Se l’idea di giustizia che invade la decostruzione presenta tratti spaesanti, se il discorso che la nomina è l’articolazione di un desiderio, bisogna innanzi tutto cercare di capire per- ché Derrida non intenda edificare una teoria della giustizia, ovvero una riflessione sulle condizioni di possibilità che ci permettono di definire il giusto e l’ingiusto.
Il punto di partenza consiste nell’assumere come non ovvio il gesto che pretende di decidere circa il giusto e l’ingiusto. Tale assunto consegue dalla necessità di inserire la decisio- ne chiamata a dare corpo all’idea di giustizia in una serie di atti capaci di modificare il corso degli eventi. Innanzi tutto, è in relazione con la sfera del diritto che si mostra il carattere indecidibile di qualsivoglia fondazione della giustizia, di qualsivoglia argomentazione, cioè, volta a giustificare la giustizia delle nostre azioni. Ciò che, beninteso, non ci esi- me da un’argomentazione su questa indecidibilità: altrimen- ti la follia di un’idea di giustizia ingiustificabile non potreb- be davvero essere presa sul serio. In seguito, vedremo come tale indecidibilità operi in seno alla stessa sfera privata, in cui a essere in gioco è la decisione, presa dal singolo indivi- duo, di essere giusto nei confronti dei suoi simili.
Senza un atto giuridicamente determinato, riferito a una leg- ge, nessuna azione potrebbe pretendere di essere giusta.
Anche il comportamento di chi infrange le leggi positive perché in queste vede la violazione di una legge più origina- ria, naturale o divina che sia, fa in ogni caso appello, impli- citamente o esplicitamente, a un sistema di leggi codificate da una tradizione. E quand’anche tale codifica non assuma la forma di una canonizzazione giurisprudenziale, comun- que essa non si dà mai al di fuori di una serie di presupposti teologici, politici, storico-culturali ben precisi. Anche la legge scritta nei cuori ha dovuto essere prima scritta da qual- che altra parte. Fermarsi però a un’analisi di tali presupposti non è possibile: una teoria della giustizia, infatti, aspirando a una valenza universale, non può contenere al suo interno degli elementi che si radicano in una storia, in una tradizione ricostruibile storicamente. Bisogna allora risalire a un’ope- razione pre-giuridica, in grado di fondare la pretesa validità del diritto e del sistema di leggi che di volta in volta permetto- no di qualificare giusto o ingiusto un complesso di azioni. Ed è a questo punto che si rende evidente il carattere indecidibile del gesto fondante. L’operazione che fonda il diritto, infatti, consiste in un «colpo di forza, in una violenza performativa e dunque interpretativa che in sé non è né giusta né ingiusta e che nessuna giustizia, nessun diritto preliminare e anterior- mente fondatore, nessuna fondazione preesistente, per defi- nizione, potrà mai garantire né contraddire o invalidare».4 All’origine della fondazione del diritto dunque si colloca una violenza senza fondamento: sia l’atto che pone la legge, sia l’autorità che la giustifica devono appoggiarsi solo su se stessi. Né illegali né illegittimi, tale atto e tale autorità si pongono in una sfera che eccede l’opposizione tra fondato e infondato. Se ora osserviamo, seguendo le indicazioni di Derrida, da un lato l’atto istitutore di un nuovo ordinamento politico, dall’altro l’atto che fonda uno Stato, si riesce a co- gliere meglio il senso delle affermazioni appena compiute. Nella violenza rivoluzionaria che sospende la continuità storica il diritto precedentemente in vigore viene sospeso
per far posto a un nuovo ordinamento sociale e politico. Il momento rivoluzionario è frutto di una decisione ecceziona- le che rivendica a sé un carattere di novità assoluta. A causa del suo valore inaugurale, la stessa violenza rivoluzionaria si sottrae a qualsivoglia istanza giudicatrice. Il soggetto ri- voluzionario eventualmente può sottomettersi al giudizio di un tribunale divino, nel caso che la rivoluzione sia investita di un particolare valore soteriologico, ma tale sottomissione ha comunque il valore di una sospensione della storia. Al tempo stesso, però, il gesto rivoluzionario radicalizza un di- ritto preesistente, lo deforma, lo metaforizza, ne presenta in maniera più o meno velata delle citazioni. L’istante rivolu- zionario insomma non può mantenersi nella sua purezza: la rivoluzione deve dare vita a nuovi ordinamenti che operano una contaminazione con forme istituzionali e giuridiche preesistenti. Tale contaminazione è necessaria per rendere possibile la stessa riconoscibilità del novum che l’impresa rivoluzionaria intende esprimere. I tratti inaugurali del gesto rivoluzionario allora acquistano un senso solo perché al loro interno opera la dinamica dell’iterazione. E ciò sia perché ogni rivoluzione è la mimesi di altri eventi fondatori ricono- scibili dalla memoria collettiva, sia perché lo stesso ordina- mento giuridico che i rivoluzionari codificano è tale da pro- durre poi quel che la violenza rivoluzionaria era stata in pre- cedenza disposta a produrre. Non essendo solo una festa, dovendo cioè rendere normale quell’inaudito di cui si fa la- trice, la rivoluzione non è mai presente a se stessa: solo le istituzioni che da essa nasceranno potranno legittimare la bontà dell’atto rivoluzionario, in quanto solo esse saranno autorizzate a regolarne l’interpretazione.
Ne risultano due ordini di considerazioni particolarmente importanti. In primo luogo, la violenza fondatrice, la violen- za cioè che accompagna sempre in forme più o meno cruen- te la posizione di un nuovo diritto e della quale un esempio paradigmatico è fornito dalla violenza rivoluzionaria, è la
stessa che conserva i diritti, è la stessa violenza di cui si ser- ve uno stato di diritto per mantenere in vita i propri ordina- menti. Nessuna decisione critica può separare nettamente i due tipi di violenza. In secondo luogo, la struttura temporale propria del gesto fondatore impedisce che lo si caratterizzi come origine pura. Nell’istante in cui esso ha luogo, infatti, si inscrive al suo interno la possibilità della ripetizione. Al tempo stesso promessa e autorizzazione, la fondazione è ri- mando a un futuro che si pone in essere solo attraverso la re- interpretazione della fondazione stessa.5
Entro una cronologia che ruoti attorno al presente inteso co- me origine semplice diviene parimenti impossibile l’inqua- dramento dell’atto giuridico che sancisce la nascita di una nuova entità statuale. Pur essendo concepito come l’atto a partire dal quale soltanto può sorgere ciò che prima di esso non esisteva, non se ne può cogliere pienamente l’artico- lazione se non affermando l’impossibilità di collocare in modo univoco l’istante chiamato a imprimere all’origine il suo carattere inaugurale. Per cogliere questo punto, soffer- miamoci sulle considerazioni compiute da Derrida in margi- ne alla Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’A- merica. I rappresentanti del popolo americano, riuniti in as- semblea, attestano attraverso tale dichiarazione che ha avu- to luogo la nascita degli Stati Uniti, rendono cioè effettiva l’indipendenza dalla madrepatria nel momento stesso in cui dichiarano che tale nascita è avvenuta. Due eventi accadono nel medesimo istante, al punto da risultare indistinguibili: la dichiarazione d’indipendenza e la nascita degli Stati Uniti d’America. Essenziale dunque non è la stesura del docu- mento compiuta da Jefferson, bensì la firma appostavi dai rappresentanti del popolo. Soltanto quest’ultima, infatti, può sancire la validità del documento, la sua effettualità giu- ridica. Altrettanto essenziale, però, è il fatto che quella firma viene compiuta nel nome del popolo americano. I rappre- sentanti non sarebbero tali se firmassero solo per se stessi.
Ma esiste il popolo americano prima di questa dichiarazio- ne, prima di questa firma? In nome di chi firmano i rappre- sentanti del popolo americano se prima di tale firma quel popolo è composto solamente da sudditi di Sua Maestà bri- tannica? Anche qui un’argomentazione di tipo aporetico è necessaria per rendere intelligibile la struttura dell’atto fon- datore. Se la liberazione dagli Inglesi è già avvenuta, il po- polo americano si limita a prendere atto di questa liberazio- ne attraverso la Dichiarazione e noi saremmo autorizzati a definire quest’ultima come un esempio di atto constatativo. Se il popolo si libera nel momento in cui viene firmata la Di- chiarazione, tale liberazione risulta un effetto della firma e noi saremmo autorizzati a definire quest’ultima come un esempio di atto performativo. Ma precisamente questa di- stinzione tra atti constatativi e atti performativi non è qui so- stenibile, perché il popolo americano non esiste,
in quanto tale, prima di questa dichiarazione. Se si dà la vi- ta, in quanto soggetto libero e indipendente, in quanto fir- matario possibile, questo non può che dipendere dall’atto di questa firma. La firma inventa il firmatario. Quest’ul- timo non può autorizzarsi a firmare che al termine, se così si può dire, della sua firma e in una sorta di retroattività fa- volosa. La sua prima firma l’autorizza a firmare.6
Entrambe le situazioni sin qui richiamate, la fondazione del diritto per opera del gesto rivoluzionario e quella dello Stato in quanto legislatore, non possono essere dunque analizzate senza il ricorso a un tipo di argomentazione che deve am- mettere al suo interno un elemento di indecidibilità. E lo sta- to della questione non si presenta in modo diverso se viene presa in considerazione la nozione di giustizia, la quale gio- ca comunemente un ruolo decisivo proprio allorché da un punto di vista teologico o politico si cerca di rispondere gra- zie a istanze extra giuridiche alla domanda circa l’origine del diritto. Nel definire giusto il proprio comportamento o la
decisione che precede e guida l’azione, si deve cioè presup- porre una serie di elementi che al tempo stesso vanificano la compattezza e l’univocità della definizione. E così passia- mo al secondo momento della riflessione derridiana sull’in- decidibilità, momento legato a quella particolare situazione in cui un singolo individuo decide di essere giusto. Derrida individua tre contesti aporetici che, in modo non dissimile l’uno dall’altro, illustrano ciò che accade quando si fa appel- lo alla nozione di giustizia.
Prima aporia: per essere giusti occorre essere liberi e re- sponsabili. D’altra parte, però, non è possibile essere giusti senza seguire una legge, senza riferirsi a un codice di leggi che stabilisce i confini tra il giusto e l’ingiusto. La legge vie- ne in qualche modo reinventata e ricreata ogniqualvolta vie- ne applicata, ma nell’applicare la legge si è sempre soggetti a una istanza che limita la libertà, si è costretti a rispondere innanzi tutto alla legge. Allora nessuno può a buon diritto proclamarsi giusto: al massimo si può dire di aver compiuto un’azione conforme alla legge.
Seconda aporia: non è mai possibile, in senso proprio, pren- dere una decisione giusta. Nel momento in cui si prende la decisione di fare questo o quello, si hanno di fronte due pos- sibilità: o ci si conforma a una regola, oppure si agisce se- guendo i dettami della propria coscienza, del proprio senso di giustizia, della propria ragione, e simili. Nel primo caso la decisione si trasforma in calcolo, e non la si potrà pertanto definire giusta. Nel secondo caso, invece, nulla permette di definire se la decisione presa è giusta o meno.
Terza aporia: ogni azione chiamata a compiere la giustizia deve essere tempestiva, deve essere frutto di una decisione che si sottrae al calcolo, alla previsione, a una considerazio- ne teleologica degli eventi in corso. In ciò ovviamente è im- plicata anche la possibilità dell’errore, della creazione di ca- tene causali di eventi assolutamente indesiderabili. Sottra- endosi al calcolo e alla previsione, la decisione viene intac-
cata dall’irresponsabilità. Questa follia, questa irresponsa- bilità della decisione sono però necessarie al suo esercizio, e questo non solo quando si deve optare tra due o più compor- tamenti per essere conformi al proprio ideale di giustizia. Ogni decisione è pervasa da un elemento indecidibile, che ne impedisce una completa analisi motivazionale.7
Questa indecidibilità e non le aporie in quanto tali costitui- scono però la vera posta in gioco del discorso sin qui rias- sunto. Mostrare l’impossibilità di un ragionamento che non concluda in modo aporetico quando viene ricostruita l’eco- nomia della giustizia, quando l’istanza della giustizia e quella della fondazione si incrociano, non significa per Derrida in- tentare un processo alle intenzioni di chi vuole edificare un’etica prescrittiva. Il problema, piuttosto, è come muover- si all’interno di quelle aporie per spostare a un altro livello il problema in discussione.8Operare questo spostamento si- gnifica innanzi tutto giocare all’interno della differenza tra diritto e giustizia sapendo che dal loro intreccio non è possi- bile uscire.
Per riassumere, proviamo ora a combinare assieme le que- stioni sin qui emerse per mettere in luce il gioco di questa differenza. Per quanto ciascun corpus di leggi debba venire considerato un sistema autopoietico, per quanto il valore di una norma e l’efficacia della sua applicazione comportino l’esclusione di qualsiasi riferimento a elementi extragiuridi- ci, tanto il legislatore quanto chi esercita le funzioni del po- tere giudiziario, nello svolgimento quotidiano delle rispetti- ve professioni, sono costretti a tenere conto di una serie di presupposti che incrociano altre sfere dell’esistere sociale, in primo luogo quella religiosa e quella politica. E ciò non perché sia empiricamente impossibile tenere distinti i vari ambiti della vita collettiva nei quali si dispiega l’esistenza degli umani. È piuttosto per ragioni trascendentali che la giurisprudenza confina con saperi come la filosofia, la sto- ria, la teologia, la psicologia, la psichiatria e la sociologia: la
legge, infatti, è teleologicamente ordinata a una copertura virtualmente totale delle sfere dell’esistenza umana, fino a investire la stessa nozione di vita. Se per qualche ragione si volesse porre un argine a tale trasformazione graduale della vita in fattispecie, si dovrebbe con ciò prendere una decisio- ne che esprimerebbe innanzi tutto la volontà di far giocare di fronte al diritto, o contro di esso, un certo numero di presup- posti filosofici, politici- oppure teologici. Tale decisione mancherebbe però il proprio obiettivo se si esimesse dal ri- conoscere i propri debiti nei confronti del sistema giuridico stesso, il quale per esempio regola in un certo modo la circo- lazione delle idee, tutela i diritti d’autore, rende possibile l’esistenza degli intellettuali garantendo il funzionamento delle Università, permette la libera espressione delle varie credenze religiose, e così via.
Tentare di fare i conti con questo debito sarebbe dunque im- possibile senza dover ammettere, nel contempo, di trovarsi intrappolati in un doppio vincolo. E proprio la nozione di doppio vincolo risulta essere tra le armi più efficaci di cui dispone l’arsenale filosofico derridiano. Nel doppio vincolo ci si trova di fronte a un ordine ineseguibile perché formula- to in modo autocontraddittorio. Gli esempi più banali sono: “sii libero”, oppure: “è vietato leggere questa frase”. Si trat- ta insomma di ingiunzioni formulate in modo tale da co- stringere all’errore qualunque sia il comportamento scelto per farvi fronte. Per difendersi da queste trappole, non resta che accettarne la logica. Poiché solo la confusione tra tipi lo- gici rende simili affermazioni efficaci dal punto di vista co- municativo, è necessario introdurre una spaziatura, una pau- sa, un intermezzo tra i due livelli logici che nell’ingiunzione si presentano invece rappresi e condensati in un’unica frase. In modo non dissimile dal monaco zen che è chiamato non a risolvere i koan, a capire perché la loro formulazione è as- surda, bensì a intravvedere in quell’assurdità il dispiegarsi di un’altra logica nella quale quella usuale può specchiarsi e
riconoscersi diversa, chi si trova a dover maneggiare i doppi vincoli deve rivolgere contro loro stessi la forza e la cogenza di cui sono portatori, con una mossa a sorpresa che confina a volte con l’ironia e il motto di spirito.9
Compreso attraverso la nozione di doppio vincolo lo scena- rio sopra proposto, nel quale è in gioco un certa opposizione al diritto, può essere definito come una compresenza, o me- glio un incrocio di due impossibilità. Da un lato, si ha l’im- possibilità di rinunciare a una critica del diritto e della vio- lenza, a una lotta per l’emancipazione, e dall’altro l’impos- sibilità di operare questa critica e questa lotta al di fuori di una tradizione storica che ci consegna in eredità ciascuno degli strumenti concettuali attraverso i quali viene legitti- mata tanto ogni critica quanto ogni lotta. Si tratta ora di la- sciare a questo doppio vincolo tutto lo spazio di cui ha biso- gno, di accompagnarlo nel suo svolgimento, introducendo però delle pause che, nella loro stessa formulazione, restitui- scano la parola a colui o a colei che, da lontano, comunque dal di fuori, chiede giustizia.
A partire da qui, si coglie assai bene perché l’esercizio stes- so della decostruzione venga sovente presentato da Derrida come messa in scena di una forma particolare di responsabi- lità, come convocazione del pensiero di fronte a ciò che esso non può calcolare né produrre. Solamente questa incalcola- bilità intrattiene un rapporto con la giustizia, al punto che ri- spondere di fronte a essa è il solo modo per rispondere al- l’ingiunzione che la giustizia ci consegna. Articolandosi pe- rò nella forma del doppio vincolo, tale ingiunzione richiede una risposta che, a sua volta, assuma la forma di un doppio movimento.10
Da una parte, vi è per Derrida la responsabilità davanti alla memoria, dunque il compito di un’analisi storica rigorosa di tutti i concetti che organizzano il significato dei valori, delle norme, della giustizia, della legge, del diritto. In questa in- vestigazione minuziosa dei presupposti storici attraverso i
quali si configura la possibilità di invocare la giustizia è in- dividuabile una responsabilità che eccede il rigore delle di- scipline storiche e filologiche, poiché grazie a essa si riceve in eredità al tempo stesso l’ingiunzione della giustizia, il co- mando di essere giusti. Nel tentativo di comprendere da do- ve venga la giustizia si riesce inoltre a focalizzare l’atten- zione sui singoli passi che tale nozione compie nel cammino che la conduce a noi, si riesce cioè a comprendere che l’in- giunzione a essere giusti si esprime sempre attraverso una lingua particolare, che essa si rivolge sempre a delle singo- larità, che essa chiama degli individui a rispondere di fronte ad altri individui, nonostante il suo presentarsi nella forma dell’universalità.
Dall’altra, vi è la responsabilità di fronte al concetto stesso di responsabilità, vi è la necessità di inserirlo nella rete di concetti che ne regolano l’impiego nell’ambito della sfera pratica. Nel sottoporre a un’indagine ininterrotta nozioni come coscienza, volontà, decisione, libertà, autocoscienza, persona, comunità, intenzionalità, proprietà, la decostruzio- ne compie un rilancio infinito della domanda di giustizia. Qui la responsabilità viene sospesa, non revocata. Grazie a quest’epoché, si apre lo spazio della decostruzione, intesa quale revoca dell’ovvietà che caratterizza l’accoglienza dei presupposti che accompagnano l’esercizio della responsabi- lità fino a trasformarli in dogmi.
Così operando, la decostruzione si rivela essere un’espe- rienza angosciante, non potendo assicurarsi contro i rischi del gesto di sospensione che essa stessa pratica. A tal propo- sito, concludendo il passaggio appena riassunto, Derrida scrive:
Ma chi pretenderà di essere giusto risparmiandosi l’ango- scia? Questo momento di sospensione angosciante (...) non può essere motivato, può trovare il suo movimento e il suo slancio (uno slancio questo che non può essere sospeso)
solo nell’esigenza di un sovrappiù o di un supplemento di giustizia, dunque nell’esperienza di una inadeguatezza o di una incalcolabile sproporzione.11
È qui opportuno cogliere esattamente il senso di quest’ango- scia. Sospendere la giustizia perché l’esercizio della deco- struzione non può responsabilmente prescindere da una de- costruzione della nozione di responsabilità comporta, come