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Gli schermi hanno invaso il nostro panorama, visivo e non solo

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 107-117)

Schermi di computer, schermi televisivi, console per giochi elettronici, telefo-ni più o meno intelligenti, tavolette interattive, lavagne interattive, lettori di libri elettronici rappresentano altrettante interfacce per altrettanti modi di in-teragire con immagini e suoni. Ognuno di essi ha un suo modo di sollecitare il nostro cervello, di scontrarsi coi suoi limiti e sfruttarne le possibilità. Comu-nicare e giocare grazie a piattaforme sociali in rete, frequentare cosiddetti “mon-di virtuali” o sale “mon-di cinema, equivale a innescare le capacità “mon-di analizzare informazioni impacchettate in diversi formati, distinguere tra realtà e fantasia, reagire emozionalmente ma non fisicamente. Benché ancora giovani, le scien-ze che studiano la cognizione, l’apprendimento, le emozioni, come dei feno-meni d’ordine naturale, possono venire in nostro aiuto per capire se e come queste attività stanno “modificando” il nostro cervello in maniera radicale, ri-connettendo i nostri circuiti in configurazioni inedite e trasformando la nuo-va generazione in una generazione di mutanti.

Tuttavia lo studio del funzionamento della mente e del cervello non è suf-ficiente a rispondere a domande come: le immagini violente ci rendono più violenti? Si può diventare dipendenti da videogiochi? O più intelligenti con un programma di allenamento per il cervello? Le risposte a queste domande ci in-teressano perché ci possono aiutare a prendere buone decisioni e a valutare cor-rettamente se gli appelli al panico e all’entusiasmo nei confronti delle tecnologie e degli schermi sono giustificati. La maggior parte di queste risposte riguarda del resto fette importanti della popolazione, se non la sua quasi totalità. Alme-no una volta a settimana, per esempio, il 97,4% della popolazione italiana guar-da la televisione (che si tratti di tv analogica, digitale terrestre, via web o mobile);

il 79,5% usa un telefono cellulare; il 53,1% si connette in rete. Nel 2009, il 28,3% della popolazione utilizzava YouTube e il 22,9% Facebook. Tra gli al-tri mezzi di comunicazione, la radio continua a interessare otto italiani su die-ci, mentre la carta stampata continua a calare e poco più della metà degli italiani ha letto almeno un libro nell’ultimo anno (8° e 9° Rapporto Censis/Ucsi sul-la comunicazione).

Recentemente il Censis ha lanciato un allarme sulla dipendenza da internet/com-puter, inserito in un più generale contesto di nuove dipendenze e di “sregola-mento delle pulsioni”, che interesserebbe il 6-11% della popolazione. Per il

Film

momento la dipendenza da internet/computer non fa parte dei disturbi psi-chiatrici riconosciuti dai manuali internazionali; la sua eventuale inserzione nella prossima versione del manuale di psichiatria più utilizzato (DSM-V, at-tesa per il 2013) ha suscitato dibattito nel corpo medico internazionale, a si-gnificare allo stesso tempo l’importanza della questione e la mancanza attuale di consenso. Di fatto, contrariamente al gioco d’azzardo patologico, internet e i videogiochi non saranno inseriti nel prossimo manuale perché non esisto-no ancora criteri di diagesisto-nosi che permettaesisto-no di descrivere un eventuale distur-bo; saranno però presenti in appendice per stimolare future ricerche. Nonostante l’incertezza che circonda ancora la questione, e la prudenza che se ne dovreb-be accompagnare, i media si sono largamente impossessati della terminologia della dipendenza da tecnologie. Panico ed entusiasmo accompagnano notizie come quella che gli autori della strage di Columbine erano dediti a videogio-chi violenti, l’annuncio della morte di giovani giocatori coreani deceduti per inedia dopo ore passate davanti allo schermo di un internet point; ma anche l’uscita di videogiochi educativi e programmi digitali per allenare la mente. La-sciarci guidare da intuizioni, paure e speranze, da allarmi o appelli all’entusia-smo non è la scelta migliore. Abbiamo bisogno di ricerche rigorose dirette a misurare obiettivamente gli effetti delle nuove tecnologie e degli schermi sul-la mente e sul cervello. Gli studi di buona qualità sono ancora scarsamente numerosi, e questo anche per comprensibili limiti etici e difficoltà pratiche di realizzazione. Possiamo però cercare di interrogarci, alla luce della conoscenza – sempre più avanzata – dei meccanismi che regolano il funzionamento del cervello e della cognizione umana, sul perché gli schermi possono esercitare su di noi una seduzione quasi irresistibile e per quali vie naturali possa passare il loro potere sulla nostra mente, per quali no.

Il potere degli schermi sulla mente: smontare i pregiudizi

Pregiudizi

Cominciamo col far uscire di scena due pregiudizi che riguardano il funziona-mento del cervello. Il primo consiste nell’immaginare il cervello come una massa infinitamente malleabile e plastica, che le esperienze, e in particolare quel-le con gli schermi, modificherebbero a piacere. Il secondo consiste nel pensare che il cervello sarebbe come un muscolo, un’idea che si accompagna alla termi-nologia dell’esercizio cerebrale, della ginnastica per i neuroni (in inglese: il brain training). Videogiochi, esercizi elettronici di “allenamento mentale”, scacchi e sudoku sarebbero allora come delle palestre per il cervello, capaci di

mantener-Film lo in forma. A forza di esercitarsi, delle capacità come attenzione e memoria, o la capacità di eseguire compiti molteplici simultaneamente, migliorerebbero e andrebbero a migliorare anche la vita di tutti i giorni. Viceversa, le funzioni non adeguatamente esercitate si atrofizzerebbero e ci renderebbero più stupidi.

Il mito della plasticità infinita si sposa bene con l’immagine con la quale viene dipinta oramai regolarmente la generazione nata dopo il 1990: quella di una nuova specie, con un cervello differente da quello dei propri genitori e in-segnanti, tecnologicamente avanzata ma anche superficiale, “connessa” ma vio-lenta. Questa immagine ha implicazioni pratiche non trascurabili: come possiamo capire i “bambini digitali” se sono così diversi da noi? Non dovremmo fare in modo che anche le scuole siano coerenti con i nuovi cervelli e procurino il ge-nere di stimoli di cui si nutrono i “nativi digitali”? Prima di affrettare il passo, è utile passare un momento a riflettere sul funzionamento della cognizione umana e considerare la lunga storia evolutiva della nostra specie, e in partico-lare del nostro cervello.

Il mito della malleabilità infinita del cervello

Bisogna innanzitutto dire che i due pregiudizi sono falsi, ma solo se interpre-tati troppo alla lettera: il cervello è realmente plastico e la pratica deliberata di una nuova abilità è davvero la chiave per il suo miglioramento. I recenti pro-gressi nello studio del cervello sono stati in grado di mettere in luce l’esisten-za di meccanismi responsabili della modificazione duratura dell’architettura del cervello in risposta alle esperienze. L’idea di plasticità data, in realtà, dal-l’inizio del secolo, ma la ricerca ha vissuto una forte accelerazione negli ultimi decenni.

Ora sappiamo che il cervello è dotato di una plasticità funzionale, che consente alle connessioni che collegano i suoi mattoni da costruzione, i neu-roni, di cambiare di forma e di variare la loro forza in seguito a nuovi appren-dimenti; sappiamo anche che, in maniera limitata, l’architettura strutturale – le connessioni stabilite tra neuroni, il numero di neuroni in una certa area – può subire modifiche anche nel cervello adulto. È stato scoperto che alcune aree del cervello hanno la capacità di “riconfigurarsi”, invadendo regioni limi-trofe che hanno perso la loro connessione con il mondo – a causa di danni a queste regioni, per esempio, o alla perdita degli arti. Questa capacità, che si manifesta anche in risposta a esercizi intensi di alcune parti del corpo, non è necessariamente positiva: alcuni musicisti soffrono di paralisi delle dita perché le zone cerebrali che rappresentano un certo dito si sono estese fino a occupa-re parti della mappa cervello contigua alla loro.

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L’osservazione del cervello di alcuni animali come uccelli, ratti, pesci, ma anche i primati e gli esseri umani, ha dimostrato che, in alcune aree del cervel-lo legate alla memoria spaziale, nuovi neuroni possono continuare a crescere anche nell’adulto – violando alcune assunzioni tradizionali delle neuroscien-ze. Nuove connessioni tra neuroni si fanno e si disfano nell’adolescenza, in par-ticolare al livello delle regioni filogeneticamente più recenti del cervello umano:

la corteccia prefrontale, che regola inibizione e controllo sui comportamenti, riflessione, e altre funzioni esecutive e di “alto livello” tipiche della cognizione umana. Si poteva facilmente immaginare, naturalmente, che il cervello doves-se, in qualche maniera, registrare fisiologicamente quello che l’osservazione del comportamento mette quotidianamente sotto i nostri occhi: che ogni giorno impariamo, e per tutta la vita. Ma questi risultati delle neuroscienze hanno cambiato l’immagine che abbiamo del nostro cervello e sono certamente in grado di distruggere il mito che tutto avviene, per quel che riguarda l’appren-dimento, prima di una fatidica età della vita, limite spesso arbitrariamente sta-bilito a tre anni.

Contemporaneamente, questi risultati rischiano di essere interpretati nel senso che il cervello modificherebbe senza posa la sua struttura e la sua ana-tomia, in risposta a nuovi apprendimenti. In realtà, non si conoscono anco-ra le cause precise e gli effetti delle riconfiguanco-razioni delle mappe cerebanco-rali, né quale sia il ruolo della nascita di nuovi neuroni nel cervello adulto, se non che questo genere di trasformazioni ha una portata incomparabilmente infe-riore rispetto alla formazione di neuroni prima della nascita e alla modifica-zione della forza delle connessioni tra neuroni che continua massicciamente tutta la vita.

Se il cervello fosse stato davvero una massa “molle”, in cui l’esperienza è in grado di trasformare costantemente e radicalmente la nostra natura – le mo-dalità di apprendimento, quelle di pensiero –, le differenze tra gli esseri uma-ni di culture diverse sarebbero molto più importanti di quello che sono in realtà.

Anche se si può imparare per tutta la vita, la natura umana getta le basi per il nostro modo di apprendere e per i meccanismi biologici che ci permettono di pensare, e questi meccanismi non cambiano con l’esperienza o l’uso della tec-nologia.

Il cervello non è un muscolo

Lo stesso genere di realismo si applica alla considerazione del mito del cervel-lo-muscolo. L’osservazione degli esperti e del “divenire esperti” ha mostrato che una forma speciale di pratica fa la differenza tra professionisti e dilettanti – che

Film si tratti di violinisti, maestri di scacchi o giocatori di golf. Questa pratica, in-tenzionale e non subita o semplicemente ripetuta, si appoggia in particolare su una grande motivazione a imparare e permette al futuro esperto di dedicare tempo e concentrazione al compito, prendere in considerazione le osservazio-ni di un maestro al fine di attaccare i punti deboli con perseveranza, utilizza-re delle strategie per memorizzautilizza-re e dominautilizza-re le conoscenze necessarie, organizzarle e utilizzarle. Dieci anni e diecimila ore sono normalmente necessari per for-mare un esperto, e anche in queste condizioni, l’esperienza guadagnata in una certa area tende a rimanere “incollata” al proprio contenuto. Quando la me-moria del maestro di scacchi è messa di fronte a compiti che non riguardano il gioco degli scacchi, le prestazioni mnemoniche – estremamente sviluppate a contatto con configurazioni di pezzi su una scacchiera – ricadono ai livelli di un qualsiasi giocatore apprendista. L’apprendimento è difficilmente generaliz-zabile e trasferibile, contrariamente all’idea che sottende il mito del cervello-muscolo. Il cervello è tanto plastico quanto è “resistente” alla radicale trasformazione delle sue capacità: s’impara per tutta la vita, non si cambia di natura.

Il mito dei nativi digitali

Questo ci porta a un terzo pregiudizio o mito, questa volta di ordine tecnolo-gico: quello che ci fa immaginare che l’immersione digitale in cui bagna la nuo-va generazione sia di per sé una garanzia di “alfabetizzazione digitale”, o di superiorità digitale rispetto alle generazioni precedenti. Eppure non sembra es-sere questo il caso. I nativi digitali non sono necessariamente migliori della ge-nerazione dei propri genitori nel condurre una ricerca su Internet, o nella gestione efficace di più compiti contemporaneamente (il “multi-tasking”). Seb-bene qualsiasi utente di tecnologie faccia entrambe le cose, fare e saper fare non sono sinonimi. L’apparente facilità d’uso delle tecnologie recenti, inoltre, po-trebbe scoraggiare un approccio più in profondità al loro buon uso: l’utilizza-tore ha tendenza a sentirsi immediatamente competente e quindi a non intraprendere i passi necessari a divenire realmente tale. Accade la stessa cosa con l’apprendimento di una lingua straniera, in cui il primo sforzo di guada-gnare intelligibilità e capacità di comunicazione, una volta coronato da suc-cesso, è spesso seguito da un lungo plateau senza miglioramenti; arrivati a questo livello, sufficiente ma non eccelso, ci si accontenta e si smette di fare lo sforzo di diventare realmente competenti. Accade anche a chi impara a usare una ta-stiera di computer: una volta che siamo in grado di utilizzare più dita e stac-care gli occhi dalla tastiera, chi fa lo sforzo per scrivere con le dieci dita e senza mai guardare la tastiera?

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Anche se sembra essere vero che i giocatori di videogiochi hanno miglio-ri prestazioni in compiti di attenzione spaziale e visiva – ed è possibile che queste capacità vengano in parte addestrate dalla pratica di videogiochi d’azio-ne – non è dimostrato che la medesima pratica cambi il modo di imparare, capire e mettere in atto strategie utili per fare altro che giocare ai videogiochi.

Per il momento, il fattore più sicuro per predire la capacità di qualcuno di ca-pire (un testo scritto, per esempio), ancor più che la capacità di leggere flui-damente, è il fatto di possedere conoscenze specialistiche che gli permettono di mettere in relazione ogni nuova parola e frase con le sue conoscenze pre-cedenti. Non c’è miglior “allenamento cerebrale” che imparare: arricchire co-noscenze e competenze.

Il potere degli schermi sulla mente: seduzioni (quasi) irresistibili Fin dalla nascita, l’essere umano manifesta competenze e preferenze. La pas-sione per i colori, l’interesse per il movimento, la sensibilità al cambiamento specie se improvviso e brutale, la curiosità per quello che accade nel nostro ambiente, fisico e sociale ci sono propri – anche se non sono limitati alla no-stra specie. Erano propri, probabilmente, anche ai nostri antenati che cento-mila anni fa vivevano in piccoli gruppi, dipendendo dalla caccia e dalla raccolta per la loro sopravvivenza.

Apparentemente, il nostro cervello non differisce significativamente dal lo-ro: nella nostra scatola cranica di esseri umani moderni è alloggiato il cervello di un cacciatore-raccoglitore, coi suoi istinti naturali, le sue capacità e limiti, modellati da milioni di anni di selezione naturale sotto la pressione di una nic-chia ecologica che il nostro stesso cervello ci ha permesso di trasformare e adattare. Il mondo è cambiato – e siamo noi stessi ad averlo trasformato – ma il cervello necessario a interagire con questo stesso mondo è rimasto sostan-zialmente lo stesso per almeno centomila anni.

Se adottiamo il punto di vista dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori al-cuni gusti e preferenze appaiono di colpo abbastanza naturali e giustificate – anche quelle che riguardano le tecnologie più recenti.

Scopi pratici e ricompense

Ad esempio, il nostro cervello ha un interesse particolare per la realizzazione di compiti pratici, per il perseguimento di un obiettivo. Nel presentare al gio-catore uno o più compiti concreti e un obiettivo altrettanto concreto da rag-giungere e su cui concentrare gli sforzi, i videogiochi offrono al cervello un genere di stimolo al quale è difficile resistere: una specie di dolcetto per il

cer-Film vello. Naturalmente, l’obiettivo deve essere realizzabile; una volta raggiunto, il cervello lo registra come premio e produce dopamina – una sostanza chimica emessa negli scambi tra neuroni di un circuito particolare, addetto all’appren-dimento, alla focalizzazione dell’attenzione e alla motivazione a ricercare nuo-vamente il medesimo tipo di stimolo, detto anche in maniera molto semplificativa

“circuito del piacere” o della ricompensa. Il sistema della ricompensa sembra in effetti permettere all’animale non solo di provare piacere, e quindi di mi-gliorare il proprio apprendimento, ma anche motivare ulteriori ricerche, come la ricerca del cibo. Quando la ricompensa è certa, ma la sua assegnazione ca-suale – “so che troverò da mangiare se continuo a cercare in quella direzione, ma non so quando” – l’animale tende a dimostrare un comportamento di ri-cerca particolarmente robusto: continuo e sostenuto. In un certo senso, il cer-vello riceve in questo caso un doppio dolcetto alla dopamina: il primo quando si aspetta di ricevere una ricompensa e il secondo quando la riceve per davve-ro. Il caso presenta una certa analogia con quello delle slot-machine e di altri videogiochi capaci di mantenere alto il livello di attenzione.

Ma il cervello è anche fatto per sapersi distrarre dal suo compito, per esse-re attratto da suoni e giochi di luce. I videogiochi ne sono prodighi. Al dolcet-to si aggiunge uno stradolcet-to di zucchero a velo.

Narrazioni e cause

Se adesso prendiamo in considerazione giochi di simulazione di situazioni com-plesse, basati su una narrazione, entriamo in un altro campo della cognizione per scoprire una nuova tentazione per il cervello. Fin dalla più tenera età, il bambino osserva il mondo come un piccolo scienziato in erba, e cerca di spie-garsi le ragioni di uno o dell’altro fenomeno. È sensibile alle regolarità con cui i fenomeni si manifestano e a quelle delle loro caratteristiche; sviluppa in que-sto modo intuizioni e idee che gli permettono di spiegare gli eventi che si pro-ducono intorno a lui e di collegarli l’uno all’altro in maniera causale. La capacità di percepire le relazioni causali tra diversi oggetti e fenomeni è particolarmen-te sviluppata negli esseri umani, troppo, si potrebbe dire: particolarmen-tendiamo a vedere cause e connessioni anche dove non ve ne sono – come quando la persona cui stiamo pensando ci chiama per telefono, o quando un povero gatto nero ci ta-glia la strada, rendendosi (falsamente) colpevole di catastrofi e incidenti. Que-sta ipertrofia della causalità spiega molti errori del nostro ragionamento e spesso ci impedisce di differenziare la correlazione – in cui due fenomeni si danno in-sieme – dalla causalità – in cui l’uno causa l’altro. L’ipertrofia della causalità aiuta anche ad alimentare la nostra passione per i misteri e i problemi: dai

gial-Film

li in cui si tratta di scoprire chi è stato (l’agente causale) alle missioni – di cui i videogiochi sono ricchi.

Non fatti per pensare

Anche la scienza naturalmente permette di nutrire il nostro bisogno di ricerca di cause e spiegazioni. Perché preferire allora – si tratta di un’affermazione de-scrittiva, non certo prescrittiva o normativa – i videogiochi alla scienza? È ne-cessario fare riferimento a una caratteristica del nostro cervello tanto robusta quanto sorprendente: il cervello non è fatto per pensare. Quando impariamo ad andare in bicicletta, è importante automatizzare i gesti che permettono di far girare le ruote in modo da potersi concentrare efficacemente sul fatto di gui-dare in città. La stessa cosa accade quando impariamo a leggere. Una volta di-ventata automatica la trasformazione dei segni scritti in suoni, possiamo finalmente concentrarci sul significato delle parole e capire di cosa ci si sta parlando. L’au-tomatizzazione della decodifica da grafema a fonema è talmente potente che ci riesce difficile trattare una parola come un semplice oggetto percettivo e non leggerla. Fate l’esperimento seguente: scrivete i nomi dei colori più comuni (ver-de, rosso, giallo, blu, arancio) con un pennarello del colore “sbagliato”; la paro-la “verde” sarà scritta per esempio una volta in blu, una in arancio o rosso o giallo e via di seguito; riempite una pagina; adesso provate velocemente a leggere le parole scritte in questo modo: nessun problema; cercate allora di non leggerle e di nominare il colore in cui sono scritte: osserverete che la “lettura automati-ca” rende difficile il compito, vi rallenta e vi fa commettere errori.

Automatizzare consente di non pensare e quindi libera l’attenzione per al-tri compiti, spesso più interessanti. Anche in assenza di automatizzazione, il nostro cervello tende a riposare su ciò che conosciamo già, sulle riserve stoc-cate nella memoria a lungo termine, eventualmente a usarle per agganciare le nuove informazioni, organizzarle, stoccarle in memoria. Il lavoro dello

Automatizzare consente di non pensare e quindi libera l’attenzione per al-tri compiti, spesso più interessanti. Anche in assenza di automatizzazione, il nostro cervello tende a riposare su ciò che conosciamo già, sulle riserve stoc-cate nella memoria a lungo termine, eventualmente a usarle per agganciare le nuove informazioni, organizzarle, stoccarle in memoria. Il lavoro dello

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 107-117)