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Lévinas e il postmoderno

dell’esteriorità

1. Lévinas e il postmoderno

La figura del parassita evocata alla fine del capitolo prece- dente potrebbe essere utilizzata anche per descrivere il rap- porto che Lévinas intrattiene con la tradizione filosofica. Pre- sentando la propria “filosofia prima” come un corpo esterno rispetto al canone filosofico, Lévinas da un lato rivendica l’eccentricità del suo pensiero rispetto alla tradizione occi- dentale. Il “prima” a cui Lévinas rimanda, infatti, apre una di- mensione di senso che si pone se non al fuori, per lo meno a lato della tradizione filosofica. D’altra parte, al di là dell’in- ventiva metaforica che caratterizza i suoi lavori, al di là della volontà di forzare i limiti della concettualità filosofica, l’ope- ra di Lévinas si lascia interpretare anche come prova del fatto che additare il “prima” da cui sorge l’impensato della metafi- sica non può che essere una riscrittura di ciò che la tradizione ci lascia in eredità. E questa riscrittura sarà sempre un atto pa- rassitario, in cui il debito che si contrae con ciò che si intende sospendere è almeno pari alla volontà che guida e motiva la sospensione stessa. Ora, rispetto al discorso che ci interessa in questo lavoro, confrontarsi con l’opera di Lévinas diviene un gesto quasi ineludibile: l’altrove rispetto al pensiero meta- fisico – quell’altrove grazie al quale Lévinas pensa di poter giustificare come “prima” la sua filosofia – acquista una forte connotazione religiosa. Questa connotazione religiosa, di cui cercheremo di vagliare la genesi in seno alla tradizione del- l’ebraismo europeo figlio dell’assimilazione, ci mette in gra- do di formulare la questione seguente: che ne è del religioso

nell’età del nichilismo compiuto, posto che l’invito a “diveni- re dèi”, compiuto da Nietzsche nella Gaia scienza, non sia stato accolto da masse di seguaci entusiasti? L’assenza di queste ultime, lo si è visto nel primo capitolo, si spiega bene con il fatto che il “divenire dio” auspicato da Nietzsche non ha nulla di giubilatorio, ma è confronto abissale con la fini- tezza del soggetto. Ma tale difficoltà estrema a “vivere” il messaggio nietzschiano invita pure a chiedersi se non sia pos- sibile individuare un luogo religiosamente denso che autoriz- zi ad accogliere la mancanza di fondamenti che il nichilismo comporta senza affrettarsi a compiere quel gesto di autoaffer- mazione dell’umano che, appunto, risulterebbe insopportabi- le per la sua abissalità. Non credo, lo dico subito, che tutta la posta in gioco del pensiero di Lévinas risieda nel suo additare nell’ebraismo quel luogo della tradizione a cui guardare per trovarvi i possibili contorni di un’inedita esperienza religiosa. Ma inserire la “filosofia prima” di Lévinas entro l’orizzonte che la questione posta dalla religione dei moderni dischiude è un’operazione, mi pare, dotata di legittimità: sebbene Lévi- nas si sforzi di non far rientrare la sua proposta nell’alveo del- la “filosofia ebraica”, il primato dell’etica che essa contiene e di cui si fa veicolo difficilmente può essere compreso al di fu- ori della topica ebraica a cui Lévinas costantemente fa riferi- mento, ed è densamente significativo il fatto che tale topica si ponga (e questo proprio nelle intenzioni di Lévinas) come quel luogo altro a partire dal quale giustificare il primato dell’etica rispetto al conoscere. Nell’interpretazione che se- gue – lo anticipo sin da ora – verrà letto come un eccesso l’eccentricità che Lévinas ascrive al suo progetto rispetto a una tradizione filosofica che sacrificherebbe, in un certo sen- so idolatricamente, l’etica sull’altare della conoscenza. Se il primato dell’etica ci porta troppo vicino a Gerusalemme, città orientale, inassimilabile all’orizzonte della polis a cui i mo- derni guardano per delimitare i confini del vivere associato, non per questo però la domanda che Lévinas pone agli abita-

tori della polis risulta eludibile: gli dèi della polis, intesi we- berianamente come valori in perenne conflitto tra loro, sono infatti incapaci di riempire quello spazio simbolicamente vu- oto in cui si dispiega l’esistenza di chi abita il moderno (a me- no che, lo ripeto, non si decida di accogliere nella sua interez- za la buona novella annunciata da Zarathustra). Per questo, confrontarsi con l’eccesso levinassiano serve a delimitare un’area di senso, esperienziale e filosofica assieme, a partire dalla quale sarebbe possibile osservare l’abissalità del moder- no sicuri di non precipitarvi perché trattenuti dalla forza di una tradizione che si vuole più antica del moderno stesso. Se l’ipotesi interpretativa che segue ha lo scopo di valorizzare l’estraneità di Lévinas rispetto al moderno, al fine di porre al moderno domande che altrimenti diverrebbe difficile formu- lare, va preliminarmente discussa quella linea interpretativa che fa invece di Lévinas il pensatore che più di ogni altro può fornire buoni argomenti a quanti, nella tarda modernità, iden- tificano in un’etica dell’alterità il punto di partenza di un pen- siero capace di riempire di senso l’esistenza degli umani. Molti tra coloro che si fanno promotori dell’idea secondo cui oggi noi tutti, volenti o nolenti, ci troviamo a vivere in un’età qualificabile come postmoderna, hanno sempre voluto man- tenere una posizione aperta e dialogante verso il pensiero le- vinassiano. Anzi, secondo alcuni Lévinas potrebbe essere vi- sto come il filosofo postmoderno per eccellenza. Denuncian- do il famigerato nesso tra violenza e metafisica, Lévinas avrebbe innanzi tutto demistificato le pretese totalitarie di quanti ci dicono che esistono cose solide e stabili come la re- altà, la verità e simili- in ciò unendosi, fatta salva l’assoluta originalità del proprio discorso, al coro di quanti in vario mo- do tendono a vedere in ogni ricerca del vero una nascosta vo- lontà di potenza. D’altra parte, avendo stabilito la precedenza della sfera etica rispetto a qualsivoglia posizione d’essere, Lévinas avrebbe anche offerto un’alternativa praticabile all’abissale conflitto delle interpretazioni che inevitabilmente

si spalanca sotto i piedi non appena si affermi che non ci sono fatti, ma appunto solo interpretazioni.

Ora, tale scenario comporta una serie di problemi, che ri- guardano innanzi tutto il rapporto tra l’etica levinassiana e il suo inserimento nel dibattito corrente sulla possibilità o me- no di trovare buoni argomenti a favore di una società giusta – dibattito a cui quanti si qualificano (o vengono spregiati- vamente qualificati) come postmoderni partecipano con acribia e impegno. Una società giusta – e qui mi scuso per la semplificazione estrema e arbitaria – è una società in cui i soggetti sono messi in condizione di negoziare; ciò implica l’esistenza di uno spazio pubblico aperto, neutro, tale da ga- rantire la piena partecipazione di tutti ai processi di negozia- zione. Questo spazio si suppone neutro soprattutto rispetto alle varie forme di appartenenza, in primis quella religiosa, se è vero che la nascita della democrazia moderna coincide anche con una progressiva emancipazione dai caratteri sa- crali del potere – caratteri sacrali che invece hanno trovato una nuova forza e una nuova collocazione in seno ai regimi totalitari del secolo Ventesimo. Certo, l’etica di Lévinas aspira a definire innanzi tutto la pensabilità di ogni possibile relazione tra soggetti e in questo senso Lévinas ha cercato di pensare il luogo da cui anche il politico si origina. Ma pro- prio per questo, in realtà, Lévinas è latore di una proposta te- orica che tocca la sfera politica: ciò che sostanzia la relazio- ne ad altri, centro di tutta la riflessione levinassiana, non sparisce nel momento in cui si accede alla sfera del politico, di quest’ultima diviene anzi momento generatore. Il proble- ma, qui, si pone non appena si cerchi di fare i conti con la provenienza teologica del discorso levinassiano. Può, oggi, un discorso intaccato dal teologico servire da punto di par- tenza per una riflessione organica sulla fondazione del poli- tico? La risposta è senz’altro positiva se l’oggi viene letto a partire dalla nozione di postmoderno. Finita l’epoca in cui una serie di metanarrazioni hanno svolto una funzione deci-

siva quali strumenti di ordinamento del reale, ci sarebbe ora posto per una disseminazione di discorsi, dotati per princi- pio della stessa legittimità, grazie ai quali poter regolare il permanente conflitto delle interpretazioni che caratterizza una società pluralistica, democratica, multiculturale e multi- religiosa. Il discorso religioso, in tale contesto, appare non più come un nemico, ma come uno dei tanti discorsi che tro- vano posto nella città secolare. Anzi, le stesse ragioni che hanno spinto la modernità a combattere preti e teologi sa- rebbero venute meno: se il dio garante dei valori supremi e assoluti è morto, allora non ha più ragione di esistere il fon- damentalismo laico che opponeva a quel dio l’assolutezza della ragione. L’eco ebraica del pensiero di Lévinas, in tale contesto, non disturba minimamente: tale eco non proviene da un’arcaica lontananza, ma si inserisce in un coro di voci in cui c’è posto non solo per una tradizione antica e venera- bile come l’ebraismo, a cui tanto deve la stessa modernità, ma anche per tradizioni un tempo “esotiche” come il bud- dhismo o altre religioni orientali. Ciò che, accettando di mu- oversi a partire da tale prospettiva, si rischia di obliare, però, è il fatto che il clima accogliente e tollerante che caratteriz- zerebbe l’età postmoderna si lascia comprendere solo come frutto maturo della dissoluzione dello storicismo. Grazie a tale dissoluzione va sì perduta qualsivoglia nozione metafi- sica della storia (contro la quale, giova ricordarlo, si mosse con forza Croce), ma ciò che si mantiene è la nozione stessa di storicità, intesa come accettazione della finitezza, della precarietà e dell’infondatezza dell’agire umano. E qui toc- chiamo il punto che ci interessa: di tale storicità nel pensiero di Lévinas non sembra esserci traccia. Precisamente a una disamina di questo aspetto del suo pensiero vuole farsi cari- co l’analisi tentata in questo capitolo. Lo scopo di tale anali- si, in cui cercherò di collocare proprio nelle fonti ebraiche di Lévinas l’impossibilità di un confronto “moderno” con la questione della storicità, è quello, allora, di additare una

profonda incompatibilità tra l’etica levinassiana e il deside- rio di pensare altrimenti la questione dell’alterità che carat- terizza tanta parte del pensiero contemporaneo.

Ma per capire meglio il senso dell’operazione qui tentata, va- le la pena prendere in esame, almeno per sommi capi, alcuni momenti salienti del dialogo tra i fautori del postmoderno e l’etica proposta da Lévinas. Nel suo saggio sugli orizzonti eti- co-politici del postmoderno, intitolato La costellazione po-

stmoderna, Bernstein identifica in Lévinas l’autore che più di

ogni altro ha posto al centro della riflessione sull’etica quella tematica dell’incommensurabilità che connota in maniera pe- culiare il luogo teorico a partire dal quale si possono definire i contorni del postmoderno. Pur non condividendo l’eccessiva insistenza levinassiana sull’irriducibilità del rapporto tra il medesimo e l’altro, Bernstein ritiene che un pensiero come quello di Lévinas sia stato necessario per comprendere più in profondità la “logica” dell’imperialismo culturale e coloniale tesa a ridurre l’alterità dell’altro a una semplice variazione del medesimo. Per Bernstein deve essere pensabile – e quindi praticabile – un rapporto non violento con l’altro, un rapporto cioè in cui l’alterità radicale dell’altro venga rispettata in quanto tale. Ma ciò può avvenire solo prendendo atto del fatto che la relazione con l’altro ha luogo in seno a un orizzonte sempre minacciato dalla possibilità della violenza assimila- trice, sicché noi «non possiamo mai sottrarci alla possibilità pratica reale di mancare di rendere giustizia all’alterità del- l’Altro».1La soluzione allora consisterebbe nella decisione di far proprio un atteggiamento in cui si mescolano il confronto con l’altro e l’accettazione della distanza che ci separa: men- tre riconosco che tra me e l’altro vi è qualcosa in comune, ren- dendo così possibile lo spazio della relazione, attutisco la pre- tesa imperialistica di ridurre la distanza tra me e l’altro, valo- rizzando quella differenza radicale che, in un certo senso, è anche incommensurabilità.

blematica levinassiana entro un contesto fortemente segnato, seppur criticamente, dall’impronta ermeneutica: va bene am- mettere l’alterità radicale dell’altro, ma l’importante alla fi- ne è capirsi, riuscire a costruire uno spazio relazionale prati- cabile. D’altra parte, Lévinas servirebbe da correttivo al- l’hegelismo implicito nella prospettiva gadameriana, in cui il discorso sulla fusione degli orizzonti si presenterebbe co- me un gesto di appropriazione e di assimilazione dell’al- terità. Del resto, pure sul continente vi è stato chi, come Ri- coeur, ha definito “iperbolica” l’insistenza levinassiana sul- l’inassimilabilità dell’altro2, come se l’urgenza maggiore, nel discorso filosofico sull’etica, consistesse non tanto nel pensare l’alterità dell’altro, quanto nel definire meglio i contorni di quello spossessamento che il soggetto subisce quando gli si fa incontro il volto altrui.

Uno scarto rispetto alle prospettive di lettura testé delineate viene offerto dalla posizione di Bauman, che invece vede proprio nella radicalità della posizione levinassiana ciò di cui abbiamo bisogno per pensare l’inedita situazione in cui il soggetto si trova a vivere nell’età postmoderna. Per Bauman, l’imperativo categorico kantiano non basta più: a esso va so- stituita quell’utopia liberatoria additata dal discorso levinas- siano sull’altro. In un mondo globalizzato, ove sono operanti forme inedite di violenza e di sfruttamento, è necessario pen- sare l’asimmetria implicata dalla relazione con altri. Interno a un discorso che mira alla ricostruzione di una politica autono- ma rispetto all’economia, il modo in cui Bauman propone di accogliere l’istanza etica fatta valere da Lévinas tende a enfa- tizzare il divorzio tra etica e morale che sta al centro dell’ope- ra levinassiana. Se è vero che esiste un nesso preciso tra ridu- zione dei valori a quello monetario, tecnologizzazione diffu- sa e insorgenza di nuove forme di controllo totale, va ribadita la priorità dell’etica intesa non come norma e prescrizione, bensì come dono, gratuità, giustizia. Prima di ogni legge e di ogni norma, che alla fine tendono a giustificare e a convalida-

re i rapporti di forza esistenti in seno alla società, si pone il volto dell’altro, nella sua nudità e nella sua inassimilabilità. Di fronte al volto dell’altro, di fronte al comando “non ucci- derai!”, di cui tale volto è muto latore, si può ergere un nuovo tribunale, diverso dal tribunale della ragione, in cui poter tro- vare quegli argomenti di cui oggi si ha urgente bisogno per motivare il proprio rifiuto dello sfruttamento dell’uomo sul- l’uomo esteso su scala planetaria. Proprio qui si rende visibi- le, nel discorso di Bauman, il nesso tra postmodernità ed etica levinassiana. Innanzi tutto, va preso atto che non ci sono più ragioni universalmente valide per argomentare la propria aspirazione a vivere in una società giusta. Tale presa d’atto si regge sia sulla constatazione dell’impossibilità di trovare un accordo accettato da tutti gli attori sui principi ultimi chiamati a fondare l’obbligazione morale, sia sulla mai dismessa attua- lità della critica delle ideologie, grazie alla quale è sempre possibile mostrare che ogni tesi universalistica serve a coprire e/o a legittimare interessi locali, di parte, il più delle volte di natura coloniale e imperialistica. E questa situazione sarebbe precisamente ciò che, secondo Bauman, caratterizzerebbe in modo tipico la postmodernità.3Come seconda mossa, Bau- man afferma con decisione la natura irriducibile dell’istanza etica. Fortemente carica di quell’utopia che pure nasce nel moderno, ma che il moderno sembra non aver saputo realiz- zare, tale istanza etica ha il suo luogo d’origine nella nudità del volto dell’altro.4Insomma, è come se la mancanza di ar- gomenti razionali a favore di una società giusta divenisse, pa- radossalmente, proprio la molla che fa scattare l’esigenza di trovare un nuovo stile di discorso, capace comunque di parla- re alle menti di tutti coloro che, soli come cani, si trovano im- pigliati nelle maglie della società globale. Il volto dell’altro mi chiama alla responsabilità, ovunque io mi trovi e a qualun- que cultura possiamo mai appartenere sia io che l’altro. In questa maniera, tutta l’enfasi posta da Lévinas sulla priorità dell’incontro con l’altro rispetto al conoscere, al razionalizza-

re, al porre categoriale, trova una sua originale giustificazio- ne, che potremmo definire di tipo pragmatico. In sostanza, sembra dirci Bauman, è sempre possibile fare l’esperienza della prossimità con altri come espropriazione della mia sog- gettività. Pure l’invocazione che promana dall’altro intesa quale luogo originario della responsabilità è qualcosa di cui tutti possono avere esperienza. Qui, e non nelle ragioni che posso addurre per giustificare la mia scelta di agire in modo ospitale, benevolo o giusto nei confronti dell’altro, va cercato il fondamento ultimo dell’obbligazione morale.

Rispetto al tentativo fatto valere da quanti tendono a ricon- durre la filosofia dell’alterità di Lévinas entro il paradigma ermeneutico (ciò che inevitabilmente porta a cancellare quanto in essa vi è di più originale), Bauman indubbiamente resta maggiormente fedele agli intenti di quella filosofia. Ma una certa forzatura resta comunque presente. Leggendo

Postmodern Ethics (questo il titolo originale dell’opera qui

discussa) si ha l’impressione che Bauman voglia presentare Lévinas come il campione di quel rinnovamento filosofico che solo può permetterci sia di tenere ferma l’autonomia morale del soggetto, che è conquista irrinunciabile dell’Eu- ropa moderna, sia di liberare gli argomenti a favore di quel- l’autonomia dalle strettoie di una ragione illuministica che oggi ad alcuni appare solidale con tutte le forme di sfrutta- mento che vengono perpetrate su scala globale. Parlerei qui di forzatura perché, come si cercherà di mostrare in questo capitolo, il pensiero di Lévinas mantiene, volutamente e consapevolmente, una certa estraneità nei confronti del mo- derno e quindi nei confronti di ciò che a esso segue- qua- lunque sia il nome scelto per designare tale prosecuzione. La critica delle magnifiche sorti e progressive esaltate dalla ragione illuministica che autori come Bauman portano a- vanti va letta, infatti, come compimento dell’Illuminismo stesso. Per lo stesso Bauman è di primaria importanza poter reperire argomenti atti a giustificare l’aspirazione a vivere

in una società giusta – e precisamente in questa aspirazione consiste la carica eversiva del progetto moderno nel suo in- sieme, di cui l’Illuminismo è parte integrante. Il punto è che Lévinas utilizza argomenti che si richiamano a una tradizio- ne non del tutto compatibile con il progetto illuminista. Nel discorso levinassiano è infatti reperibile, in modo assai chia- ro, la tendenza a giustificare il primato dell’etica a partire da un’istanza di carattere religioso. Precisamente questo aspet- to rende assai problematico ogni tentativo di assimilare il di- scorso sull’alterità portato avanti da Lévinas agli schemi en- tro cui avviene usualmente l’autocomprensione del moder- no/postmoderno. L’infondatezza del discorso etico, chiara- mente affermata quando si dice che tutto comincia con l’e- pifania del volto altrui, non ha molto in comune con l’abisso della ragione di cui parla Kant5– e di Kant tutto si può dire, meno che non avesse a cuore la sorte morale dell’uomo mo- derno. Il presupposto che sorregge la presente analisi è che qui, nell’abisso della ragione kantiano, piuttosto che altrove vada ricercata l’impossibilità di argomentare conclusiva- mente a favore di criteri universali capaci di giustificare l’obbligazione morale.6All’abisso della ragione ci si arriva analizzando i limiti della ragione stessa, a partire da una