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I. Capitolo

5. Le qualità personali dei lavoratori disabili

Dopo la normativa, le caratteristiche dell’organizzazione e la cultura organizzativa, l’ elemento che prenderemo in considerazione ora sono le qualità personali:

• della persona disabile; • degli osservatori.

Il riferimento alle qualità personali della persona disabile è influenzato dalla presenza di due elementi: i vissuti che condizionano i suoi atteggiamenti e la patologia e le sue conseguenze nell’ambiente lavorativo. La persona disabile, spesso, vive un’esperienza caratterizzata da momenti dolorosi che attribuisce alla cattiva volontà altrui, alle pretese eccessive e alla discriminazione dovuta alla presenza della disabilità. Questi vissuti, ovviamente, possono causare rabbia e senso di ingiustizia che la rende meno attenta ai bisogni dei colleghi. Ovviamente, non si tratta di un discorso valido in tutte le situazioni ma, quelli descritti, sembrano essere i tratti psicologici più comuni e frequenti (Mazzonis et al, 2005: 21-23). L’esperienza lavorativa si configura come un momento critico, perché:

• alla condizione di disoccupazione si accompagna l’idea di subire un atteggiamento ingiusto, discriminante, da parte di una società iniqua, che può suscitare dei comportamenti rivendicativi; • rappresenta la possibilità di uscire di casa e di affermarsi, nonostante le limitazioni imposte dalla disabilità (Mazzonis et al, 2005: 70);

• è un’esperienza accompagnata da un lato da sfiducia e diffidenza e, dall’altro, dalla speranza di trovare un posto “magico”, in cui il lavoratore sia in grado di fare tutto quel che gli viene richiesto. Tutte queste attese sono guidate spesso da una percezione di sé povera e poco coesa che non consente di rappresentarsi con un certo margine di concretezza in una situazione lavorativa, come evidenziato in precedenza. A complicare il quadro, ci sono spesso storie di reiterati insuccessi, frequenti colloqui a vuoto causati da richieste ed aspettative sovradimensionate rispetto alle capacità soggettive, o dovuti ad incompatibilità derivata da problemi logistici o di limitazione funzionale. Questo carico emotivo può tradursi, poi, una volta ottenuto il lavoro, in una grande ansia da prestazione (Colombo, 2007: 18-19). Questi esempi mostrano come la disabilità, di per sé, non sia

una condizione passiva e determinata, ma piuttosto uno status negoziato attraverso l’interazione con altri individui: ciò significa che può diventare più o meno significativa, dentro il contesto e le relazioni lavorative. Una ricerca, a tal proposito dichiara che i lavoratori disoccupati tendono a parlare di sé evidenziando la menomazione, mentre coloro che hanno un’occupazione raccontano della loro lotta per mantenerla, ponendo l’accento sulle opportunità che sono loro offerte (Brown et al, 2009: 56).

Cercando di identificare le qualità del lavoratore è necessario partire dalla consapevolezza che ciascuna categoria di disabilità evoca diverse aspettative e percezioni rispetto alla possibilità di portare a termine i compiti richiesti. Le principali caratteristiche personali sono:

• la tipologia di disabilità: è sicuramente l’elemento principale, indagato da numerose ricerche. Gli osservatori assegnano il lavoratore ad una delle sei categorie: problematiche fisiche, mentali, disturbi sensoriali, difficoltà di apprendimento, disturbi neurologici e dipendenza. La disabilità mentale è quella che sembra avere effetti maggiormente negativi sulle opportunità lavorative (Ren et al, 2008: 200) tanto che anche l’intervento dei servizi non è sufficiente a garantire maggiori opportunità a questi lavoratori (Gates et al, 2001: 320). La tipologia di disabilità è collegata, poi, anche alla percezione dell’esistenza di mansioni tipiche da attribuire ai lavoratori disabili; tipicamente, per esempio, il centralinista è cieco (Watherhouse et al, 2010: 20);

• l’origine della disabilità: ovvero le cause che l’hanno generata. In pratica, se le persone disabili sono ritenute responsabili della loro patologia, hanno maggiori probabilità di essere considerate indesiderabili e di suscitare risposte affettive negative. Al contrario, invece, quando l’origine della condizione invalidante è considerata come esterna al controllo del dipendente ( sclerosi multipla o distrofia muscolare, per esempio) allora è addirittura più facile che questo venga valutato come coraggioso e altamente motivato (Stone, Colella, 1996: 353);

• la durata della disabilità: ci sono patologie temporanee o reversibili (come, per esempio, la rottura di un arto) e altre, invece, progressive e irreversibili. Quando la disabilità è progressiva, cronica oppure incurabile, l’individuo è classificato in modo negativo e, questo, influenza di conseguenza le sue possibilità di relazione con i colleghi;

• la visibilità: ha a che fare con la possibilità di riconoscere o meno esteriormente la patologia. In linea di massima sembra che il giudizio sia maggiormente negativo quando la disabilità è visibile rispetto a quando, invece, è nascosta. In questo ultimo caso, infatti, ha maggiori possibilità di essere assegnato a lavori impegnativi e inserito nel gruppo di lavoro;

• l’irruenza: riguarda la misura in cui la condizione di disabilità può interferire con la comunicazione e la possibilità di interagire con gli altri. Ovviamente, più la disabilità è dirompente, e più aumentano le possibilità che sia vista come indesiderabile e il dipendente rischi l’esclusione dalle attività informali (Stone, Colella, 1996: 360);

• la percezione di pericolo: la disabilità suscita sensazioni diverse sia rispetto alla pericolosità della persona che ad un eventuale rischio di contagio. Le persone affette da patologie di tipo mentale, per esempio, sono considerate meno capaci di portare a termine i compiti richiesti ma anche più pericolose per via dell’imprevedibilità delle loro reazioni. Invece, coloro che hanno problemi di dipendenza, sono valutati anche i rischi che possano ledere l’integrità dei colleghi, oltre che quella dell’azienda. Accanto a quelle descritte ci sono, poi, una serie di altre caratteristiche che possono condizionare il processo di categorizzazione e il trattamento delle persone disabili e sono:

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• i livelli di performance precedenti: quando i lavoratori disabili entrano nell’organizzazione, la domanda principale che i datori di lavoro si pongono è: “Sarà in grado di svolgere i compiti richiesti?” Le esperienze passate, in questo senso, influenzano le aspettative rispetto al grado di preparazione che la persona dovrebbe avere, soprattutto durante la fase di ingresso. Ovviamente, maggiori sono le performance precedenti, e più il candidato sarà considerato abile ed affidabile (Burke-Miler et al, 2006: 145).

• il genere e lo stile interpersonale: l’analisi compiuta sulle differenze di genere mostra risultati contraddittori: mentre alcuni studi evidenziano che le ragazze hanno maggiori possibilità di raggiungere i loro obiettivi di carriera (Lindstrom, Benz, 2002), altri associano alle donne esperienze contraddistinte da frequenti periodi di disoccupazione e lavori parttime (Lindrstrom, 2011: 429). Gli uomini, invece, sembrano avere meno opportunità di essere valutati come adatti al lavoro e di essere inclusi nelle attività informali. Riguardo allo stile interpersonale, invece, indipendentemente dal genere, coloro che hanno un carattere mite, sembrano avere più facilmente accesso alle occasioni di incontro informale (Stone, Colella, 1996: 361).

Quindi, possiamo sostenere che le caratteristiche del lavoratore che influenzano la sua permanenza all’interno dell’organizzazione sono riconducibili a differenti aree, sia legate all’individuo e alla sua patologia che alle esperienze che ha vissuto.

Una riflessione analoga può essere compiuta a proposito degli attributi degli osservatori (datori di lavoro e colleghi).

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