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dell’infinito

Il gesto di distacco dalla tradizione compiuto da Lévinas per certi versi ricorda quello compiuto da Heidegger, il quale con l’espressione ontoteologia ha etichettato un paio di mil- lenni di pensiero filosofico. Il paragone, però, si ferma ov- viamente qui: per Heidegger l’ontoteologia è colpevole di aver dimenticato la differenza tra essere ed ente, mentre per Lévinas, all’opposto, è proprio il fissarsi da parte dell’on- tologia sul senso dell’essere a costituire la colpa d’origine del pensiero occidentale. In merito può essere istruttivo il passo seguente, tratto da un saggio del 1951.

Tutto l’uomo è ontologia. La sua opera scientifica, la sua vita affettiva, la soddisfazione dei suoi bisogni e il suo lavoro, la sua vita sociale e la sua morte, articolano, con un rigore che attribuisce a ciascuno di questi momenti una funzione deter- minata, la comprensione dell’essere o la verità. La nostra ci- viltà nella sua integrità deriva da questa comprensione – an- che se quest’ultima si configurasse come oblio dell’essere.19

Includendo così anche Heidegger nella grande tradizione della filosofia occidentale, si può dire che Lévinas chiuda definitivamente i conti con la fenomenologia. Certo, Lévi- nas ammette che l’ontologia fondamentale di Heidegger amplia e approfondisce il discorso husserliano20, ma neppu- re tale ampliamento permette una messa in questione della metafisica della luce. Rispetto all’intelligibilità che que- st’ultima permette, Lévinas oppone un altro tipo di visibili- tà, apparentemente priva di ogni rapporto con l’intelligere: la visibilità a cui pensa Lévinas, infatti, è quella resa possi- bile dall’incontro con il volto dell’altro. E il volto dell’altro non è visibile perché illuminato dalla luce del comprende- re.21Al contrario, è l’espressività propria del volto altrui ciò che fonda la possibilità stessa di ogni comprensione, inclusa quella dell’essere che non è l’essere dell’ente.22

Non credo che la natura a prima vista bizzarra di questa tesi possa giustificare una sua veloce liquidazione. Se è ben vero che la conoscenza resta in qualche modo presupposta in se- no a ogni forma di incontro con l’altro uomo, non è meno vero che Lévinas voglia conferire al suo discorso etico un valore fondativo primario, tale da sottrarlo alle critiche di chi gli può obiettare in qualunque momento che prima di trovarmi nella condizione di ostaggio dell’altro devo perce- pire un mondo, dei corpi estesi ecc. Il punto è dunque altro- ve. Ciò che non può non suscitare perplessità nel discorso levinassiano è la volontà dichiarata di far coincidere con la

religione lo spazio dell’etica in cui l’incontro con il volto al-

La relazione con l’altro uomo [autrui] non è dunque onto- logia. Questo legame con l’altro [autrui] che non è ricon- ducibile alla rappresentazione dell’altro [autrui] ma alla sua invocazione e nel cui ambito l’invocazione non è pre- ceduta da una comprensione, lo chiamiamo religione. L’es- senza del discorso è preghiera.23

Rispondendo negativamente alla domanda se l’ontologia sia davvero fondamentale, Lévinas dunque non vuole solo met- tere in mora il primato del conoscere, ma intende immettere nello spazio occupato dal pensiero filosofico un altro tipo di discorsività, caratterizzata da una marcata estraneità nei confronti della filosofia che inizia nell’Atene del quinto se- colo. In seguito, proprio il senso di questa estraneità verrà messo a fuoco, per chiedere da quale patria provenga il pen- siero levinassiano dell’erranza e dell’esilio. Ora però va ap- profondito il senso della denuncia compiuta da Lévinas nei confronti della metafisica intesa quale luogo della violenza. L’argomento con cui Lévinas intende giustificare il primato dell’etica sull’ontologia è duplice. Da un lato, si tratta di mostrare che nel mio rapporto con l’altro non posso perve- nire in alcun modo a una forma di dominio, perché la rela- zione con altri è tale da costituire il soggetto prima che si met- ta in moto l’attività costituente del soggetto stesso. D’altro la- to, è in questione la violenza che insopprimibilmente carat- terizza il gesto del conoscere. Conoscere per Lévinas vuol dire oggettivare, porre all’interno del mio universo catego- riale ciò che mi si offre nell’assoluta esteriorità. L’atto cate- goriale è sempre unificante, e questo potere di unificazione deriva da quell’unità posta artificialmente che è la coscien- za, desiderosa di rimpatriare presso di sé dopo ogni viaggio nell’esteriorità. Conoscere è dunque ridurre l’alterità di ciò che trascende la coscienza alle strutture del medesimo, alle strutture di quel soggetto che, se si espone all’alterità, lo fa solo per rinforzare il proprio dominio, per confermare la

bontà dell’atto unificante in cui si attua la categorizzazione. Le due tematiche scorrono indubbiamente parallele nella produzione testuale di Lévinas. Ma va nondimeno sottoline- ato che, logicamente, solo la caratterizzazione del conoscere come violenza nei confronti dell’esteriorità permette di giu- stificare l’introduzione di un discorso etico in cui l’alterità dell’altro uomo venga pensata come assenza di oggettiva- zione. E a tal proposito, è difficile sfuggire all’impressione che Lévinas confonda la teoria della conoscenza con l’etica. Non si capisce infatti dove mai debba risiedere la violenza nel fatto di compiere un atto obiettivante. Se voglio parlar chiaro ed essere capito, devo poter distinguere questo tavolo da qualsiasi altro, e lo stesso deve poter fare il mio interlocu- tore. Non si può insomma dar torto con tanta leggerezza agli Scolastici quando osservavano che l’unum è un trascenden- tale dell’ens. Non vi sarebbe alcun problema se Lévinas si limitasse a dire che nell’incontro con l’altro sono all’opera strutture conoscitive più complesse rispetto a quelle deter- minanti in vista della conoscenza degli oggetti materiali. In seno alla storia della filosofia non sono rari i casi in cui si è cercato di sostenere plausibilmente che una dipendenza completa dell’etica dalla teoria della conoscenza è impossi- bile. Esemplare in tal senso il tema platonico dell’al di là dell’essere, a cui del resto lo stesso Lévinas si richiama più volte24, oppure la distinzione kantiana tra legge morale in me e legalità della natura fuori di me. È inevitabile che sor- gano però delle forti perplessità quando Lévinas vuole con- vincere il suo lettore che in ogni conoscere sia in atto una ri- duzione dell’altro al medesimo e che l’imporsi di tale mo- dello riduzionistico alla sfera del rapporto tra individui sia la causa prima di tutti i mali dell’umanità. Lévinas non ci sta dicendo solo che sono necessari degli aggiustamenti nella nostra teoria della conoscenza per poter evitare che da que- sta, più o meno surrettiziamente, si ricavino argomenti volti a legittimare la violenza e simili. Lévinas ci sta dicendo due

cose assolutamente urtanti se lette alla luce dei parametri fi- losofici usuali: primo, che ogni conoscere manca di cogliere la radicale alterità dell’altro perché tale alterità precede co- stitutivamente ogni atto conoscitivo; secondo, che l’appli- cazione del modello conoscitivo in seno alla problematica etica serve tanto a mascherare lo scacco del soggetto di fron- te a un’alterità inassimilabile, quanto a legittimare la prose- cuzione mascherata dello sforzo di riduzione dell’altro al medesimo. E tutto ciò, lo si vede bene, comporta una volon- tà di rottura radicale con il discorso filosofico tout court. Volendo dar conto in questa sede soprattutto di questa rottura e di questa radicalità, si dichiara da sé come improduttivo ogni sforzo teso a muovere alle tesi di Lévinas delle obiezioni logi- che, gnoseologiche, o di altro tipo, ricavate comunque dalla tradizione filosofica. Nel presente lavoro vorrei allora delinea- re i presupposti che sono all’opera nel discorso levinassiano. Credo che questo modo di procedere sia più efficace non tanto perché più rispettoso nei confronti del pensiero di Lévinas (aspetto questo che comunque va tenuto presente), quanto per- ché permette di cogliere alla radice l’estraneità dell’etica levi- nassiana rispetto ai discorsi correnti sull’alterità, compresi quelli che in varia misura si sforzano di trovare argomenti a fa- vore di un’etica rispettosa e ospitale. E per dar conto di tale estraneità, andrà ora mostrato come, a dispetto di ogni sospetto nei confronti della conoscenza intesa quale atto sempre e co- munque violento, una certa conoscenza del divino viene pre- supposta dal discorso di Lévinas nel suo insieme.

Per giustificare una relazione con altri in cui la conoscenza non gioca alcun ruolo, per poter insomma rendere plausibile un discorso in cui il mio rapporto con l’altro mi costituisce in quanto soggetto prima di ogni atto di comprensione, Lévinas cerca di mostrare come la mia soggettività sia già strutturata in modo tale da poter ospitare una qualche forma di esteriorità assoluta. Quest’ultima viene reperita nell’idea di infinito in noi. L’importanza di tale concetto filosofico riposa per Lévi-

nas nel fatto che l’idea di infinito offre al pensiero un oggetto del tutto sui generis, che è in realtà irriducibile a ogni forma di oggettivazione. Letteralmente, l’idea dell’infinito è irrap- presentabile e inoggettivabile - dunque è impensabile, nel senso che si sottrae a ciò che per Lévinas caratterizza in modo peculiare il pensiero, ovvero l’attività oggettivante. Di conse- guenza, l’idea dell’infinito non è contenibile nel soggetto che la pensa. Ed è questo, per Lévinas, il punto essenziale.

L’intenzionalità che anima l’idea di infinito non è compa- rabile a nessun altra: essa intenziona ciò che non può ab- bracciare. (...) Pensando l’infinito, l’io pensa immediata- mente più di quanto non pensi. L’infinito non rientra nell’i- dea d’infinito, noi non lo cogliamo: quest’idea non è un con- cetto. L’infinito è il radicalmente, l’assolutamente altro.25

Questo pensiero di qualcosa che non è sottoponibile alla obiettivazione permette a Lévinas di isolare la condizione di

possibilità di un pensiero dell’eccedenza. Vi è pensiero an-

che là dove non vi è oggetto, obiettivazione, riduzione dell’altro al medesimo. Il pensiero che, pensando l’infinito, pensa al di là di sé non cessa di essere pensiero. Anzi, pro- prio per il fatto di non poter obiettivare il proprio contenuto, per il fatto di non poter rendere ragione di ciò che in esso si pensa, il pensiero mostra un aspetto inedito, compie su di sé una trasformazione che lo porta in direzioni che rimangono celate al pensiero obiettivante. Qui parlerei di condizioni di possibilità di un pensiero dell’eccedenza, introducendo un’e- spressione estranea al linguaggio di Lévinas, perché nel ri- chiamarsi all’idea di infinito Lévinas ci sta dicendo essen- zialmente questo: se esiste l’idea di infinito, vi è almeno un pensiero che ospita un’esteriorità che non può venire mai-

ex definitione- inglobata dal medesimo. Nel momento in

cui l’idea dell’infinito si affaccia alla mente umana, in quel preciso istante la mente umana stessa si trova a ospitare

qualcosa che non può divenire oggetto di intenzione o di ri- flessione. E poiché l’idea dell’infinito non può divenire par- te del nostro bagaglio stabile di conoscenze acquisite, si trat- ta di un’idea che proviene da fuori di noi e che mantiene la traccia di quell’esteriorità da cui proviene nello stesso mo- mento in cui è pensata. E la pensabilità di questa idea, latrice di un paradosso che nessuna teoria della conoscenza può giustificare, verrebbe a costituire precisamente il fonda- mento del pensiero etico proposto da Lévinas.

Strana fenomenologia, dunque, quella che può descrivere l’apparizione dell’idea di infinito. Si tratta di una fenomeno- logia dell’inapparente, del non presente- in una parola: si tratta di una fenomenologia dell’assenza. È infatti un discor- so sull’assenza quello che Lévinas intende fare quando in- troduce l’idea di infinito quale condizione di possibilità di un pensiero dell’eccedenza. Incidentalmente si può notare che qui- e forse soltanto qui - sono giustificati i tentativi di vedere in Lévinas un pensatore postmoderno: nel corso del suo cammino di pensiero, Lévinas effettivamente ha cercato di aprire un nuovo orizzonte di pensabilità per ciò che non appare, per ciò che, paradossalmente, si dà nel modo del- l’assenza. Nel pensiero metafisico, dominato dall’ontologia e a cui Lévinas intende contrapporsi, ci si muove in una di- mensione discorsiva in cui si pongono distinzioni, concetti, modelli, al fine di fare chiarezza, al fine di capire meglio ciò che accade nel nostro mondo, al fine insomma di saperne di più su ciò che c’è. L’invito levinassiano ad abbandonare il luogo proprio del pensiero concettualizzante invece ci per- mette di pensare appunto ciò che non c’è- o meglio, ciò che non ha più, o non ha mai avuto, la forma abituale della pre- senza. Per seguire Lévinas sulla sua strada è bene allora mu- nirsi di strumenti discorsivi adeguati, che consentano non un afferrare (begreifen) o un cogliere (erfassen), ma piutto- sto un abitare, inteso come sosta riflessiva entro quello spa-

zio discorsivo in cui il linguaggio filosofico ospita il para- dosso. Se vi è insomma un’etica postmoderna, questa forse consiste nell’accogliere l’invito levinassiano a ospitare i pa- radossi, cercando di trovare così un nuovo rigore discorsivo per un pensiero che è consapevolmente diverso da ogni pen- siero precedente, compreso quello moderno.26

Ma da quanto si è già detto nel corso della presente analisi appare chiaro che una prospettiva interpretativa come quella testé delineata coglie solo un aspetto, per quanto es- senziale, del discorso complessivo portato avanti da Lévi- nas. Mi pare troppo riduttivo vedere in Lévinas quel filoso- fo che ha avuto il merito di introdurre un pensiero del para- dosso e dell’eccedenza. Lévinas certo si sforza di trovare un linguaggio nuovo, che possa ospitare un’alterità radica- le senza la violenza del concetto.27 Tutto questo sforzo espressivo, però, non può essere isolato dal progetto etico levinassiano preso nel suo insieme. Questa fenomenologia dell’inapparente, del non fenomenico e dell’eccedente vu- ole infatti essere comunque descrizione di ciò che accade quando il soggetto pensa l’infinito. Proprio per questo, il tema dell’infinito va visto come quella premessa necessa- ria introdotta da Lévinas per rendere plausibile il suo di- scorso etico. Non ci sarebbe alcuna necessità, altrimenti, di unire i temi etici (la passività, il volto ecc.) al tema filosofi- co dell’infinito. Pensando l’infinito, penso più di quanto non pensi, entro in relazione con una istanza che eccede la mia padronanza di soggetto pensante. Lo stesso accade quando mi rapporto all’altro, il quale si pone preliminar- mente come ciò che mi costituisce dall’esterno in virtù del- la sua esteriorità. Ma anziché salutare in questo discorso l’inaugurazione di un nuovo pensiero del paradosso, lo ri- badisco, si devono porre a Lévinas le domande seguenti: la mia relazione con l’idea dell’infinito non resta forse di tipo

noetico, se è vero che l’idea dell’infinito è un’idea che io,

qui ora non importa chiedersi se tale afferramento vada in- teso come una Erfassung o come una Anschauung? E sic- come questa esperienza dell’infinito viene letta come la premessa di un pensiero dell’alterità radicale che ha in dio la sua espressione più alta, non ne segue che una certa for- ma di conoscenza religiosa è il presupposto di quella pecu- liare relazione etica di cui ci parla Lévinas?

Qualcuno potrebbe ribattere che già la formulazione di queste domande è il sintomo di una palese forzatura. Dal punto di vista sostenuto da Lévinas, infatti, si potrebbe chiedere: quale noesi può aver luogo allorché il soggetto pensa l’infinito, se per l’appunto l’idea dell’infinito è venir meno del pensiero, è cessazione di quella padronanza noe- tica su di sé e sul mondo che il soggetto solitamente vuole esercitare – violentemente- quando pensa questo o quel- l’oggetto? In realtà, la nostra ipotesi si basa su una consta- tazione ben precisa: il tema dell’infinito viene introdotto da Lévinas sempre in connessione a dei chiari riferimenti a dio, inteso come Colui che si dà a pensare appunto in quan- to infinito. Per Lévinas la presenza di dio nell’uomo, attra- verso la paradossale pensabilità dell’idea di infinito, è ciò che permette l’aprirsi dell’orizzonte etico. Etica e infinito dunque coincidono, coprono lo stesso spazio esperienziale del soggetto: come accogliendo l’idea di infinito mi ritrovo a uscire da me stesso, ad abbandonare la certezza usuale del cogito, così nell’incontro con l’altro faccio l’esperien- za di uno spossessamento radicale, di una perdita di potere. Ma tutto ciò è possibile perché tanto nell’idea dell’infinito quanto nell’incontro con l’altro è riconoscibile un’espe- rienza di tipo religioso. Dio, in quanto infinito, sarebbe co- sì all’origine di quell’apertura del soggetto che, per Lévi- nas, fonda ogni relazione etica.

Per mettere alla prova la nostra ipotesi, torniamo al saggio del 1957 da cui abbiamo tratto le citazioni precedenti, intito- lato appunto La filosofia e l’idea di infinito.

L’idea dell’infinito è il rapporto sociale. Questo rapporto consiste nell’accostarsi a un essere assolutamente esterno. (...) L’esteriorità dell’essere infinito si manifesta nella resi- stenza assoluta che, con la sua apparizione, con la sua epi- fania, oppone a tutti i miei poteri.28

L’epifania di questa esteriorità assoluta che irrompe nello spazio del cogito è il volto, attraverso cui l’altro dirige su di me quello sguardo che mi intima di non uccidere. Questo sguardo proveniente dal volto dell’altro fonda l’etica propo- sta da Lévinas perché nella relazione tra me e il volto altrui non vi è posto per alcun pensare, né per alcuna riflessione. Esperienza primordiale, quella dell’incontro con l’altro fon- da in maniera radicale perché precede il porsi di ogni pen- siero della fondazione. Qui si vede bene perché il tema dell’infinito sia per Lévinas così importante: grazie a esso si rende filosoficamente legittimo e comprensibile il parados- so di una fondazione che non viene compiuta da un soggetto che, riflettendo, trova in sé il logos, la ragione di ciò che de- ve essere fondato. Ma nell’aprire la possibilità noetica (insi- sto su questo termine) dello spossessamento che il soggetto esperisce quando è convocato dal volto dell’altro, questa idea dell’infinito tradisce la traccia di un’altra presenza, di- screta ma non meno importante: quella divina.

È necessario che Altri sia più vicino a Dio di quanto non lo sia Io. Il che non è certo un’invenzione della filosofia, ma il primo atto della coscienza morale che si potrebbe definire come la coscienza del privilegio di Altri rispetto a me.29

La vicinanza del divino, o la presenza del divino nella storia, è inoggettivabile, non si lascia pensare come un oggetto qualsiasi. Ma nella prossimità del volto altrui proprio questa non presenza irriducibile si lascia vedere e in qualche modo esperire. Possiamo dire che sia qui in gioco un conoscere? A dispetto delle asserzioni compiute da Lévinas, la risposta

deve essere positiva. Ciò che qui conosco è precisamente l’inconoscibilità concettuale del divino e mi avvicino così all’etica quale luogo della sua presenza. Come se l’altro fos- se l’autore di una segreta pedagogia, capace di insegnare ciò che i mezzi normali dell’intelletto non riescono a farci con- cepire, nell’esperienza del volto altrui vengo condotto a co-

noscere il divino non più come presenza, ma come assenza e

traccia. Ciò che qui si vuol indicare, è che in questa assenza