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La storia come ritorno dei fantasm

dell’esteriorità

4. La storia come ritorno dei fantasm

Sopra si è parlato di incorporazione fantasmatica per defini- re metaforicamente il motivo che spinge Derrida a parlare di fenomeni vicini al nostro vivere quotidiano in modo tale da escludere, nel contempo, ogni riferimento all’immediatez- za. Se ora volgiamo la nostra attenzione a Spettri di Marx, un lavoro di poco posteriore a Force de loi, è precisamente con la nozione di fantasma che siamo chiamati a fare i conti. Da un lato l’esigenza di portare alle estreme conseguenze la messa in mora del presente vivente, dall’altro il moto centri- peto dell’esperienza del tempo una volta che questa non venga più concepita grazie all’uso di concetti come quelli di storia o di epoca: questi, in sintesi estrema, i punti di parten- za della riflessione derridiana allorché si rende necessario introdurre una nozione, come quella di fantasma, che sfugge a ogni rigore concettuale. Il fantasma, infatti, nomina l’in-

crocio tra questi due aspetti, essendo chiamato a immettere nel seno stesso della soggettività una disarticolazione che proviene da un passato immemoriale. Rilanciando il caratte- re indecidibile della nozione di traccia, che non è né trascen- dentale né empirica, il fantasma attesta la sopravvivenza della storia, non più garantita da alcun pensiero della totali- tà, all’interno di ciò che la metafisica pensa attraverso la no- zione di immaginazione trascendentale (dal phantasma del terzo libro del de anima aristotelico allo schema trascenden- tale della Critica della ragion pura kantiana). Tale opera- zione viene compiuta attraverso un ricupero del messiani- smo, o meglio dell’idea di temporalità che l’attesa messiani- ca inaugura. È un’idea di temporalità, questa, che qui ben si presta a fornire al discorso derridiano un supporto efficace, in quanto risulta idonea a indicare una possibile apertura nei confronti di un’ulteriorità non più comprensibile come futu- ro, cioè come modificazione della presenza. Cercheremo ora di esplicitare la novità che il gesto derridiano contiene, la quale consiste proprio nello sforzo di pensare una storici- tà senza genealogia né teleologia.

Solo in un tempo anacronico, disaggiustato, “out of joint” come lo definisce l’Amleto shakespeariano, solo in un pre- sente mai contemporaneo a se stesso è reperibile il presup- posto grazie al quale poter fare spazio – oggi – a un discorso sulla giustizia, grazie al quale, cioè, dei discorsi possano pro- vocare una trasformazione in seno alle pratiche. L’intreccio che Derrida imbastisce tra questi due temi, quello del tempo e quello della giustizia, comporta uno spostamento comple- to rispetto all’impostazione usuale del problema. Anziché opporre tra loro storie buone e storie cattive, anziché trovare in un determinato percorso genealogico la giustificazione delle scelte più efficaci e più giuste, anziché insomma porre il presente come la ricapitolazione di questa o quella rico- struzione del passato, proprio l’impossibilità di una teleolo- gia, la disarticolazione del tempo, la non contemporaneità a

sé del presente vanno accolti come l’annuncio della possibi- lità della giustizia. Solo l’assenza della teleologia, infatti, fa sì che questa possibilità si accompagni costantemente al suo opposto, alla minaccia dell’ingiustizia, e permette quindi un’esperienza della giustizia come dono, gratuità, dispendio.

La disgiuntura non è la possibilità stessa dell’altro? Come distinguere tra due disaggiustamenti, tra la disgiuntura dell’ingiusto e quella che apre la dissimmetria infinita del rapporto all’altro, cioè il luogo per la giustizia? (...) “La re- lazione con altri – cioè la giustizia”, scrive Lévinas. Che lo sappia o no, quando esclama “The time is out of joint” Am- leto parla nell’apertura di una simile questione – l’appello del dono, della singolarità, della venuta dell’evento.20

Con un gesto che a prima vista può apparire bizzarro, pro- prio all’interno di questa prospettiva Derrida propone di far posto all’eredità marxiana, ovvero all’elemento incancella- bile di questa eredità. Essenzialmente al nome di Marx, in- fatti, va legata l’idea di una giustizia radicale, estranea al di- ritto, che può spezzare la continuità storica e inaugurare uno scenario inaudito. Riproporre il pensiero marxiano, o me- glio uno degli spiriti del marxismo, uno dei fantasmi che lo abitano, significa qui, soprattutto, ricuperare il tratto mes- sianico che lo caratterizza. In questo tratto messianico sono essenziali tanto l’idea di un avvenire che non può essere pre- parato o predisposto, che irrompe invece nel tessuto della presenza come evento, come arrivo del tutt’altro, quanto il venir meno di un messianismo riconoscibile, legato a una tradizione determinata. Questo non significa che la deco- struzione sia definibile come marxista: né marxista né anti- marxista, la decostruzione intende radicalizzare un certo spirito del marxismo, al di là di ogni ortodossia costruitasi nel nome di Marx.21

Se la critica illuminista non poteva vedere la natura mitica della sua critica al mito, non poteva dominare la sua paura

dei fantasmi, o il suo orrore mitico per il mito, Derrida invita invece a lasciar entrare, e non come ospite sgradito, l’istan- za messianica che fornisce la pensabilità di una giustizia che si sottrae al calcolo, che precede ogni diritto. Nel far questo, l’istanza illuministica va comunque mantenuta, con lo sco- po dichiarato di ripetere il gesto fondatore della modernità. Il messianico va spogliato di ogni messianicità e di ogni messianismo, cioè della possibilità di veicolare questa o quella idea di Messia. Il messianico allora assume dei tratti quasi trascendentali: prima di ogni forma storica dell’attesa, prima che si annunci questo o quello, prima di ogni promes- sa di pienezza, prima dell’annuncio di qualsiasi eschaton, si dà una struttura generale dell’apertura, dell’attesa, dell’an- nuncio. Questa struttura, mai del tutto dominabile concet- tualmente, è ciò che scardina il tempo, è ciò che permette di pensare il disaggiustamento del tempo, è ciò che permette di avvicinarsi all’inqualificabilità del nostro presente senza far ricorso a formule precostituite, viziate da pregiudizi - se non altro dal pregiudizio che il tempo storico abbia un senso e che questo possa un giorno compiersi, quando per esempio tornerà il Cristo, oppure quando tutto il mondo si aprirà al li- bero mercato, oppure quando saranno abolite le classi socia- li e la proprietà privata, quando insomma qualcosa, qualcu- no (in carne e ossa, non un fantasma) arriverà.

Le affermazioni circa l’indecostruibilità della giustizia e la coincidenza di giustizia e decostruzione analizzate nei para- grafi precedenti di questo capitolo ricevono così una signifi- cazione ulteriore.

Quel che resta irriducibile a ogni decostruzione, quel che resta indecostruttibile quanto alla possibilità stessa della decostruzione, è forse una certa esperienza della promessa emancipatrice; è forse addirittura la formalità di un messia- nismo strutturale, un messianismo senza religione, anzi un messianico senza messianismo, un’idea della giustizia -

che teniamo sempre distinta dal diritto e persino dai diritti dell’uomo – e un’idea della democrazia – che teniamo di- stinta dal suo concetto attuale e dai suoi predicati determi- nati oggi.22

In tal modo l’indecidibilità della giustizia si chiarisce quale cifra di un’esitazione prima dell’agire, di una vigilanza sulla precipitazione che ci spingerebbe ad agire subito, troppo in fretta. Soprattutto diviene qui il nome di un’attesa, di un’a- pertura disarmata verso il futuro, verso ciò che non ci si aspetta, verso ciò che non può essere compreso prima che arrivi, prima che accada, invitando a un’accoglienza di colui o colei che arriva dal futuro, comunque da altrove, da un po- sto che non abbiamo mai visitato, e che nemmeno visiterem- mo mai- forse perché ci fa un po’ paura, perché ci inquieta. Non c’è giustizia senza la promessa di un incontro inatteso, senza l’apertura a un evento promesso e annunciato. Ma an- nuncio e promessa vogliono dire anche possibilità del ritar- do, del differimento. Non è calcolabile il tempo dell’attesa, anche se, è chiaro, esso viene vissuto con impazienza, nel- l’angoscia. Della giustizia o si ha ansia, o non la si avverte nemmeno come un bisogno. D’altra parte, c’è da dubitare che un tempo pieno, una pienezza dei tempi, porterebbe con sé la giustizia tanto attesa e auspicata: se tutti i conti tornano, probabilmente qualcosa andrebbe perduto, qualcosa di trop- po precario, di irriducibilmente finito verrebbe cancellato. Non a caso, del Messia il profeta dice che «non spezzerà la canna incrinata, non spengerà lo stoppino dalla fiamma smorta» (Is 43, 2).

È qui decisivo sottolineare, infine, come Derrida insista sempre su una necessaria indeterminazione del messianico: non appena esso dovesse assumere i tratti di un messiani- smo concreto, riconoscibile, spendibile nel nome di un valo- re, nel nome di una buona causa, individuale o collettiva, in quel preciso istante diverrebbe inudibile la voce di chi recla-

ma e attende giustizia. Confusa nel frastuono delle voci che annunciano questo o quello, la voce di chi chiede giustizia scomparirebbe.

Da quanto sin qui detto, si possono trarre intanto due consi- derazioni particolarmente interessanti per isolare il rapporto che la decostruzione intrattiene con il presente, con le que- stioni che oggi rendono urgente una ridefinizione dei para- mentri concettuali atti a pensare l’attualità. In primo luogo, emerge la necessità di ripensare il rapporto tra il teologico e il politico. Nessuna politica, nazionale o internazionale, nessun concetto del politico, ma neppure alcun programma politico-elettorale, potrà liberarsi completamente dal teolo- gico. Da qui la necessità di una continua vigilanza, di un la- voro interminabile di decostruzione dei presupposti ininda- gati del politico. La seconda considerazione è strettamente conseguente. Di miti ce n’è più d’uno. E non sono tutti uguali. Non vi è un unico messianismo, non vi è un’unica escatologia, così come non vi è un unico monoteismo. Ogni discorso universale, a maggior ragione l’universalità che ac- quista il tono soteriologico, l’universalità che annuncia una qualche salvezza (e la salvezza è per definizione universale) trae sempre origine da un’istanza particolare, storicamente determinata, interessata a preservare la propria specificità e peculiarità. Nessun discorso, neppure il più laico, il più illu- minista, come quello per esempio sui diritti umani, sfugge a queste contaminazioni, sfugge cioè a una determinazione precritica, a un commercio con i fantasmi di una tradizione che abbiamo ereditato e che, come tutte le eredità, dobbia- mo gestire consapevoli della natura ambigua di ogni lascito. Va però tenuto presente che questa vigilanza sulla contami- nazione tra mito e politica, che Derrida presenta attraverso una ripetizione e uno spostamento dell’istanza di giustizia che il messianismo contiene, viene resa possibile dalla figu- ra del fantasma. Grazie a essa si riesce a pensare tanto la contaminazione tra messianismi, quanto l’eliminazione del

carattere religioso del discorso messianico che veicola l’istanza dell’emancipazione e della giustizia. Ed è qui che si rivela decisivo il modo in cui Derrida si accosta al testo di Marx. Nel suo dialogo con Stirner, o meglio nel tentativo di neutralizzare le istanze strirneriane, Marx crede di dominare il fantasma, crede di sapere bene qual è la differenza tra Ge-

ist e Gespenst. Ne va di una certa lettura di Hegel, della pos-

sibilità di appropriarsi in modo corretto dell’eredità di He- gel. Tuttavia, l’intera analisi della merce condotta nel primo libro del Capitale non potrebbe aver luogo senza una teoria del fantasma, senza una ben precisa contaminazione di spet- tralità e spiritualità. Certo Marx, come Stirner, vorrebbe far- la finita con lo spettro, vorrebbe ricondurre il travestimento fantomatico delle merci alla loro realtà materiale. Una volta convocato, lo spettro non si lascia però dominare così facil- mente: secondo Derrida, nessuna critica dell’ideologia, nes- suna critica del feticismo, nessuna distinzione tra valore di scambio e valore d’uso può essere pensata senza una preli- minare contaminazione con la spettralità, con un dominio che precede la distinzione tra materiale e ideale, effettuale e fittizio. Tutta l’esegesi derridiana di questi luoghi marxiani si impegna dunque a mostrare che lo spettro non è una figura tra le altre, scelta per gli effetti retorici ai quali può dare luo- go, ma è la condizione di possibilità dell’impostazione mar- xiana dei rapporti tra spirituale e materiale.23 E proprio all’interno di questa lettura la questione del fantasma e quel- la del messianico si incrociano in modo peculiare. Innanzi tutto, Derrida mostra come il fantasma sia «il fenomeno del- lo spirito»24, ovvero come ogni analisi del reale, sia essa di tipo fenomenologico, materialistico o dialettico, debba sem- pre presupporre la spettralità: prima di ogni distinzione tra spirituale e materiale, tra verità e ideologia, tra astratto e concreto, occorre infatti presupporre un fantasma che tenga il posto della datità e che si collochi a metà strada tra questa e la soggettività. Grazie al fantasma può essere pensata tanto

l’apparizione di ciò che include l’esteriorità attraverso un’e- sclusione dei tratti empirici che la caratterizzano, quanto l’immaterialità che il corpo di quest’apparizione deve pos- sedere per poter fungere da correlato dell’esteriorità in seno alle strutture del soggetto conoscente.

Né materiale né immateriale, il fantasma ossessiona – per esempio – la filosofia trascendentale e la fenomenologia nel momento in cui queste articolano la differenza tra trascen- dentale ed empirico attraverso le nozioni di schema e di noe- ma. Lo sforzo che viene compiuto per allontanare il para- dosso che portano con sé tanto lo schema quanto il noema autorizza qui a parlare di ossessione, se è vero che i fantasmi non sono mai così visibili come durante gli esorcismi com- piuti per cacciarli. E va notato che i riferimenti compiuti qui da Derrida alle filosofie trascendentali hanno un valore stra- tegico essenziale: tali questioni non si trovano inserite ca- sualmente in un testo che non ha altro scopo se non quello di ripensare la relazione tra decostruzione e giustizia attraver- so un dialogo serrato con Marx e attraverso la proposta di un messianico senza messianismo; se il fantasma serve a offrire uno spazio ai paradossi di ogni filosofia trascendentale, ciò non accade forse perché tale nozione «inscrive la possibilità dell’altro e del lutto direttamente nella fenomenicità del fe- nomeno?».25Il fantasma, in altre parole, obbliga a conside- rare la padronanza di sé che precede ogni relazione con l’esteriorità come un insieme di ripetuti e abituali tentativi di copertura delle fratture, mancanze, e perdite che abitano la soggettività. Più che padrone in casa propria, il soggetto è ospite di una casa infestata dai fantasmi, dalle tracce di un passato che continua a vivere non attraverso atti di rimemo- razione, bensì attraverso la coazione a ripetere uno scenario già sempre abitato dall’alterità, già sempre invaso da strutture relazionali. Si capisce allora come mai Derrida si sia mosso verso il tentativo di unire la gnoseologia fenomenologica all’istanza etica fatta valere dal messianismo di Marx: se la

stessa costituzione dell’ego non fosse un processo fanta- smatico, nessuna accoglienza del tutt’altro sarebbe possibi- le, nessuna ripetizione potrebbe produrre differenze, nessu- na fessurazione del presente potrebbe divenire la piccola porta attraverso cui entra il Messia.

Dovrebbe ora risultare più chiaro in che senso alla figura del fantasma debba venire associata quella del Messia, in che senso, cioè, l’apertura all’esteriorità in cui appare l’altro debba venir descritta attraverso lo scenario reso possibile dalla nozione di messianico. Apertura all’altro, lo si è appe- na visto, vuol dire riconoscimento della non padronanza, dell’impossibilità di dominare il luogo proprio attraverso un gesto che certifichi l’identità egoica nel presente vivente dell’autocoscienza. Questa apertura è commercio con i fan- tasmi, è spaesante incontro con un’alterità che precede ogni incontro con l’altro in carne e ossa, è insomma assenso a un orizzonte di determinazioni che rendono impossibile l’im- mediata accoglienza dell’altro. Se questo assenso diviene ospitalità e accoglienza, ciò non dipende da una buona vo- lontà impegnata a spezzare le catene dell’identità. Al con- trario, dipende da una vigilanza sul potere di fascinazione del fantasma, da una sospensione dell’identificazione dei fan- tasmi dell’identità con colui o colei che irrompe nella sfera del proprio. Quest’apertura all’evento, all’avvenire, all’arri- vo dell’altro, è un’apertura di tipo messianico perché non è pensabile in termini di proprietà o di appropriazione, perché addita un insieme di presupposti che si collocano in una di- mensione che eccede lo spazio del diritto e delle configura- zioni filosofiche con esso solidali. Nomadica e desertica, l’attesa messianica in quanto tale invita a un’uscita dalla po-

lis, a una sospensione delle leggi che regolano l’ospitalità,

che stabiliscono tanto i confini tra il proprio e l’estraneo quanto i confini tra i diritti dei cittadini e i diritti degli stra- nieri. È in questo senso che tale attesa può essere collocata all’origine dell’utopia e di ogni volontà di trasformazione,

poiché solo in tale attesa si lascia riconoscere il tratto distin- tivo della giustizia. Associare il problema della giustizia con l’attesa messianica diviene produttivo, però, solo se la so- spensione delle leggi del proprio ha luogo nel riconoscimen- to della loro sopravvivenza fantasmatica, se viene a patti con la loro incancellabilità. Una sospensione totale, infatti, porterebbe alle peggiori violenze, introdurrebbe, nel nome di una giustizia altra e superiore, un ordine garantito da leggi immodificabili perché non più bisognose di commento e in- terpretazione. Spogliare il messianico di ogni messianismo risponde alla necessità di impedire che l’idea di giustizia di cui il messianismo è latore venga trasformata in giustifica- zione della violenza. In definitiva, il messianico indica la trasformazione del messianismo in fantasma, la sopravvi- venza fantasmatica dell’appello alla giustizia che l’attesa messianica contiene.