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Fare filosofia per amore della giustizia

Invincibile per ogni scetticismo, (...) questa “idea della giustizia” sembra indistruttibile nel suo carattere afferma- tivo, nella sua esigenza di dono senza scambio, senza cir- colazione, senza riconoscenza, senza circolo economico, senza calcolo e senza regola, senza ragione o senza razio- nalità teorica, nel senso del controllo regolatore. Vi si può dunque riconoscere o denunciare una follia. E forse un’altra sorta di mistica. E la decostruzione è folle di que- sta giustizia. Folle di questo desiderio di giustizia. Questa giustizia, che non è il diritto, è il movimento stesso della decostruzione all’opera nel diritto e nella storia del diritto, nella storia politica e nella storia tout court, ancor prima di presentarsi come quel discorso che viene chiamato così, in ambito accademico o nella cultura del nostro tempo: il “de- costruzionismo”.1

Bisogna prendere sul serio questa affermazione? Oppure si può passarvi sopra, considerarla semplicemente l’indice di un’enfasi eccessiva, per concentrarsi poi su ciò che Derrida ha scritto sulla giustizia, a proposito della giustizia, in vista di una teoria della giustizia? Rischiando una certa precipita- zione, dico subito che alla prima domanda occorre risponde- re affermativamente: il folle desiderio di giustizia che abita il pensiero di Derrida va preso molto sul serio. E ciò non perché nell’ultima fase della sua produzione Derrida abbia sentito sempre più spesso il bisogno di mettere in questione in modo più diffuso – e meno allusivo rispetto ai testi dei

primi anni – alcune forme peculiari dell’intreccio che lega la filosofia al diritto, alla politica, all’etica, alla religione. Non credo si possa dire, in altre parole, che “decostruzionismo” è il nome di un itinerario filosofico che, nell’arco di oltre un quarantennio, passa da un tentativo di smontaggio della concettualità filosofica tradizionale, praticato attraverso un’arte interpretativa che molti non esiterebbero a definire avventurosa, a una immistione di temi e problemi di natura etico-politica nel tessuto di quella che, per molti, è stata ed è una variante della koinè ermeneutica. Il trattamento che i te- mi etici, politici e religiosi subiscono nel contesto della de- costruzione porta necessariamente al rifiuto di un simile as- sunto. L’ipotesi che cercherò di articolare nel presente capi- tolo è allora la seguente. L’interesse mostrato da Derrida per la questione dell’agire, ovvero per l’etica intesa quale punto di incrocio tra presupposti di natura politica e presupposti di natura mitica e teologica, non si aggiunge a una riflessione in qualche modo conclusa su temi come la scrittura, la trac- cia, la differenza, la traduzione; tale interesse, che si è per lo più condensato attorno alle nozioni di responsabilità e giu- stizia, sviluppa invece le coordinate strategiche di un dise- gno che si pone un duplice obiettivo: da un lato, mostrare come nel cuore della questione ontologica siano all’opera ben precise premesse empiriche, storiche, culturali, dunque politiche, giuridiche e teologiche; dall’altro, mostrare come l’acquisto di una certa familiarità con questo insieme di macchie empiriche nella purezza della sfera trascendentale possa diventare il modo più efficace, più proficuo, più giu- sto per mettere ancora una volta in moto, oggi, quel disposi- tivo retorico e gnoseologico che volentieri continuiamo a chiamare filosofia, in modo tale da rendere persuasivo un discorso globale sulle pratiche del mondo della vita. Questo rimando al mondo della vita mi pare importante per chiarire meglio il senso di questa duplice strategia. Il lavoro della decostruzione comporta una messa in mora della pos-

sibilità che nel discorso filosofico si rendano visibili tanto una forma di saggezza in grado di padroneggiare da un pun- to di vista superiore il senso delle pratiche che concorrono a formare il mondo della vita, quanto un eventuale senso della storia in grado di fornire un’adeguata cornice per l’intelligi- bilità ultima di quelle stesse pratiche. Portare avanti una ri- flessione sull’etica che preliminarmente intenda non assu- mere in modo ovvio gli strumenti concettuali che permetto- no di ricostruire il senso dell’agire e della sua storicità signi- fica certo dover incagliarsi ben presto su di una barriera di aporie. Ma tali aporie vanno pure prese molto sul serio, co- me va presa sul serio la natura paradossale del pensiero che tenta di esprimerle. E ciò non certo in vista di una malaccor- ta difesa della decostruzione dagli attacchi di chi ritiene il paradosso un errore logico, che andrebbe estromesso dal te- sto filosofico con la stessa facilità con la quale il testo lette- rario o mistico lo accoglie. Al contrario, si tratta di rendere manifesta la persuasività della scelta compiuta da chi decide di navigare in un mare di aporie. Questa navigazione non è resa possibile dal fatto che la decostruzione abbia in dota- zione carte nautiche migliori rispetto ad altre opzioni teori- che, né dal fatto che il suo timoniere possieda uno sguardo filosofico più penetrante.2Se si decide di prendere sul serio la decostruzione, se si affronta l’imbarco per il viaggio da essa intrapreso, si rende palese la struttura aporetica di ogni approdo metafisico segnato dalla volontà di padroneggiare i paradossi dell’agire attraverso una serie di dispositivi con- cettuali che si presumono neutri rispetto alle pratiche. E con ciò si tocca il nocciolo della questione. Se è vero che un si- mile rendere conto ha troppo in comune con una resa dei conti, va aggiunto subito che anche la decostruzione a sua volta intrattiene un certo rapporto con la padronanza. Solo che di questa viene offerta piuttosto una mimesi, una dislo- cazione diversa. Nel rendere palese l’aporeticità dell’idea metafisica di padronanza affermando di volta in volta l’im-

possibilità di un’assenza assoluta di presupposti, si tratta di attraversare da cima a fondo questa aporeticità in quanto qui e non altrove è possibile la pratica dell’esercizio filosofico. Al tempo stesso, si tratta di rendere comunque avvertibile una dislocazione diversa, forse meno violenta, dei presup- posti metafisici (cioè ontoteologici) che ci permettono di ar- ticolare un discorso sulla vita e sul vivente, grazie a un gesto che sembra (o che si vuole) tanto poco sottomesso alla vo- lontà di un autore quanto poco la violenza della metafisica può essere imputata a questo o a quel filosofo.3

Apparirà chiaro che la strategia della decostruzione, nel suo voler essere esperimento, innovazione, incontro con il limi- te estremo dell’argomentazione filosofica, è anche esposi- zione della filosofia all’eccedenza. Un punto, questo, che nelle considerazioni seguenti giocherà sempre un ruolo centrale. Solamente perché pone se stessa in rapporto a que- sta eccedenza, la decostruzione intreccia un legame amicale con lo spaesante scenario che si apre dinanzi a chi ha deciso di porre il luogo stesso dell’etica nell’esibizione delle aporie del pensiero. Inserito in una catena interminabile di media- zioni, escluso da una prensione diretta, ciò che si pone al di fuori del sistema testuale che, simile alla borgesiana bibliote- ca di Babele, costituisce la condizione di possibilità dell’espe- rienza, ciò che insomma eccede il pensiero, si pone nel tes- suto dei testi derridiani non più dinanzi agli occhi, non più dunque come l’oggetto del desiderio della metafisica. Piut- tosto affetta la decostruzione dall’interno, ne rende inquieto il lavoro – che è e deve restare confinato alla testualità. In tal senso, prendere sul serio il desiderio di giustizia che fa impazzire la decostruzione mi è parso uno dei modi più di- retti per esibire quale significato possa avere la pratica deco- struttiva inaugurata da Derrida per una delucidazione del rapporto tra religione e modernità. Non più luogo della fon- dazione ultima, il divino che accompagna il cammino del soggetto moderno, nella prospettiva di Derrida, è metafora

di una perdita, di un senso non più appropriabile. Il suo dile- guarsi nelle pieghe della memoria (una memoria ebraica, al- meno fino a un certo punto) fa della decostruzione, che di- viene luogo privilegiato della rimemorazione, un percorso che è anche intriso di una profonda pietas – una pietas che è tutta giocata, però, negli interstizi di una discorsività filoso- fica che alle risurrezioni fantasmatiche di tale divino nulla vuole concedere.