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Si può credere ai marrani?

dell’esteriorità

7. Si può credere ai marrani?

Si è lasciata per ultima una domanda finora rimasta inevasa, ma che ha accompagnato segretamente tutto il percorso di lettura dei testi derridiani sin qui compiuto. Si tratta della questione ebraica in Derrida. Come non parlare dell’ebrai- smo di Derrida e in Derrida? Derrida stesso più volte allude all’ebraismo, al peso culturale di una certa tradizione ebrai-

ca- ve ne sono tante, è bene dirlo subito. Dunque una simile domanda pare davvero retorica, perché voler sapere che ne è dell’ebraismo di e in Derrida (e anche che ne è dell’ebrai- smo dopo il pensiero di Derrida) sembra l’espressione di un desiderio più che legittimo.

Per rispondere a questa domanda i punti dai quali partire non mancano. La nozione derridiana di scrittura, innanzi tutto. Da un lato vi è l’attenzione rivolta a particolari appa- rentemente insignificanti, la capacità di desumere dalla fra- se di un testo un insieme intricato di nessi, citazioni sottinte- se, riferimenti a connessioni interne di una tradizione testua- le, vi è insomma una precisa somiglianza con il modo di pro- cedere talmudico che legge e commenta la Torah sempre a partire da una logica che per principio rende impossibile la fissazione univoca di un contesto, la riduzione dei significa- ti possibili a una gerarchia controllabile. Dall’altro vi è l’idea della precedenza della scrittura sulla voce, che ricorda senza dubbio il mito cabalistico della coeternità della Torah all’Altissimo, che unisce in modo indissolubile la vita con l’interpretazione del testo che parla della vita, sottraendo in un certo senso alla figura divina una precedenza rispetto al problema dell’origine.53

Non meno cogenti sono le somiglianze tra una certa idea ebraica di giustizia intesa quale presupposto assoluto del- l’esistenza e l’affermazione secondo cui la giustizia è inde- costruibile. A partire da questo punto di vista, la vita non è né sacra né profana, insomma non abbisogna di alcuna san- tificazione, essendo essa il presupposto ineliminabile della santità intesa come servizio, pratica della giustizia e inter- pretazione interminabile del testo che comanda la giustizia. Sempre presupposta e quindi mai indagabile direttamente, la vita non esiste al di fuori dello studio talmudico, che dal canto suo non insegna a vivere, bensì costringe a una media- zione interminabile tra ciò che nel testo non compare e l’ingiunzione a mantenere salda un’identità basata sulla me-

moria. Persino l’insistenza derridiana sul fantasma trova qui un referente analogico: la connessione tra studio e vita dif- fusa entro un certo ebraismo rabbinico può infatti venir in- terpretata come elaborazione fantasmatica dell’identità, vi- sto che ogni atto compiuto nell’osservanza della legge ha sì un valore in quanto gesto unico e irripetibile, perché da quell’atto può dipendere la vita, ma non può esistere nel contempo al di fuori di una catena di atti che si ripetono sempre uguali di generazione in generazione, atti che atte- stano in questa ripetizione la sopravvivenza di coloro che prima hanno compiuto le medesime pratiche.

Infine, vi è in Derrida un’attenzione tutta particolare nei confronti del Nome divino, che mi pare trovarsi in una stret- ta relazione con l’osservanza del comandamento che impo- ne il divieto delle immagini. Non farsi alcuna immagine di ciò che è nei cieli, né di ciò che è sulla terra, né di ciò che sta sotto la terra significa innanzi tutto non piegarsi all’ido- latria. E vietare l’idolatria non significa solo mettere in guardia contro i simulacri del divino, significa anche invita- re a non ridurre né l’uomo né l’Altissimo a idolo, significa cioè non credere che nel Nome di dio o nel nome dell’uomo sia possibile costruire una società più umana e più giusta. Tanto l’antiumanesimo di Derrida, quanto l’impegno che la decostruzione mostra nei confronti dell’ontoteologia si con- figurano allora come un modo di “fare siepe” attorno al pre- cetto che vieta le immagini.54

Tuttavia, non mi pare opportuno seguire questo tipo di per- corso, perché in una simile impostazione è implicita l’idea che si possa sapere con esattezza che cosa significano e- spressioni come eredità, invio, trasmissione. In altre parole, chiedendosi quali tracce dell’ebraismo sono presenti in Der- rida, si finge di sapere che cosa è esattamente l’ebraismo, quali sono le modalità della sua sopravvivenza al di fuori dell’osservanza dei precetti. E qui non è in gioco solo l’im- possibilità di dominare con sufficiente competenza l’esten-

sione storica e culturale di una tradizione così complessa e variegata, così ricca di contaminazioni che a volte ne rendo- no difficile il riconoscimento. Qui è in gioco, soprattutto, una forma di rispetto verso la memoria, verso i morti, verso una diversità che si vuole irriducibile.

Né può essere taciuta la stessa reticenza di Derrida a parlare del proprio ebraismo, della propria origine.55Reticenza che a volte assume le forme della Verneinung. In un testo significa- tivamente intitolato Comment ne pas parler. Dénégations, Derrida si impegna in un dialogo serrato con la tradizione mi- stica, con la teologia negativa, con il problema dell’indicibi- le, insomma con il luogo dell’origine, e lo fa mettendo an- che in scena, non troppo indirettamente, la propria origine ebraica.56Pur confessando il carattere in qualche modo “au- tobiografico” di questo suo saggio57, Derrida non analizza questo incrocio di tradizioni, si trattiene da un gesto classifi- catorio. Come se la questione più importante fosse proprio la dispersione del Nome divino, il suo disseminarsi nei rivo- li delle sue negazioni. Ora, nel contesto dell’analisi qui ten- tata, è utile cercare di analizzare il modo in cui Derrida si è confrontato con quel “non” che, nella teologia negativa, vu- ole impedire ogni discorso affermativo sul divino. Questo perché, prima di entrare nel vivo della sua analisi, Derrida affronta anche un’altra questione, che tocca direttamente il suo stesso pensiero. Spesso, dice Derrida, si accusa la deco- struzione di essere una sorta di teologia negativa: la diffe- renza, l’imene, il supplemento, il parergon, il pharmakon, ecc. sarebbero tutti modi per parlare del nulla – o, secondo un’interpetazione più malevola, per non dire nulla. Come se fosse una teologia negativa, anche la decostruzione non af- fronta direttamente il proprio oggetto, lasciando intendere che questo è inavvicinabile, indicibile, irrappresentabile.58 A Derrida non interessa certo la versione malevola dell’o- biezione. Piuttosto si chiede questo: se la decostruzione è un modo per continuare e riprodurre in altra forma la teologia

negativa, allora la decostruzione non risulta forse abitata dal Nome divino (Derrida dice “hanté”, che potremmo tradurre anche con “posseduta”), e questo da sempre, segretamente, e soprattutto senza volerlo? Una simile conseguenza parreb- be del tutto pertinente. Ma Derrida nega recisamente che l’intento della decostruzione possa essere equiparato a quel- lo di chi vuole preservare il divino da una troppo facile assi- milazione all’essere degli enti. E questo perché nel “Dio- senza-l’essere” di cui parlano i sostenitori della teologia ne- gativa si nasconde in realtà un rilancio ontologico, una “ipe- rontologizzazione” che non costituisce alcuna alternativa a ciò che Heidegger ha chiamato ontoteologia. Anzi: è verso l’affermazione di una pienezza d’essere che si orienta la teo- logia negativa. È sempre nel nome e in vista di un essere che parlano Dionigi l’Areopagita o Meister Eckhart, e ciò per- ché la forma predicativa non è evitabile, non può venir elusa nemmeno da chi vorrebbe esprimere solo la pura lode del Nome innominabile. E questo essere, la sua presenza in se- no al discorso ontologico, il suo legame con altri discorsi volti ad articolare la differenza tra la negazione e l’affer- mazione, tutto ciò costituisce precisamente l’ambito temati- co in cui si esercita primariamente la decostruzione. Nel corso delle sua argomentazione, Derrida non si limita però a mostrare, testi alla mano, in che modo il discorso sull’al di là dell’essere sia complice di una precisa ontolo- gia, o meglio di una concezione teologica che trova la sua giustificazione ultima nell’analogia entis. Non limitandosi a questo, non riduce il suo discorso alla semplice negazione di ogni rapporto tra decostruzione e teologia negativa. Fa anche dell’altro – ciò che per la nostra argomentazione è ben più interessante. Tenta cioè di ricostruire una genealogia del discorso che nega la possibilità di determinare positivamen- te l’al di là dell’essere. Nel corso di questa ricostruzione, Derrida individua un momento platonico, legato al discorso sulla khora, un momento cristiano, che può esser ricondotto

in maniera esemplare a Dionigi e a Eckhart, infine un mo- mento heideggeriano, in cui si evidenziano i legami tra do- manda sull’essere e interrogazione sul divino. Qui interessa rilevare questo: tali momenti non sono solo le tappe successi- ve di una storia della teologia negativa che attraverserebbe la storia della filosofia occidentale, comprese beninteso le sue derivazioni araba ed ebraica. Certo, la teologia negativa ri- manda a un inizio platonico che intacca e predetermina ogni successiva articolazione del discorso sull’al di là dell’es- sere.59Ma più importante di questa genealogia, più importan- te di questa possibilità di ritrovare il momento generatore di un tema, conta per Derrida la promessa che il gesto platonico contiene. Il discorso sulla khora promette infatti la dicibilità del segreto. Dicendo la khora, nominandola, mettendola a te- ma in quanto indicibile assoluto, Platone articola un discorso sull’indicibile che promette di dire il segreto, che promette di svelare il segreto. Non tanto il segreto sulla khora, ma la strut- tura stessa del segreto: negando la dicibilità di ciò che resta segreto, si afferma la partecipabilità del segreto. Qui è indivi- duabile la possibilità a cui esso dà luogo di istituire una comu- nità, un insieme cioè di persone accomunate da un segreto, da un impartecipabile che si fa tutto in tutti nella forma stessa della sua assenza. Ed è qui che si insinua, secondo Derrida, il teologico, anzi la possibilità stessa del teologico quale atto istitutore di comunità, di luoghi di appartenenza. Luoghi e comunità in cui un altro, in quanto partecipe del medesimo segreto, o forse in quanto portatore del segreto impartecipa- bile, si dona e si comunica. Ma al tempo stesso, nello stesso luogo, in quella khora che istituisce la possibilità di ogni lo- calizzazione, Platone lascia trasparire una struttura che non si lascia ridurre al teologico, una struttura cioè che non è dell’ordine del partecipabile, della partecipazione, della co- munità. Se è vero che non si dà teologia senza una sua fon- dazione nella teologia negativa, è anche vero che il segreto istituito dalla khora fa segno verso qualcosa a cui nessuna

teologia può partecipare: «se il teologico vi si insinua neces- sariamente, ciò non vuol dire che il segreto stesso sia teologi- co».60Ed è a questo luogo altro, si potrebbe dire a questa se- conda negazione del segreto che ne preserva l’impartecipa- bilità senza promettere nessuna comunanza identitaria, che Derrida accomuna piuttosto il gesto della decostruzione. Per Derrida, dunque, nello spazio aperto dalla khora è con- tenuta da un lato la possibilità dell’inglobamento, della riu- nificazione, possibilità che in ultima analisi fonda ogni logi- ca dialettica: non essendo né questo né quello, la khora è tut- to, è il movimento stesso del tempo anacronico che fonda la differenza tra essere e niente. Ma dall’altro la khora è anche quell’elemento iscritto nel cuore dell’ontologia, della dia- lettica e di ogni pensiero del medesimo che fa segno verso il tutt’altro, verso ciò che non si lascia ridurre entro lo schema della riappropriazione. E muovendosi in quest’ultima dire- zione il “né questo – né quello” della khora non potrà mai convertirsi in un “sia questo – sia quello”.61

Il testo Comment ne pas parler presenta una ricchezza che meriterebbe ben altre delucidazioni, tanto più che in esso si trovano temi poi ripresi da Derrida anche in altri luoghi del suo pensiero.62Ma qui interessa soprattutto mostrare il nes- so tra la decostruzione e un certo pensiero dell’eccedenza, che aspira a non farsi inglobare da quell’eccedente per ec- cellenza che è il divino. Se è vero che la khora platonica contiene in sé sia la possibilità del segreto in quanto parteci- pazione, sia la possibilità del segreto come eccedenza, come impossibilità di ogni unificazione inglobante, allora si vede bene come operi e agisca il gesto decostruttivo, che non cer- ca i propri alleati se non nelle pieghe della tradizione, nei lu- oghi in cui il corpus canonico dei testi trasmessi forma delle crepe, delle cesure, delle aperture inedite. E si comincia pu- re a vedere in che senso il discorso sulla khora possa avere addirittura una valenza autobiografica. Mentre si chiede co- me si fa a non parlare della teologia negativa (nei due sensi

dell’espressione: come fare a meno di parlarne e come evi- tare di parlarne per non snaturarla e preservarne così il senso di pensiero del limite), Derrida si chiede anche come fare a non parlare dell’ebraismo, e ciò, pure, in due sensi. Come non parlare dell’ebraismo in seno a un discorso che coinvol- ge in maniera essenziale l’intreccio tra grecità, ebraismo, cristianesimo e islam, dal momento che la teologia negativa attraversa tutte queste tradizioni? Ma non solo. Derrida, in una nota, si chiede anche: come fare a non parlare del pro- prio ebraismo, lì a Gerusalemme, luogo in cui tenne la con- ferenza pubblicata poi in Psyché? Bisognerà pur farlo, una buona volta bisognerà pur parlarne. Ma forse il solo modo per farlo consiste nel parlarne per via negativa, dice Derrida, in un testo sulla teologia negativa, che diventa autobiografi- co proprio nel momento in cui segna apertamente la rinun- cia a parlare troppo direttamente e apertamente.63E credo che si debba prendere molto sul serio questo rimando a un racconto su di sé che viene solo promesso e, così, mantenuto segreto. Se il discorso sulla teologia negativa, e dunque sul- la khora, ci dice qualcosa sulla “questione ebraica” in Derri- da, allora il segreto sull’ebraismo di Derrida non può che re- stare assoluto, inaccessibile.

Ma così non siamo forse al punto di partenza? Qualcuno in- fatti potrebbe dire: in virtù della stessa logica che ne istitui- sce l’inaccessibilità, vi è anche un modo per partecipare a ta- le segreto – questo lo sappiamo perché Derrida stesso ci au- torizza a dirlo. E questa partecipazione non può che avveni- re tramite l’atto istitutore che svela la logica del segreto, cioè la decostruzione. Dunque: l’ebraismo di Derrida – se ve n’è uno – riposa tutto nella decostruzione, nell’atto del de- costruire. E in un certo senso la mimesi della decostruzione, il ripetere in tutti i contesti possibili l’atto del decostruire, ci metterà sempre al riparo da ogni segreto che vuole imporre (segretamente, senza che nessuno se ne accorga) la riappro- priazione e la riunificazione.

Questa conclusione, però, è davvero troppo affrettata (se non erronea ed eticamente inaccettabile, perché la retorica del “siamo tutti ebrei” dimentica un particolare essenziale, che vi sono cioè momenti in cui la differenza tra ebreo e non ebreo si fa sentire sulle carni di chi la rende visibile). Nella decostruzione si cela certo il segreto di un’appartenenza, ma non è l’appartenenza a una inconfessabile comunità di ni- chilisti postmoderni che si fa beffe di ogni appartenenza fat- ta di legami, di tradizioni, di luoghi certi e riconoscibili. Se è vero che la decostruzione conserva un legame inaccessibile e segreto con l’ebraismo, ciò avviene solo in virtù di una di- spersione dell’ebraismo in seno a quella tradizione marcata dalla khora e che accomuna l’ebraismo al cristianesimo e all’islam, e questi al pensiero greco. E se qui il riferimento va alla khora in quanto cifra dell’eccedenza e della non ap- partenenza, deve essere chiaro che mantenersi nel “né que- sto né quello” non comporta affatto la pacificante consola- zione che deriva dall’essersi liberati dal peso della tradizio- ne – ebraica o altro. Altrimenti, la decostruzione sarebbe un metodo tra altri, un marchio di fabbrica inseribile nel merca- to globale della comunicazione intellettuale, da quotare as- sieme ad altri titoli che a loro volta inalberano la bandiera del nomadismo e della diaspora – insomma di un certo filo- semitismo. Estranea a ogni legame con il postmoderno, la decostruzione è messa in crisi di un gesto semplice nei con- fronti dell’identità, dell’appartenenza, della filiazione, della memoria, sia che questo gesto si identifichi con il rifiuto, la rottura, la presa di congedo, sia che esso comporti una riap- propriazione, una rinascita, una ripresa (magari in forma se- colarizzata) di tutto ciò che forma e sostanzia l’identità. Bastarda, forse, come il discorso sulla khora, la decostruzio- ne interroga piuttosto i luoghi della contaminazione. E fa di questa interrogazione il luogo privilegiato di un possibile di- scorso sul rapporto tra religione e modernità. «Siamo Greci? Siamo Ebrei? Noi viviamo nella differenza tra l’Ebreo e il

Greco che è forse l’unità di quello che si chiama storia».64 Questa frase, che si può leggere alla fine del lungo saggio dedicato a Lévinas, Violenza e metafisica, mi pare riassuma bene il modo più corretto – e nel contempo rispettoso – di avvicinarsi alla questione qui trattata. Ma più che il gioco della differenza nell’identità, o dell’identità a partire dalla differenza («Jewgreek is greekjew. Extremes meet», sono le ultime parole del saggio appena citato, riprese da Joyce), è importante la domanda sull’identità, la messa in questione dell’identità, l’impossibilità di venire a capo della questione dell’identità. L’intero rapporto con Lévinas è estremamente significativo al riguardo. Pur accogliendo l’istanza di fondo del pensiero levinasiano, pur partendo cioè dal presupposto che la giustizia sia la relazione con altri, Derrida non ricono- sce mai come specificamente ebraica la questione della giu- stizia. La prossimità al pensiero di Lévinas, che soprattutto nei testi presi in esame nel corso di questo capitolo è molto evidente, non modifica insomma il senso complessivo delle pagine, in qualche modo inaugurali, leggibili nel saggio

Violenza e metafisica.65Nessuna alterità culturale, prove- niente da un suolo non greco, può intaccare il dominio del- l’ontologia, ma non perché l’ontologia sia superiore ad altre forme di pensiero, bensì perché ogni discorso, anche quello sull’alterità, deve prodursi nelle forme del logos, deve veni- re a patti con la violenza originaria di un gesto che pensa sempre l’alterità come una modificazione o uno specchio del medesimo. Se questa necessità della mediazione, per Derrida irrinunciabile, porta a dire che l’incontro con l’altro è impossibile, allora la consonanza con il pensiero di Lévi- nas andrà cercata altrove. Proporrei di vederla nell’assunto secondo cui il rifiuto di ammettere l’esteriorità nel testo, il rifiuto di avvicinare direttamente ciò che potremmo definire la fatticità empirica dell’incontro con l’altro, non discende solo dalla necessità filosofica di portare fino in fondo l’impostazione trascendentale, cioè dalla necessità di revo-

care la presenza a sé che ogni pensiero dell’esperienza pre- suppone, ma discende pure da una necessità etica. L’ec- cedenza può essere avvicinata solo indirettamente, attraver- so una deviazione, un’obliquità del pensiero che a tale ecce- denza fa posto solo attraverso la forma del fantasma. L’ec- cedenza insomma deve restare tale, e in questo dovere si gioca tutta l’etica della decostruzione, che diviene esercizio, pratica, negazione radicale di ogni parenetica e di ogni con- solazione filosofica, e dunque preparazione all’arrivo del