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Cohen, Lévinas e una certa idea di ebraismo

dell’etica di Lévinas

5. Cohen, Lévinas e una certa idea di ebraismo

Le questioni che bisogna sollevare, giunti a questo punto, sono le seguenti: cosa ha spinto Cohen ad affermare con tan- ta forza l’affinità tra Deutschtum e Judentum? Cosa ha fatto sì che il Deutschtum, identificato con lo spirito che anima le im- mortali opere di Goethe, Schiller e Kant, divenisse ai suoi oc-

chi tanto simile all’ebraismo, identificato, a sua volta, con la religione della ragione, con una religione, cioè basata an- ch’essa sullo spirito? Una risposta esaustiva a queste doman- de richiederebbe un’analisi approfondita di ciò che è stata chiamata (con macabra ironia?) la simbiosi ebraico-tedesca.61 Sarà di conseguenza necessario concentrare l’attenzione so- lo su alcuni punti, in modo da poter illuminare poi quegli aspetti del pensiero levinassiano che qui ci interessano. Il punto con il quale vorrei cominciare riguarda la questione della storicità dell’ebraismo e dei fatti religiosi e culturali in genere. Cohen, come dopo di lui farà Lévinas, si muove all’interno di un pensiero che non ha fatto i conti fino in fon- do con questa storicità, che a buon diritto può esser vista co- me un momento essenziale per definire i contorni del mo- derno. Con coscienza della storicità, molto banalmente, qui intendo la capacità di prendere distanza dalla propria tradi- zione, non per relativizzarne il contenuto, ma per conside- rarla come il frutto di un processo in cui una serie di fattori umani, di volta in volta determinati e determinabili, hanno condotto tale tradizione a essere ciò che essa è. Ora, questa presa di distanza è particolarmente difficile se la propria tra- dizione di appartenenza è segnata in profondità da elementi di tipo religioso. In questo senso, autori come Cohen, Baek, Benamozegh, Rosenzweig, Buber e, da ultimo, Lévinas – fatta salva la specificità delle rispettive posizioni e la diffe- renza, a volte enorme, che le separa – hanno in comune pro- prio questo: una grande difficoltà (psicologica forse, prima che teorica) ad accettare la storicità dell’ebraismo e a trarre tutte le conseguenze che da questa accettazione derivereb- bero. Il problema posto dal nesso religione/storia certamen- te non riguarda solo la cultura ebraica: con questa stessa identica questione si sono dovuti confrontare anche quanti, in seno alla tradizione cattolica o protestante, hanno cercato di adattare la propria esperienza religiosa alle istanze poste della modernità. Ciò che però ora ci interessa è la specificità

ebraica della risposta che ogni homo religiosus deve dare al moderno in quanto istanza che impone la piena storicizza- zione di ogni esperienza religiosa.

Cominciamo con il considerare il rapporto tra Cohen e la na- scente storia delle religioni. Agli inizi del suo percorso intel- lettuale, Cohen sembra fare sua addirittura una posizione di tipo positivistico: i riti, gli usi, le regole sul puro e l’impuro dell’antico Israele si spiegherebbero come la sopravvivenza di elementi mitici appartenenti a quello stadio in cui Israele professava una Naturreligion. Ciò, almeno, quanto emerge in una conferenza del 1869 sulle origini del rituale sabbati- co, nella quale Cohen si sforza infatti di inquadrare gli usi e i costumi dell’antico Israele come una risposta a esigenze e stimoli provenienti dall’ambiente culturale circostante.62Da dove vengono a Cohen gli strumenti ermeneutici attraverso i quali sviluppare questo tipo di argomentazioni, che, ripeto, hanno un sapore schiettamente positivistico? Nella sua in- dagine dei rapporti tra cultura tedesca e cultura ebraica du- rante la Jahrhundertwende Hans Liebschütz, nel mettere in luce le fonti di Cohen, sottolinea soprattutto il ruolo giocato dalla Völkerpsychologie di Moritz Lazarus e Haymann Stein- thal, ricordando anche i legami di amicizia che legarono Cohen a Steinthal.63Steinthal e Lazarus fondarono nel 1859 la Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft, che permise alla cultura tedesca di colmare, almeno in parte, il ritardo in cui essa si trovava rispetto alle culture francese e inglese nel campo degli studi etno-antropologici.64Ma a ciò si deve subito aggiungere l’osservazione seguente: mentre Lazarus e Steinthal trassero dalle loro ricerche delle conse- guenze di tipo storicistico in rapporto al proprio ebraismo, Cohen cercò invece di mitigare la portata che una considera- zione scientifica del fatto religioso poteva avere sulla co- scienza ebraica. Nei loro scritti sull’ebraismo sia Lazarus che Steinthal dimostrano di aver accettato pienamente il fat- to che l’ebraismo è una religione come tutte le altre, studia-

bile come tutte le altre e che, di conseguenza, può vivere all’interno della modernità come espressione individuale di un bisogno di tipo culturale, connesso all’esigenza individua- le di dare un senso alla vita e simili.65Cohen, invece, trae dal- le premesse positivistiche da cui è partito delle conseguenze del tutto opposte: se è vero che il punto di partenza della reli- gione ebraica è condizionato da fattori empirici, legati al cli- ma e all’ambiente, è altrettanto vero che l’ebraismo ha saputo poi trasformare gli elementi del proprio sistema di credenze ancora legati alla Naturreligion in valori, cioè in elementi spi- rituali la cui validità va al di là dell’empirico. Dunque, ben prima dell’uscita del suo capolavoro, Religion der Vernunft, Cohen vede operare nell’ebraismo la forza dello spirito, cioè di ciò che non si lascia determinare dall’empiria del condizio- namento culturale, rivendicando così all’ebraismo un caratte- re che gli avrebbe permesso di liberarsi di ogni elemento le- gato a fattori localmente e storicamente determinati. Giova ricordare come tale difesa del carattere spirituale dell’ebraismo abbia avuto nell’attività intellettuale di Cohen delle conseguenze paradossali, per non dire tragiche. Al mo- mento della controversia suscitata in Germania dagli scritti antisemiti di Treitschke, anche Hermann Cohen si sentì in do- vere di prendere la parola, non solo quale professore ordina- rio, ma soprattutto quale membro di quella comunità ebraica che Treitschke attaccava così ferocemente nei suoi scritti.66 Ma qual è l’ebraismo difeso da Cohen? Si tratta, si potrebbe dire, di un ebraismo più tedesco di ogni Deutschtum. Le repli- che di Cohen si muovono infatti sullo stesso terreno in cui si muove l’avversario, un terreno in cui la posta in gioco è data dalla necessaria unità spirituale e razziale della nazione tede- sca. Questa unità per Cohen è già viva e operante al presente, senza che vi sia bisogno di eliminare quella specificità ebrai- ca che agli occhi dei tedeschi poteva apparire come il segno di una totale estraneità al Volk. In questo contesto, mi limito a segnalare due fatti, estremamente significativi. Il primo ri-

guarda la legittimità o meno di atteggiamenti razzisti: secon- do Cohen, «l’istinto di razza (Rasseninstinkt) non è una sem- plice barbarie, ma una profonda esigenza naturale, che si giu- stifica con il senso nazionale (ein natürliches, national berec-

htigtes Verlangen)».67 In secondo luogo, per Cohen la con- versione in massa degli ebrei al cristianesimo deve restare esclusa. Essa non è infatti necessaria, perché gli ebrei tede- schi vivono già il loro ebraismo luteranamente: «in tutte le questioni spirituali della religione pensiamo e sentiamo nello spirito protestante (im protestantischen Geiste)».68 Tutto l’argomentare di Cohen è dunque finalizzato a dimostrare che il popolo ebraico è legittimato a esistere e ad affermarsi sul suolo del Reich perché esso è portatore di valori e di istanze che coincidono con quelle del Geist tedesco. Anzi, il rigoroso monoteismo ebraico, in quanto forma suprema dell’universa- lismo espresso dal Geist, fa degli ebrei i custodi di un patri- monio ideale indispensabile all’affermazione dello stesso

Deutschtum. I tedeschi- e, con essi, gli ebrei tedeschi - sono

insomma autorizzati a lottare per l’autoaffermazione perché la superiorità tedesca è tutta spirituale, non è né può essere di tipo razziale o geopolitico.

A queste convinzioni Cohen resterà fedele anche quando in tutti i campi di battaglia europei era ormai presente quella violenza che lo spirito di solito scatena quando serve a legit- timare politiche imperiali di potenza. All’inzio della prima guerra mondiale, nel 1915, Cohen scrive il saggio Deut-

schtum und Judentum, un lavoro che ai nostri occhi può ap-

parire sorprendente, ma che in realtà è perfettamente coe- rente con i tratti del suo pensiero messi in evidenza sin qui. In tale testo – e ancora una volta devo limitarmi a riportare degli esempi significativi – si possono trovare un elogio del- la socialdemocrazia tedesca, la quale, nel momento della prova suprema, seppe dimostrarsi fedele alla propria Deut-

schheit – socialdemocrazia le cui aspirazioni ideali, ovvia-

smo ebraico. Oppure vi si può leggere l’invito fatto agli e- brei rifugiatisi in America, quindi in un paese potenzialmen- te nemico, a considerare la Germania come la madrepatria di tutti gli ebrei.69

Siamo con ciò di fronte alle bizzarrie di una mente senile? Oppure sarebbe meglio limitarsi ad affermare che si tratta di uno scritto d’occasione, dettato dalla gravità del momento? Ancora una volta, bisogna invece riconoscere la coerenza interna dell’opera di Cohen, che ha dedicato tutte le sue energie morali e intellettuali nel tentativo di realizzare il so- gno dell’unità ebraico-tedesca. In un testo come Deutscht-

um und Judentum, infatti, Cohen imposta la questione del-

l’identità ebraica in modo tale da proporre una sorta di rilan- cio iperbolico della doppia appartenenza dell’ebraismo te- desco, che si trova a essere erede sia della tradizione biblico- -talmudica, sia della tradizione tedesca dell’Aufklärung. Mi pare lecito evocare la figura dell’iperbole perché tutta l’ar- gomentazione di Cohen si snoda lungo un percorso che toc- ca la metastoria, che investe cioè l’essenza stessa del logos in quanto elemento strutturante sia dell’anima ebraica che dell’anima tedesca. Cohen non cerca prove fattuali, non cer- ca di persuadere il suo lettore facendo appello ad analogie tra la cultura ebraica e la cultura tedesca. Ciò che Cohen evoca, ricostruisce e utilizza per dimostrare la sua tesi, piut- tosto, è la storia di una certa concettualità filosofica. In seno a tale storia, si lascerebbe riconoscere lo svolgimento e la manifestazione progressiva di un’unica concezione del lo-

gos, dell’idea, della razionalità, della giustizia, concezione

che trova le sue massime e più chiare formulazioni ora nel pensiero ebraico, ora in quello tedesco. Ed è attraverso que- sta polifonia di voci, ora ebraiche, ora tedesche, tese assie- me a prestare una lingua all’universale, che si saldano ebrai- cità e germanesimo: poiché dell’universale non si può dire né che sia ebreo, né che sia tedesco, Cohen fa dell’identità tra ebraismo e germanesimo un elemento che non riguarda

la coscienza o la volontà dei tedeschi e degli ebrei, bensì qualcosa che tocca, nella sua essenza, lo stesso Geist, inteso quale elemento che guida e governa, teleologicamente, la storia dell’intera umanità europea.

Come fa Derrida in un suo acuto saggio volto ad analizzare le implicazioni di Deutschtum und Judentum in rapporto al- la questione, più generale, dell’appartenenza, dell’identità nazionale e della “spiritualità” che, nella tradizione europea moderna, da sempre marca il luogo patrio, si potrebbe attri- buire a questo testo di Cohen un valore paradigmatico, col- locandolo quindi al di là della questione posta dalla cosid- detta “simbiosi ebraico-tedesca”.70Ma nel presente contesto mi pare maggiormente opportuno tornare al punto da cui siamo partiti, e cioè alla mancata elaborazione, da parte di Cohen, dei presupposti teorici che guidano un approccio storico-religioso alla tradizione ebraica. Solo così, mi pare, si può illuminare con sufficiente chiarezza la portata di quella spiritualizzazione dell’ebraismo che segna in profon- dità sia il pensiero di Cohen, sia quello di quanti, dopo di lui, intesero ripensare il rapporto tra l’universalismo di prove- nienza illuministica e l’universalismo di matrice biblico- -talmudica. Nel seguito della nostra analisi, perciò, cerche- remo di interrogare quei fattori che hanno portato Cohen a minimizzare – se non a rendere ineffettuali – i principali ri- sultati della filologia biblica del suo tempo. È abbastanza evidente che si tratta di un aspetto strettamente intrecciato a quello messo in luce sopra, quando si è esposto il rapporto di Cohen con la Völkerpsychologie: se Cohen poté mostrare interesse verso certe applicazioni della Völkerpsychologie alla religione dell’Israele antico, lo fece proprio per accen- tuare l’originalità del profetismo ebraico, nel quale egli identificava il massimo distacco da un atteggiamento di tipo mitico. Ma, in realtà, sia la storia delle religioni che la filolo- gia biblica da tempo avevano mostrato l’impossibilità di espellere il mito dalla Bibbia. Per questo mi pare lecito iden-

tificare nell’atteggiamento di Cohen nei confronti della filo- logia biblica un indice ulteriore del rifiuto di un punto di vi- sta radicalmente storico in materia religiosa.71

Nel periodo a cui facciamo riferimento, la filologia biblica aveva raggiunto il culmine delle proprie prestazioni scienti- fiche nell’opera di Julius Wellhausen72, che dal 1885 al 1992 fu collega di Cohen a Marburgo. I due, tra l’altro, non furono solo colleghi, ma divennero anche buoni amici.73Da Wellhausen Cohen apprese l’importanza del profetismo nell’evoluzione della storia spirituale ebraica, ma non ac- colse mai quel metodo filologico che solo avrebbe permesso un’effettiva storicizzazione dell’ebraismo. Quanto l’ambien- te in cui si muoveva Cohen fosse restio a compiere un passo del genere, ce lo può indicare, per contrasto, un’opera di Goldziher, nato e cresciuto come Cohen in seno all’ebrai- smo mitteleuropeo. Familiare con i metodi delle discipline antropologiche e filologiche grazie alla sua attività di stu- dioso dell’Islam74, Goldziher non esitò a porsi il problema dell’applicazione dei risultati della ricerca storico-critica in campo religioso alla tradizione ebraica. L’opera di questo grande islamologo a cui faccio qui riferimento è Der Mythos

bei den Hebräern, che uscì nel 1876. Si tratta di un lavoro di

notevole rilevanza (oggi per la verità quasi dimenticato), che per certi versi preannuncia le successive ricerche di un Robertson Smith. Goldziher, infatti, cerca di fondere in un’u- nica prospettiva l’approccio della filologia biblica e quello della nascente storia delle religioni in merito all’origine del- la religione ebraica antica e mostra di padroneggiare egre- giamente le fonti della Religionswissenschaft, che allora aveva il suo nume tutelare in Max Müller.75Parimenti viene riconosciuto a Steinthal «il merito di aver reso fruttuosa la scienza comparata dei miti per l’ambiente ebraico».76 Lo scopo della sua ricerca era di mostrare che pure l’ebraismo era nato come religione strutturata miticamente. Mentre og- gi un assunto del genere non stupisce nessuno a causa della

sua ovvietà, nel contesto della cultura ebraico-tedesca di al- lora esso poteva venir accolto come una sorta di provocazio- ne. Dal punto di vista del metodo storico-comparativo allora in auge, infatti, dire che nella Bibbia sono individuabili del- le strutture mitiche, per principio simili a quelle di altri po- poli, significa dire che i miti ebraici rinvenibili nella Bibbia non hanno alcuna originalità. Soprattutto la pretesa di porre nel monoteismo ebraico la creazione più originale dell’I- sraele antico ne esce completamente ridimensionata. A que- sto proposito, Goldziher ha cura di sottolineare il carattere non originario del monoteismo, essendo chiaro che le forme più elementari e primitive di vita associata non possono im- plicare la presenza di una forma di religione così complessa come quella espressa dal monoteismo. E altrettanto signifi- cativo è qui il fatto che Goldziher abbia la correttezza di se- gnalare l’apporto fornito da Hume alla storia delle religioni: fu Hume, infatti, il primo a negare che il monoteismo potes- se essere la religione originaria.77

Se può giovare, l’introduzione di una figura di contrasto non può risultare però sufficiente per dar contro della questione di cui ci stiamo occupando. Il libro di Goldziher a cui si è fatto riferimento è davvero la classica eccezione che confer- ma la regola. Pure l’amicizia tra Wellhausen e Cohen, a cui sopra si è fatto cenno, costituisce un fatto straordinario. Gli ambienti ebraici dell’epoca, infatti, hanno sempre mantenu- to un atteggiamento ostile nei confronti della Bibelwissen-

schaft. Ed è questo il vero punto focale della questione, ver-

so il quale è bene rivolgere ora il nostro sguardo. Nelle scienze bibliche (archeologia, filologia, studio delle lingue orientali, storia dell’oriente antico ecc.) l’ebraismo tedesco in lotta per l’emancipazione vedeva un tentativo di svalutare l’intero sviluppo della storia ebraica posteriore all’ultima di- struzione del tempio. Il sospetto da parte ebraica non era del tutto ingiustificato. Qual è sempre stato il fine degli studi bi- blici, infatti, se non quello di studiare quei fenomeni storici

che dovevano necessariamente portare alla nascita del cri- stianesimo? Non va qui dimenticato che la Bibelwissen-

schaft, sin dai tempi di Michaelis, sul suolo tedesco è sem-

pre stata una disciplina interna alle facoltà di teologia. Non deve perciò sorprendere che il filologo biblico abbia spesso condiviso nei confronti dell’ebraismo il tipico atteggiamen- to dei teologi cristiani- e in seno a tale atteggiamento, come è ovvio, l’ebraismo è importante solo in funzione di una mi- gliore comprensione delle origini del cristianesimo. Non si può classificare tale atteggiamento come direttamente anti- semita – anzi, in alcuni casi si ebbero vere e proprie forme di “filosemitismo” tra i cultori di scienze bibliche. Va però ri- conosciuto il fatto che la filologia biblica costituì un mo- mento, seppur ricco di sfumature al suo interno, di quella negazione della specificità ebraica che caratterizza tanta parte della cultura europea di allora. Potremmo caratterizza- re tale negazione della specificità come inglobamento del-

l’alterità: l’altro viene interpretato come una variante inter-

na del medesimo, nel senso che il suo specifico e autonomo sviluppo storico-culturale rappresenta una delle possibili varianti di una storia la cui teleologia culmina con la posi- zione del soggetto parlante- in questo caso, lo studioso di scienze bibliche, che quasi sempre, se non altro in forza del giuramento dato agli inizi della sua carriera di professore, è anche un fedele suddito dell’Impero germanico. Per quanto molti cultori di scienze bibliche abbiano preso distanza dal protestantesimo in cui sono cresciuti78, resta il fatto che que- sta struttura discorsiva ora messa in luce era interna ai pre- supposti della disciplina stessa.

Ma è spostando la nostra attenzione, seppur brevemente, proprio su Wellhausen che coglieremo meglio il senso di quanto appena detto.79Va detto subito che Wellhausen non è mai stato antisemita. Anzi, ha sempre manifestato una for- te avversione per l’antisemitismo che stava affermandosi

nella Germania di allora. Non solo: al contrario di molti suoi colleghi, non ha esitato ad applicare anche al Nuovo Testa- mento il metodo storico-critico da lui messo a punto nello studio dell’Antico e proprio quando, nei primi anni del No- vecento, la Lebens-Jesu-Forschung stava per giungere al suo punto culminante, egli giunse a delle conclusioni assai poco rassicuranti dal punto di vista della fede cristiana. Per Wellhausen erano già chiare due cose, destinate poi a trova- re ampie conferme: primo, i Vangeli non ci restituiscono l’im- magine del Gesù storico; secondo, la storia del cristianesi- mo, così come ci è dato conoscerla, comincia con la fede dei primi cristiani nella risurrezione. A essere importanti nel presente contesto sono però alcuni aspetti della sua imposta- zione storiografica complessiva, nei quali viene costruita una certa immagine dell’ebraismo, un’immagine la cui rile- vanza deve essere letta al di là sia del suo significato scienti- fico, sia al di là delle convinzioni personali dello stesso Wel-