze nelle capacità di compiere le azioni quotidiane. Anche in questo caso, il concetto di abilità è considerato in rapporto alle attività specifiche. Questo studio ha ricevuto numerose critiche, ma è interessante in quanto mostra la volontà di provare a quantificare la presenza di queste persone all’interno di una determinata popolazione e allo stesso tempo pone in essere la necessità di stabilire una classificazione condivisa da utilizzare sia per le indagini sia, a maggior ragione, per l’attribuzione dei benefici. L’aspetto più rilevante di questo studio, però, è l’evidenza del rapporto tra mancato accesso al mercato del lavoro e povertà. L’occupazione, quindi, è un’occasione fondamentale per provare a garantirsi una vita dignitosa. Il lavoro di Harris è la base per una successiva revisione operata da Philip Wood e Elizabeth Badley che da un lato intendono far luce sulla terminologia utilizzata dall’autrice, evidenziando in particolare la sua tendenza a considerare come se fossero sinonimi i due termini “impairment” e “handicap”, dall’altro provano a descrivere la dinamica che si crea tra patologia e limitazioni funzionali occupandosi, nello specifico, del campo lavorativo (Badley, Thompson, Wood; 1978). Wood, unendo le riflessioni sul lavoro di Harris a quelle derivate dai suoi studi sull’artrite reumatoide, realizza la prima classificazione ufficiale della disabilità (ICIDH) che è entrata in vigore nel 1980 ed è stata tradotta in tredici lingue. In questa cornice del modello sono stati distinti tre aspetti:

• menomazione: perdita o anomalia, transitoria o permanente, a carico di organi, arti o altre strutture del corpo. Rappresenta l’espressione concreta e tangibile di uno stato patologico che riflette dei disturbi a livello dell’organismo (Soresi, 1998);

• disabilità: restrizione o perdita (che avviene in conseguenza a una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo ritenuto “normale” dall’essere umano (WHO, 1980: 143). Si riferisce, quindi, a capacità funzionali che si manifestano in comportamenti essenziali nella vita quotidiana (comunicazione, cura della persona, funzione locomotoria);

• handicap: condizione di svantaggio vissuta da un soggetto in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita (o impedisce) lo svolgimento di un ruolo “normalmente” proprio a quella determinata persona in relazione alla sua età, al sesso e ai fattori socio-culturali di riferimento (WHO, 1980-1993: 183). Con l’ ICIDH), adottata nel 1980 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, viene esplicitato uno dei primi approcci nei confronti della disabilità, secondo il quale la stessa è intesa come conseguenza di una malattia, di una lesione o di altre condizioni di salute e, quindi, come un problema medico che richiedeva cure e forme di trattamento o riabilitazione. Una lettura di tipo sociale, ascrivibile al filone teorico dei Disability Studies, richiama invece una responsabilità della società all’origine della disabilità, considerandola non soltanto come una

condizione biologica, o come un sinonimo di deficit, ma anche come una forma di

oppressione sociale.

Nel 2006 Verbrugge e Jette intendono definire l’impatto delle condizioni croniche sugli individui e sulle loro capacità di agire nei modi attesi dalla società (Jette, 2006: 729). Per fare questo si concentrano sul ruolo dell’ambiente e identificano dei fattori di rischio che possono incidere su due aspetti, secondo loro, determinanti, ossia la qualità della vita declinata in termini di felicità, soddisfazione e indicatori di benessere; le condizioni secondarie o disfunzioni ovvero la possibilità che possano insorgere delle nuove patologie. Gli autori descrivono la presenza di elementi sia intra

che extra individuali che possono influenzare (in modo singolo o congiunto) la qualità della vita e l’eventuale insorgenza di nuove patologie. La riflessione condotta da Verbrugge e Jette permette di individuare la distinzione tra disabilità intrinseca e reale: la prima è la difficoltà nel compiere una attività senza assistenza, mentre la seconda è la disabilità che permane, nonostante l’assistenza e gli ausili. Questo aspetto denota un passo in avanti rispetto ai modelli precedenti che non avevano previsto la possibilità di utilizzare i supporti. Il modello di questi autori riconosce inoltre l’importanza delle richieste poste dall’ambiente in quanto la disabilità può verificarsi, per una certa attività, quando vi è un gap tra le capacità personali e le richieste che vengono poste dall’ambiente (Masala, Petretto, 2008). Quest’ultima considerazione non rappresenta di per sé una novità, ma i due autori descrivono anche i modi per provare ad alleviare la disabilità, ossia:

• aumentare la capacità del soggetto: è il focus degli interventi riabilitativi e consiste in un percorso sia a livello personale che sociale che, in modo graduale, conduca il soggetto ad accettare alcune limitazioni e a ricalibrare gli obiettivi e le richieste che pone a se stesso;

• ridurre le richieste: lavorare sull’ambiente attraverso modifiche nello spazio fisico, cambiamenti nella durata, nelle modalità, nel target delle attività affidate all’individuo e nelle aspettative dei colleghi (Vertbrugge, Jette, 1994). Il contributo di Verbrugge e Jette rende possibile affermare che la menomazione non porta automaticamente con sé delle limitazioni (Snyder et al., 2008). Questo dato trova evidente riscontro nella realtà, quando ci rendiamo conto che due individui con patologie simili hanno tuttavia potenziali di rendimento molto diversi tra loro. Gli autori inoltre invitano a tenere in considerazione la disabilità come risultato delle interazioni tra un individuo e il suo ambiente e la possibilità di progettare interventi sia sull’individuo che sull’ambiente fisico. Si fa inoltre riferimento al ruolo delle aspettative, specialmente di coloro che sono significativi nelle vite delle persone con le condizioni disabilitanti (es. membri della famiglia, amici, colleghi, dipendenti, collaboratori, organizzazioni e professionisti). La presenza di un legame dinamico tra menomazione e disabilità consente di superare l’idea che esista un destino già definito per le persone disabili, e apre un possibile spiraglio di intervento sia sull’individuo che sull’ambiente per favorire il loro inserimento.

Brandt e Pope, partendo dalla rivisitazione dei modelli precedenti, si interrogano sulla possibilità di attivare un “processo di abilitazione” (enabling) che intende ridurre la disabilità intesa come una limitazione nello svolgere alcuni ruoli e compiti attesi dalla società. Tale abilitazione può essere compiuta sia a partire da altre funzioni che possono ristabilire l’individuo (obiettivo già della riabilitazione), sia aumentando l’accessibilità dell’ambiente. Questi due elementi sono già presenti nei modelli precedenti, ma gli autori fanno un passo oltre, arrivando a chiedersi come essi possono essere coinvolti anche nel processo di abilitazione dell’individuo (enablement). In altre parole, per Brandt e Pope la sfida è utilizzare gli stessi fattori per verificare non solo come intervengono in negativo, condizionando l’individuo, ma anche in positivo, per abilitarlo. Per fare questo, Brandt e Pope identificano tre dimensioni:

• la persona: patologia, menomazione e limitazione funzionale sono collegate da frecce bidirezionali, e questo indica la possibilità di influenze reciproche. Su di esse si inseriscono, poi, sei fattori: ambientali, sociali, fisici e psicologici, uniti a stile di vita e comportamento. Questi possono essere sia disabilitanti (quando aumentano la probabilità di limitazioni), che abilitanti (nella misura in cui aumenta la probabilità di non attivare tali probabilità);

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• l’ ambiente: distingue lo spazio fisico, sociale e psicologico. Il primo comprende le costruzioni, i trasporti, la tecnologia e la posizione geografica, mentre il secondo riguarda la sfera dei servizi e delle cure, dell’organizzazione della comunità, la famiglia, i fattori di personalità, gli atteggiamenti e gli stati emotivi. L’ambiente è paragonato a una specie di stuoia, o di tappeto, la cui resistenza è considerata proporzionale alla quantità e qualità dei sistemi di supporto, così come delle barriere. Ogni fattore è uno strato della stuoia: la carenza determina un indebolimento del supporto e comporta problemi nell’incontro tra l’individuo e l’ambiente (Brandt e Pope, 1997:71-75);

• l’interazione tra la persona e l’ambiente: è l’elemento decisivo, in quanto evidenzia come ci siano collegamenti multipli nella dimensione della persona, e, ugualmente, tra la persona e l’ambiente, che a sua volta può agire sia in modo positivo che negativo. La disabilità, quindi, diventa una funzione dell’interazione, appunto, tra la persona e l’ambiente. L’elemento di novità, introdotto dai due autori, è dunque il rapporto bidirezionale tra i vari stati del processo di abilitazione-disabilità e questo, a sua volta, indica che il processo di disabilità può essere modificato attraverso l’introduzione di opportuni interventi (Brandt e Pope: 1997: 6).

Il modello più recente è quello presentato nel 2001, durante l’assemblea dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale modello, che ha assunto il nome di Classification of Functioning Disability and Health (ICF), rappresenta lo strumento di classificazione internazionale oggi in uso e riflette i cambiamenti di prospettiva nella disabilità che si sono succeduti nel tempo (WHO, 2001). L’ICF ruota attorno al principio dell’ universalismo considerando la disabilità non in termini di un problema di una minoranza all’interno della comunità, ma una condizione che può riguardare tutte le persone. Non sono le persone a essere classificate, ma gli stati di salute ad esse correlati (OMS, 2004). Il modello dell’ ICF prevede un approccio integrato: integra l’aspetto medico e quello sociale della disabilità in un nuovo approccio - definito bio-psico-sociale- che restituisce una visione ampia dei possibili processi di disablement. Si tratta dunque di un modello interattivo e multidimensionale del funzionamento e della disabilità: la disabilità è il risultato delle interazioni reciproche tra menomazioni a livello di strutture e funzioni del corpo, le limitazioni dell’attività, le restrizioni nella partecipazione e i fattori contestuali. È definitivamente superata la linearità tra i diversi elementi in favore della loro interdipendenza; ciò contribuisce ad accantonare la visione di un percorso già prestabilito per tutte le persone disabili. (Leonardi, 2005: 85-87).

La prima parte dell’ICF considera le condizioni di salute legate alla persona, mentre la seconda indica i fattori contestuali, definiti come il background della vita dell’individuo, a loro volta suddivisi in:

• personali: caratteristiche fisiche e materiali dell’ambiente in cui l’individuo si trova e in cui ha un contatto diretto con altre persone;

• ambientali: strutture sociali formali e informali, i servizi e le principali interazioni nella comunità o nella società che hanno un impatto sugli individui. Questi elementi esterni rappresentano tutto ciò che circonda la persona e può influenzare il suo funzionamento e le sue capacità. Tali influenze possono essere positive o negative, quindi questi fattori possono agire come facilitatori oppure come barriere (WHO, 2001:10-17). Il contesto risulta essere determinante perché la condizione della persona viene analizzata sempre all’interno di un ambiente che può facilitare o meno l’insorgere della disabilità. Le applicazioni dell’ICF, sostengono i suoi fautori, sono molteplici e possono essere distinte a seconda del livello di intervento che si vuole considerare, ossia:

• valutare il livello del funzionamento di una persona, e di conseguenza pianificare un trattamento o verificarne i risultati;

• definire un linguaggio comune, che può agevolare la comunicazione tra i diversi professionisti coinvolti e uniformare i criteri di idoneità;

• offrire una cornice di riferimento per la ricerca sulla disabilità e consentire di ottenere risultati comparabili;

• favorire la progettazione e identificare elementi di facilitazione e barriere ambientali, partendo dal presupposto che ogni individuo può subire un peggioramento nelle sue condizioni di salute che gli può causare una certa inabilità (Leonardi, 2005: 89). Anche questo modello, molto diffuso, non è però stato esente da critiche. L ’ICF è ancora fondato su una base essenzialmente biologica che evidenzia l’incapacità dell’individuo e rischia di promuovere percezioni fobiche verso le persone con disabilità (Barile, 2003: 220-223). Viene inoltre riscontrata una certa confusione lessicale soprattutto in relazione ai significati attribuiti ai diversi termini: il ruolo dell’ambiente, per esempio, è riconosciuto, ma non in modo sufficientemente chiaro. Inoltre, sembra emergere l’idea che le attività umane sono frutto delle caratteristiche personali, mentre la qualità della manifestazione delle abitudini di vita è una misura del coinvolgimento delle persone e della società (Fougeyrollas e Beauregard, 2001;179-181). In merito ai presupposti del modello, il punto di partenza rimane l’individuo, con le sue condizioni biologiche e, di conseguenza, anche la partecipazione è vista in un’ottica individualistica (Medeghini e Fornasa, 2011: 118-119). L’ICF, con i pregi e i difetti appena descritti, rimane comunque a oggi il punto di riferimento per classificare le persone disabili e le loro capacità. Legato alla Classificazione ICF, e alla definizione di disabilità con essa

sviluppata, è il cosiddetto Capability approach (approccio delle capacità), modello sviluppato da A. M. Sen (1999). Secondo lo studioso, le capacità (capabilities) non costituiscono la presenza di una specifica abilità fisica o mentale, ma un’opportunità, in quanto la realizzazione dell’individuo, attraverso l’essere o il fare, il voler essere o il voler fare, ha uno specifico valore. La disabilità,in questo senso, rappresenta una delle svariate forme di differenziazione che contraddistinguono gli esseri umani. I diversi documenti e gli studi analizzati evidenziano come l’interazione tra la legislazione e l ’ambiente sociale (la società) contribuisce alla definizione e all’adozione di nuovi percorsi. Non si può, infatti, prescindere dall’uno o dall’altro essendo entrambi i pilastri della struttura di progettazione della società in cui coesistono le esigenze di tutti: solo quando si progetta tenendo conto delle molteplici esigenze si va nella direzione del superamento delle differenze; è proprio nella direzione del superamento delle differenze che si sono mosse le organizzazioni internazionali tracciando quei percorsi ‘senza barriere’ in parte attuati, in parte in corso di attuazione, ed in parte in fase di progettazione. Ne deriva che la gestione della disabilità richiede azioni sociali ed è responsabilità collettiva della società nel suo complesso implementare le modifiche ambientali necessarie per la piena partecipazione delle persone con disabilità in tutte le aree della vita sociale. La questione riguarda gli le rappresentazioni , gli atteggiamenti e le ideologie e richiede cambiamenti sociali, cosa che a livello politico diventa un problema di diritti umani.

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