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Verso la metà degli anni trenta, Umberto Saba andava scrivendo una serie di riflessioni fulminanti in una scrittura aforistica ispirata a

Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 66-73)

Nietz-sche e a Freud, raccolte poi nel 1946 col titolo Scorciatoie e raccontini. In una di queste “scorciatoie”, intitolata Pedagogia, scriveva: “Perché maestro e scola-ro sieno [sic]– recipscola-rocamente – perfetti, bisogna che fra i due si svolga conti-nuamente questo muto dialogo: Foss’io ancora, fanciullo, come te! – Potessi io diventare un giorno quale sei tu, mio buon maestro!” Con un’intuizione da par suo, Saba evidenziava come al centro di qualsiasi educazione si dovesse sta-bilire una sorta di “corrente erotica alternata” tra il docente e il discente, rie-vocando in questo modo da una parte san Paolo, quello della lettera ai Corinzi, in cui dice: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Amore, sarei come il bronzo che risuona o il cimbalo che tintinna”; dal-l’altra Socrate, il quale nel Simposio stabilisce una relazione stretta tra l’eros e Strumenti

la conoscenza: “Capita che uno, da ragazzo, resti spiritualmente incinto di que-ste cose [del bello e del buono]. Facendosi poi giovanotto e maturando l’età, sente il fuoco di creare e di dare la vita. Allora comincia a guardarsi intorno a cercare il bello nel quale creare la vita... Se incontra uno spirito bello, cristal-lino, sublime, s’abbraccia a questo spirito e al corrispondente corpo e ha subi-to gran facilità, con questa persona, a discorrere di virtù, delle qualità che deve aver un uomo specchiato, e del suo modo di fare: e così comincia a educare”.

Insomma: la relazione affettiva è al centro del discorso educativo, senza non si dà educazione, si ha qualcos’altro. Ma è anche vero che, oggi, di insegnanti che dicano: “Foss’io ancora, fanciullo, come te”, di fronte agli scalmanati iper-cinetici e ipernevrotici che abbondano nelle classi, è difficile trovarne. E se è per questo, anche di fanciulli (fanciulli?) che possano desiderare di diventare un giorno come i loro buoni (buoni?) maestri, temo proprio non ne esistano:

d’altronde, come dar loro torto, di fronte a quell’umanità sciatta e dolente (nel senso di lamentosa, quando non lagnosa) che è la classe insegnante, abitante del sottosuolo scolastico, perennemente umiliata e sistematicamente offesa?

Già a metà degli anni settanta, Pier Paolo Pasolini, uno dei nostri ultimi pedagoghi, suggeriva, sulle orme di Swift, “una modesta proposta: abolire im-mediatamente la scuola media dell’obbligo”, individuando in essa “una scuo-la di iniziazione alscuo-la qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche”. La scuola dell’obbligo, continuava, rende presuntuosi, a causa di quelle due miserabili cose che si imparano, e angoscio-samente frustrati, perché quelle due cose altro non procurano che la coscien-za della propria ignorancoscien-za. “È meglio abolire la scuola dell’obbligo – concludeva – in attesa di tempi migliori (di un altro sviluppo)”.

Nel frattempo, tracce dell’“altro sviluppo” non se ne sono viste, almeno non di quello atteso da Pasolini. Ho chiesto lumi a Francesco Codello che, ol-tre a aver scritto numerosi libri sull’educazione libertaria, è anche preside di un istituto comprensivo (cioè scuole elementari e medie) in provincia di Tre-viso, e mi ha delineato un quadro sconfortante: a cominciare da una sempre maggiore fragilità emotiva dei preadolescenti, preda di miti fasulli contrabban-dati da media irresponsabili (compresa una rete internet difficilmente gover-nabile), mentre si assiste contemporaneamente a un abbassamento dell’età critica, specie nelle ragazzine. Le scuole medie, mi dice, risultano totalmente inadeguate. Si assiste, inoltre, a un peggioramento nella qualità degli insegnan-ti: ci si dimentica delle necessità emotive, si rincorre il cognitivo tralasciando la dimensione affettiva, le cui difficoltà vengono acuite da una crisi sociale del-la famiglia sempre più evidente e devastante. “Per provare a spiegarti del-la

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zione paradossale di un preadolescente di oggi, devi immaginare il motore di una Ferrari sul telaio di una 500.” Sovrana regna l’incapacità di gestire tutto questo. Oltretutto sono in aumento le disabilità del comportamento che met-tono in seria difficoltà insegnanti, a loro volta impreparati e sempre meno mo-tivati. Riprendendo ciò che aveva già avuto modo di scrivere in un suo libro (Né obbedire, né comandare. Lessico libertario, Eleuthera 2009), Codello ha con-cluso: “Oggi alla scuola è demandato il compito di trasmettere l’ignoranza, so-stituendo il processo di appropriazione delle conoscenze con una specie di abbagliante luna park del tutto coerente con la società dell’apparire, mentre in-vece una vera educazione dovrebbe educare per condurre al sé. Il dono supre-mo di un vero maestro è stisupre-molare nei bambini la fiducia necessaria per diventare ciò che sono e ciò che desiderano essere. Come ha detto Colin Ward, non si tratta di riempire un vaso o modellare la creta, ma semplicemente educare”.

Se la situazione odierna è fuori controllo, la sensazione è che ciò abbia ra-dici profonde: agli inizi del secolo scorso, Carlo Michelstaedter si scagliava con radicalità contro la scuola nel suo libro La persuasione e la rettorica (pub-blicato esattamente cent’anni fa, nel 1913). L’immagine con cui si apre il suo ragionamento è di quelle che lasciano il segno: i tronchi dei gelsi mutilati dal-l’uomo, ceppi contorti, alberi a cui è stato impedito un naturale sviluppo e ri-dotti a una fabbrica di legna, “poiché l’uomo non ha piacere dell’albero quando egli gli cresca alto e forte, secondo la sua natura”, vengono paragonati ai risul-tati del trattamento che la scuola infligge agli alunni: “Così anche il piccolo uomo non ha piacere del suo compagno quando questi cresca forte e sano e si-curo secondo la sua natura, ma con l’arma della società mutilandolo, così lo foggia perché egli gli produca cose utili al suo corpo”. E per non lasciare dub-bi interpretativi, aggiunge: “La peggior violenza si esercita così sui bamdub-bini sot-to la maschera dell’affetsot-to e dell’educazione civile. Poiché colla promessa di premi e la minaccia dei castighi che speculano sulla loro debolezza e colle ca-rezze e i timori che alla loro debolezza danno vita, lontani dalla libera vita del corpo, si stringono alle forme necessarie in una famiglia civile: le quali come nemiche alla loro natura si devono appunto imporre colla violenza o colla cor-ruzione”. Michelstaedter va al cuore del problema, che poi è il rapporto inevi-tabile e conflittuale tra l’individuo e la società, che da Rousseau in avanti è al centro di molta riflessione pedagogica: fin dove permettere la libera espressio-ne della propria natura e fin dove conculcare i principi regolativi della società.

“Tutti approfittano – dice il filosofo goriziano – di quest’anima in provvisorio che sogna il tempo quando sarà grande, per violentarla, ‘incamiciarla’, amma-nettarla, metterla in via assieme agli altri a occupare quel dato posto, e respi-Strumenti

rar quella data aria sulla gran via polverosa della civiltà”. L’indifferenza per ciò che è oggetto di studio, constatava sempre Michelstaedter, serve a rendere il giovane un degno braccio irresponsabile della società, in futuro: “Un giudice, che giudichi impassibile, tirando la proiezione dalla figura che l’istruttoria gli presenti sulle coordinate del suo codice, senza chiedersi se questo sia giusto o meno. Un maestro, che tenga quattro ore al giorno 80, 90 bambini chiusi in uno stanzone, li obblighi a star immobili, a ripetere ciò che egli dica, a studia-re quelle date cose, lodandoli se studino e siano disciplinati, castigandoli se non studino e non s’adattino alla disciplina, – e non s’accorga d’esser un uomo che sta esercitando violenza sul suo simile, che ne porterà le conseguenze per tut-ta la vitut-ta, senza sapere perché lo faccia e perché così lo faccia – ma secondo il programma imposto. Un boia, che quando uccida un uomo non pensi, che egli, un uomo, uccide un suo simile, senza sapere perché l’uccida. Perché egli non veda mai altro in tutto ciò che quell’ufficio indifferente su cui non si di-scute ma che gli dà i mezzi per vivere, e sia istrumento inconsapevole”.

Per chi oggi è impiegato nella scuola e non è cieco o in malafede, le rifles-sioni di Michelstaedter suonano impietosamente attuali (per quanto la scuola abbia perso quella centralità e altre siano diventate le agenzie educative): ieri come oggi, si studia (intendi: si impara a memoria per poi poterlo dimentica-re al più pdimentica-resto) per pdimentica-rendedimentica-re un bel voto, per far contenti i genitori (se ne va-le la pena), si studia e contemporaneamente si impara a obbedire, a non porsi troppe domande, si impara a “schivar la grandine”. Ironizzava Frank McCourt nel suo Ehi prof! (Adelphi 2006): “I professori seri dicono sempre ai loro alun-ni quello che devono sapere. L’insegnante lo spiega e loro devono imparare. Poi l’insegnante fa un esame e uno prende il voto che merita. Gli alunni seri dico-no che è bello sapere in anticipo cosa si dovrebbe sapere, così udico-no si mette a impararlo”. “La scuola, – continua McCourt in altre pagine del racconto del-la sua esperienza di insegnante nelle scuole statunitensi – così come è struttu-rata, non è altro che un sistema di controllo sociale di stampo gerontocratico:

chi sta in alto deve proteggersi da chi sta in basso, i più maturi devono proteg-gersi dai giovani pronti a cacciarli via dalla faccia della terra... Forse ciò che il sistema richiede a un insegnante non è altro che confezionare colli per la cate-na di montaggio delle grandi aziende e fornire ‘materiale’ per l’apparato mili-tar-industriale”.

L’anno scorso, a Paese, un comune vicino a Treviso, si è svolto l’annuale Trofeo memorial Vendramin, organizzato dalla locale società di rugby (che milita nel girone di Eccellenza). È un trofeo che vede le squadre giovanili lo-cali giocare contro una rappresentanza gallese, gemellata con Paese. Ero

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sente alla partita degli under 14: un massacro, in termini di punteggio finale.

I nostri ragazzini sono stati letteralmente rullati: la partita si è conclusa con di-vari che è meglio tacere. Non crediate che i gallesi siano più grossi dei nostri:

al contrario. Però, non c’è stata storia. Con gli amici, genitori e parenti dei ra-gazzi o anche solo spettatori, ci si chiedeva perché. Voglio dire: perché già a 14 anni, in un gioco di squadra, si evidenzia un simile divario, da cosa dipende?

Non dovrebbero essere tutti più o meno sullo stesso livello di partenza? Il Gal-les è una piccola nazione della Gran Bretagna che ha poco più di tre milioni di abitanti, il rugby è lo sport nazionale che contribuisce all’identità dei galle-si: forse la risposta sta appunto nella “tradizione”, un clima che si respira, in cui si cresce e si impara in modo “naturale” ciò che “naturale” non è, quando invece è frutto di una “cultura”, in questo caso sportiva (peraltro, non ancora eccessivamente viziata da sponsor e denari), e che ha tutti i crismi di una

“buona educazione”.

Negli stessi giorni, Paolo T., figlio di amici, appena quindicenne, si diplo-mava in violino al conservatorio di Milano con 110 e lode e menzione d’ono-re (nel frattempo, ha suonato con l’orchestra della Rai a Ceylon, ha interpd’ono-retato i concerti di Vivaldi in grandi teatri, è richiesto dai Conservatori nazionali e internazionali). Questi miei amici non suonano alcun strumento (al massimo, il padre strimpella la chitarra) e, prima che il figlio si mettesse a studiare il vio-lino, non ascoltavano nemmeno la musica classica, ma solo pop e un po’ di rock. Sto parlando di un ragazzino straordinariamente dotato, ma che nessun talent scout ha scovato: all’età di sette anni (tardi rispetto ai tempi normali) ha chiesto lui di iniziare studiare il violino. Mi sono chiesto: ma come fa un bam-bino così piccolo, senza essere spinto da un adulto, a capire che gli piace una cosa così difficile (e per certi versi “astrusa” per tutte le privazioni che compor-ta) come suonare il violino?! Qui la “tradizione” non c’entra. È evidente che si tratta di una dote innata che i genitori hanno rispettato.

Questi due fatti, all’apparenza eterogenei, mi hanno fatto venire in mente quello che scriveva qualche anno fa Noam Chomsky, l’illustre linguista statu-nitense ed esponente della new left americana. I principi che sottostanno a qual-siasi prassi educativa, dice Chomsky, possono ridursi a due, e potremmo chiamarli il “principio Aristotele” e il “principio Platone”.

Secondo lo Stagirita, l’uomo è una tabula rasa: il compito dell’educatore, dunque, è scrivere su questo foglio intonso, sperando di scrivere in bella calli-grafia, educando i giovani a coltivare principi che altrimenti ignorerebbero o eviterebbero. Di qui la grande responsabilità della società, che può influenza-re in modo decisivo la scelta di seguiinfluenza-re o meno certi valori piuttosto che altri.

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Per Platone, invece, l’uomo ha già delle idee innate, a partire da quella di giustizia, di bello, di buono, eccetera, che sono impresse nella sua anima dal momento che quest’ultima è stata strappata dal mondo delle idee e incarcera-ta nel corpo. L’educatore quindi ha un compito maieutico, deve porincarcera-tare alla luce ciò che già c’è.

Insomma, Aristotele esalterebbe l’esempio virtuoso della mischia gallese, frutto di un insegnamento e un’educazione che portano ad aderire ai valori di sacrificio e abnegazione (e che rendono i gallesi degli strepitosi giocatori già a 14 anni); Platone tiferebbe per Paolo, il giovane violinista dal talento innato.

Chomsky dice che bisogna credere a Platone per due motivi: uno perché le scoperte legate alla grammatica generativo-trasformazionale presuppongo-no un innatismo di fondo, due perché altrimenti i totalitarismi avrebbero ra-gione a prendere i bambini dalla culla e a “scrivere” nelle loro menti o anime che siano, nel tentativo di creare una nuova umanità a loro uso e consumo.

È chiaro che l’esempio della “mischia gallese” rappresenti l’“optimum”

ma, vista la nostra attuale situazione, è necessario puntare sulla validità del

“principio Platone” a scapito del “principio Aristotele”: è una scommessa ri-schiosa ma indispensabile, dal momento che, sull’idea dell’uomo come tabu-la rasa, puntano in tanti (vedi le “educazioni” in stile orientale di Ami Chua, la mamma tigre sino-americana), e in particolare quello che una volta avremmo chiamato il Capitale (per dirla in termini vetero-marxisti). Peral-tro, anche volendo, sarebbe difficile trovare lo spazio per contrastare effica-cemente queste pratiche (non chiamiamole educazioni) “disumananti”: molto più potenti di una scuola “virtuosa” (che comunque non c’è) sono queste agenzie, e risulta sterile combatterle sullo stesso piano: l’educazione a scuola – quando ancora si parli di educazione – a valori realmente e non retorica-mente umanistici è impotente di fronte alle corazzate del potere politico e economico.

Ma se grande è la confusione sotto il cielo, può darsi anche che si aprano spazi di manovra insospettati. Per esempio, riscoprire la priorità del “principio Platone” e il conseguente valore maieutico dell’insegnamento, significa anche ridurre la retorica del docente “sapiente” per tornare a puntare l’attenzione sul discente (che non sa di sapere), dal momento che il compito dell’insegnante (che sa di non sapere) consisterà proprio nell’aiutarlo a divenire ciò che è, of-frendogli spazi e situazioni per misurarsi e crescere. Proprio perché la scuola ha perso, o perlomeno ridotto, il ruolo di controllo sociale (non serve più al Sistema), si possono aprire spazi nuovi di libertà per una guerra di corsa tra le

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sue macerie: si tratta, per tornare su un tema caro a queste pagine asinine, di riconoscere e riconoscersi tra pochi all’interno degli esigui spazi che ci sono concessi, fossero anche quelli squallidi delle aule scolastiche, (ri)cominciare a educare, sulle orme di Socrate (a rischio di cicuta, in attesa di eventuali tempi migliori, che stentano a profilarsi, ma che l’attuale instabilità del sistema po-trebbe improvvisamente rivelare). Significa recuperare anche quei valori ela-borati dall’umanesimo occidentale e che – bene o male, più male che bene, in verità – restano principi ancora validi, per quanto minacciati da una tecnocra-zia sempre più invadente, come ha evidentecnocra-ziato la filosofa Martha Nussbaum nel suo libro Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica (Il Mulino 2011).

Certo, poco può l’insegnante/educatore – sorta di “giapponese” che non accetta la fine delle ostilità – di fronte agli imponenti mezzi dell’avversario – legione! – ma molto deve, per rifarci alle categorie dei migliori: per dirla con le parole di Michelstaedter, deve dimenticare la “rettorica” e divenire un

“persuaso”, in attesa che gli esempi virtuosi possano tornare a porre le pre-messe per una nuova, travolgente mischia in stile gallese che avanzi al ritmo del violino.

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Nel documento cambia il mondo, cambia la scuola (pagine 66-73)