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I. Capitolo

2. Le persone disabili e la società: quali rappresentazioni sociali?

Le rappresentazioni sociali sono delle immagini che incidono sul comportamento delle persone; i comportamenti, infatti, si organizzano intorno alle interpretazioni che le persone hanno di un

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determinato fenomeno. Conoscere le interpretazioni relative alla disabilità ci consente di comprendere meglio i motivi che orientano i comportamenti e come questi, a loro volta, possono essere di ostacolo o viceversa di aiuto, alla partecipazione degli individui alla vita della società (Brizzi e Cannoni, 2009: 49). Ricostruire come viene rappresentata la disabilità è interessante perché le risposte che l’organizzazione sociale tende a dare ai problemi delle persone disabili sono frutto, anche, delle rappresentazioni sedimentate nel processo storico (Lepri, 2008: 244). Lepri ha proposto in tal senso una schematizzazione piuttosto nota delle rappresentazioni della disabilità, che evidenzia come i segni delle rappresentazioni collettive si siano succedute nel corso del tempo e siano presenti nelle proposte riabilitative messe in atto ancora oggi. Secondo questo autore, la persona disabile può essere vista come:

• monstrum naturae: è la versione prevalente fino al 1700; la società non si pone la questione della presenza delle persone disabili, perché non avendo ancora risolto i problemi legati alla sopravvivenza delle persone sane sembra non avere alcuna remora nel sopprimere i suoi figli deformi (Paolini, 2009:44);

• il buon selvaggio: attraverso il razionalismo illuminista il disabile diviene oggetto di interesse e di curiosità. Da un lato c’è la ricerca della diversità per studiarla, dall’altro c’è lo sforzo di annullarla educando l’altro ad assumere comportamenti conformi. Nascono in questo periodo i primi studi di pedagogia speciale;

• il peccatore: la concezione dell’altro come diverso da me trova una ridefinizione attraverso la rappresentazione religiosa della vita all’interno della quale la malattia e la malformazione sono, allo stesso tempo, segni del peccato e della sua giusta espiazione (Giarelli, 1992:119). In tale prospettiva la disabilità, come la malformazione, è frutto della colpa. Pertanto la persona disabile è un soggetto da allontanare e al tempo stesso da salvare e proteggere, nella prospettiva dell’espiazione del peccato. La rappresentazione della persona come sofferente produce un atteggiamento basato sulla pietà e la compassione, che non richiede competenze educative ma la presenza della fede (Paolini, 2009: 45);

• il malato: alla rappresentazione religiosa si sovrappone, poco a poco, una nuova rappresentazione collettiva prodotta dalla cultura positivistica. Si afferma il criterio di persona “normale” che coincide con i concetti di cittadino e produttore, e la diversità si confronta con una forte cultura della normalizzazione e di classificazione delle anormalità guidata dalla medicina, che si dedica alla classificazione delle anomalie indagando le ragioni dell’anormalità alla luce di una supposta eziologia neurologica e biopsichica. Nascono le istituzioni con compiti di cura e normalizzazione, come orfanotrofi, ospedali, manicomi in cui, lo stato si affianca al compito precedentemente svolto dalla Chiesa. Si afferma così l’esigenza di separare nettamente chi produce da chi non vuole o non è in grado di farlo, e pertanto viene considerato un’inutile bocca da mantenere (Paolini, 2009: 46); • il bambino da proteggere: il periodo successivo alla seconda guerra mondiale è caratterizzato da un diffuso programma di assistenza sociale, che porta le famiglie ad avere un ruolo più attivo e al contempo produce un’immagine nuova della persona disabile, visto come un bambino da proteggere. La rappresentazione della persona disabile come eterno bambino è coerente con un’organizzazione sociale che, non prevedendo ruoli sociali attivi nel mondo degli adulti per le persone disabili, non può prevederne la crescita e lo sviluppo;

• il cittadino: si fa strada infine l’idea dell’integrazione della persona nei diversi ambiti dell’esistenza, e del diritto al lavoro e alle pari opportunità. È una fase caratterizzata dall’attenzione all’uomo e ai suoi bisogni, e per le persone disabili si parla di “bisogni di normalità”. Avviene il passaggio dall’immagine stereotipata del bambino da proteggere e da educare (e magari riabilitare per tutta la vita) a quella di una persona capace di interpretare i ruoli che la vita propone (Lepri, 2004: 16). È necessario ribadire la necessità di una normalità di ruoli nell’età adulta che deve essere prevista dall’organizzazione sociale, pena la permanenza dei soggetti disabili in posizioni marginali. Nel mondo degli adulti è ciò che lega il singolo individuo alla complessità sociale e contraddistingue i rapporti tra le persone nella società ( Lepri, 2008 : 249- 252). Le rappresentazioni dunque hanno storicamente esercitato un’influenza sui comportamenti e sul significato attribuito alle esperienze delle persone disabili. In un interessante studio Morvan individua cinque tipi di rappresentazioni sociali che determinano le varie concezioni di handicap, mettendo in evidenza l’influenza che queste hanno nelle relazioni sociali con le altre persone: • rappresentazioni sociali che sono ispirate da principi classificatori, come ad esempio “Down” o “spastico”: l’accento viene messo sulla categoria definitoria e generale e non sulla persona;

• rappresentazioni che sono fonte di esclusione, rigetto e di rifiuto delle differenze: evidenziano l’aspetto deficitario e l’incapacità, e pertanto che solo alcune attività possono essere adatte alle persone disabili;

• rappresentazioni che riconducono l’handicap a delle protesi tecniche o istituzionali: sposano la prospettiva tradizionale che interpreta la disabilità in termini di assistenza e dipendenza;

• rappresentazioni che riducono la disabilità a degli effetti di sofferenza: si evidenzia il senso della perdita della normalità, e l’incapacità come inevitabile esito della sofferenza ;

• rappresentazioni sociali che assimilano la persona disabile al bambino: anche questa interpretazione si basa, come abbiamo osservato, sulla rappresentazione della disabilità come incapacità e dipendenza che nega sia la possibilità di sviluppo che di esperienza in quanto adulto. La combinazione di queste differenti rappresentazioni sociali genera dunque un’immagine complessa della persona disabile, che può essere in tal modo classificata, rifiutata, vista come sofferente, protesizzata o infantilizzata (Morvan, 1988: 45-50). Mercier offre sul tema un’importante riflessione che traccia una distinzione tra immagine (rappresentazione cognitiva individuale) e rappresentazione sociale (struttura socialmente determinata in seno a una società, che determina le attitudini e le opinioni a proposito degli individui e della società). Per descrivere la rappresentazione della disabilità nella società occidentale Mercier utilizza cinque categorie di immagine che sono alla base di altrettante rappresentazioni sociali:

• l’immagine semiotica: è quella che attribuisce ai disabili fisici l’immagine di un corpo colpito, impotente e incapace di fare, mentre assegna alla deficienza mentale l’immagine del mongolismo e della follia. L’accento è sul deficit, inteso come mancanza, patologia e negatività;

• l’immagine della figura da sostenere: è quella per la quale la persona disabile (fisicamente o mentalmente) è percepita come un bambino incapace di inserirsi con le proprie forze nella vita sociale e di diventare autonomo. Anche in questo caso si usa l’immagine del bambino per sottolineare gli aspetti di debolezza e mancanza;

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• l’immagine secondaria: traduce gli effetti che le immagini producono sull’idea della disabilità. Nei riguardi delle persone con disabilità motoria accentua la dimensione dell’assistenza tecnica e degli strumenti compensatori, mentre per quelle con disabilità mentale rimanda a un’idea di a mondo chiuso, limitato;

• l’immagine affettiva: riflette la maniera in cui è tradotto il vissuto affettivo della persona disabile. Mentre il deficit fisico rimanda generalmente alla voglia di vivere, ed è quindi positiva e più accettabile, il deficit mentale riflette in genere una concezione negativa, di ripiego su se stessi; • l’immagine relazionale: è quella che sottende le relazioni effettive che altri hanno con le persone disabili. In questo caso, mentre nei confronti delle persone con deficit fisico prevale un sentimento di malessere e inadeguatezza sociale, rispetto alla persona con deficit mentale domina la paura del rifiuto (Mercier, 1999:33-37). Dobbiamo a Gardou alcune importanti riflessioni rispetto alla rappresentazioni della disabilità, in particolare per quanto riguarda la distinzione tra modello ontologico e relazionale, esogeno ed endogeno, additivo e sottrattivo, malefico e benefico (Gardou, 2009). Per quanto riguarda il modello ontologico, esso considera la disabilità come una realtà isolabile, un male in sé, un’alterità patogena e lesionata, un problema individuale, che richiede un trattamento medico in funzione della normalizzazione, dell’adattamento della persona e del cambiamento dei suoi comportamenti. Anche a livello delle politiche, le cure mediche sono quindi considerate secondo questa prospettiva la forma privilegiata di intervento. Nel modello relazionale invece, la disabilità diventa funzionale e dinamica. Il deficit non viene occultato, ma visto come frutto dell’alterazione di un equilibrio, la conseguenza di una relazione perturbata tra la persona e l’ambiente. Di conseguenza, il processo di miglioramento passa in primo luogo attraverso lo stabilirsi di un nuovo equilibrio relazionale. Il modello esogeno corrisponde alle rappresentazioni della disabilità come incidente, esito dell’azione di un elemento estrinseco che ha provocato la situazione disabilitante. La questione diviene dunque capire se la disabilità proviene dall’ambiente, dal modo di vita o dalla cultura. Nel modello esogeno le cause vanno dunque cercate all’esterno. Un tipico esempio è la concezione dell’handicap come maledizione. Al contrario, invece, nel modello endogeno la ricerca delle cause viene spostata sulla persona, la disabilità è vista come frutto di un processo intrinseco al soggetto (Gardou, 2009:9-12). Nel modello additivo la disabilità viene concepita come un elemento che invade il corpo e lo spirito, è qualcosa che la persona riceve come un fardello (“portatore di un handicap”) e sono le nozioni di troppo, di eccesso, a fornire la chiave di lettura. Nel modello sottrattivo la disabilità è invece “qualcosa di meno”, che è stato sottratto o che si è “involato” dalla persona (ad esempio la perdita della ragione). Tale modello rinvia a una visione della disabilità come incapacità o privazione da compensare, deficit o insufficienza da riparare, carenza o mancanza da colmare. A predominare sono le nozioni di assenza, soppressione, perdita, sottrazione, vuoto (Gardou, 2009:9-15). Nelle rappresentazioni corrispondenti al modello malefico, la disabilità è considerata un male assoluto, un’anormalità, una devianza biologica e, insieme, sociale. La disabilità è oggetto di svalutazione, condizione di umiliazione e vergogna, e diventa un sinonimo di stigmatizzazione. Nella cultura occidentale la persona disabile è vissuta spesso come un essere socialmente svalutato, sfasato rispetto all’ordine culturale vigente. All’opposto, nel modello benefico, si conferisce alla disabilità un significato positivo perché svolge una funzione di equilibrazione sociale. La disabilità viene vista come un’esperienza particolarmente feconda e significante di conoscenza, superamento, trasfigurazione di sé, occasione di scoperta di mondi invisibili (Gardou, 2009:13-15). In breve, possiamo dunque dire che le rappresentazioni sociali della disabilità hanno influenza sul modo in cui essa viene percepita, e hanno ripercussioni

sulla definizione di disabile, sulle sue relazioni sociali, sul significato stesso attribuito alle situazioni in cui la disabilità è presente e sul progetto di vita delle persone disabili in cui la dimensione lavorativa svolge un ruolo cruciale e centrale per la realizzazione della persona.

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III. Capitolo

Il lavoro come dimensione centrale nella realizzazione del progetto di vita

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