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comandare ch’sij fermato l’accusatore e tutti li testimoni acciocché provino e siano con gl’esempij dovuti severamente puniti, ch’io non mancherò di benedire la celebrata

Giustitia dell’Eccellentissimi Signori, che sono destinati da Dio al sollievo

degl’oppressi, et a’ proteggere con l’autorità Sua suprema gl’innocenti.

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L’incipit del documento si apre da parte del Morosini con un’ennesima sottolineatura della propria carica onorifica, sempre attento ad evidenziare titoli prestigiosi che considerava guadagnati con fatica e con merito.

Lo scrivente si considera perseguitato da veleni e da infide passioni, originate da invidie e rivalse personali e le quali avevano prodotto accuse infondate e calunniose; passa poi a descrivere l’accaduto che rappresenta il motivo del suo rivolgersi agli Inquisitori di Stato: alcune notti prima venne gettata, in una finestra della sua casa di Santo Stefano che in quel periodo stava venendo ristrutturata, una lettera anonima “il contenuto della

quale alterarebbe l’anima de’ più Cristiani quanto questa non fosse ben’assistita e dall’integrità, e dalla puntualità con che tutto il corso della mia vita ho sempre servito”.

Tale biglietto, che non ho ritrovato ma che probabilmente conteneva tutta una serie di accuse e di epiteti ben poco traducibili, sarebbe stato ritrovato da dei muratori che

lavoravano alla ristrutturazione del palazzo e consegnato al Morosini non prima però che “[egli non rilevasse] il nome di quelli che si trovarono presenti quando fu raccolta, acciò

al paragone della mia ingenuità apparischino chiare le barbare forme de’ miei ben noti esecutori”.

La richiesta si conclude con la supplica a chi di dovere per identificare e processare i colpevoli di tal atto ingiurioso, che il Morosini velatamente dichiara di conoscere già molto bene (“miei ben noti esecutori”). Si dichiara implicitamente essere un “oppresso” e un “innocente” in questa e in molte altre vicende giudiziarie che lo riguardano;

insomma, cambiano i tempi ma le frasi di circostanza di politici indagati restano sempre le medesime.

L’elemento fortuna nella vita e nella carriera di Francesco Morosini

Nel corso della nostra trattazione abbiamo in più occasioni evidenziato come l’elemento fortuna abbia giocato un ruolo di primo rilievo nella carriera di Morosini, aiutandone lo sviluppo e favorendolo in tutta una serie di circostanze che gli permisero di scalare ogni rango delle gerarchie veneziane, da semplice “nobile di poppa” a Doge.

Nella prefazione all’opera abbiamo citato il fatto di come Napoleone considerasse la fortuna una virtù imprescindibile nella vita di un uomo d’armi; egli stesso si definiva molto spesso baciato dalla dea bendata ed è possibile che, se Francesco Morosini fosse stato ancora in vita dopo il 1797, Napoleone lo avrebbe quasi certamente scelto per guidare le proprie armate navali così carenti di buoni ufficiali dopo la scomparsa di quelli migliori seguita alla Rivoluzione francese e al Terrore.

Ma questa è purtroppo fantastoria; un dato certo è invece rappresentato dal favore delle circostanze che sembrarono accompagnare il nostro protagonista nel corso di tutta la sua vita.

Nell’influenza dell’elemento fortuna nella vita di Francesco Morosini sono riscontrabili due binari distinti: uno che riguardava più strettamente la sua carriera, con la morte di determinati personaggi che spianarono la strada al Nostro nelle sue promozioni di grado; e un altro nel quale invece la buona sorte sembrava preservarlo in guerra e nei confronti di tutta una serie di pericoli mortali che avrebbero potuto troncare ben prima la sua esistenza.

Se il primo ambito emerge più o meno chiaramente dalla parte biografica del lavoro (con la morte in successione di Alvise II Mocenigo, suo nipote Lazzaro, Lorenzo Marcello e anche lo stesso Antonio Barbaro deceduto nel 1679) e quindi non ci interessa qui direttamente, il secondo argomento merita invece un approfondimento.

Come infatti un personaggio di tal fama, dai diciotto anni in poi quasi sempre in guerra a bordo di una galea, di stanza a presidi sotto assedio o presso quelli in procinto di essere conquistati sia riuscito a sopravvivere quasi indenne può restare per molti un mistero; al di là di considerazioni di carattere mistico o trascendentale, è indubbio che alcune casualità pericolose nelle quali fu coinvolto si possano definire come “alquanto fortunate”.

Descriviamo ora brevemente alcune di queste circostanze, presentate in ordine

cronologico, che contribuirono a creare quel mito di predestinato nella buona sorte che si creò ben presto il Morosini:

- Nell’agosto del 1659, a bordo della propria galea, il giovane comandante si trovava in missione nello Stretto dei Dardanelli per cercare di impedire agli ottomani la costruzione di due ennesimi forti fatti erigere per evitare un altro possibile sfondamento veneziano nella regione.

Unica imbarcazione presente all’azione, la galea del Morosini riuscì a cannoneggiare vittoriosamente i cantieri di fabbricazione e il forte stesso, ma una cannonata fortunosa sparata dai turchi abbatté l’albero maestro della sua nave, cadendo e quasi uccidendo il proprio comandante che si salvò solo grazie ai suoi riflessi e al fatto che non si trovava esattamente nella traiettoria di caduta della velatura. Lo stesso destino che qualche anno prima aveva sottratto a Venezia uno dei suoi migliori capitani, il Mocenigo, risparmiò il promettente Francesco Morosini per una mera questione di centimetri325.

- Circa dieci anni più tardi, giunto al suo comando nella difesa di Candia, il Capitano Generale stava coadiuvando e organizzando la difesa del presidio cittadino distribuendo

materiali, installando nuove batterie d’artiglieria e assegnando i nuovi reparti alle postazioni ormai martoriate da anni di continui assalti.

In un attacco generale avvenuto durante il giorno di San Giacomo nella primavera del 1668, l’impeto degli assedianti fu particolarmente violento; recatosi sugli spalti in prima persona dove l’urto era più veemente, il Morosini venne ferito da un colpo di moschetto al petto sebbene non gravemente e mentre proiettili, granate e salve di mortaio

continuarono a piovere sulla piazza egli rimase in prima linea ad incitare e coordinare i propri soldati, venendo in molte occasioni schivato di pochi passi da esplosioni e moschettate326.

- Alcuni giorni dopo Morosini, ristabilito, era intento nella supervisione delle fortificazioni della zona dell’arsenale, punto di stoccaggio del grosso dei

munizionamenti e dei pezzi di artiglieria quando una cannonata turca, una delle molte che venivano in continuazione sparate verso differenti punti del presidio per innervosire i difensori, colpiva l’arsenale stesso causando un immane esplosione nella quale venne coinvolto anche il Morosini; a fronte di diversi caduti e molti feriti, quest’ultimo ne uscì vivo anche se fortemente contuso a una spalla327.

- Tra il 1667 e il 1669 Francesco Morosini combatteva durante vari attacchi ottomani in prima linea, venendo diverse volte ferito o implicato da esplosioni; in nessuna di queste circostanze restò ferito gravemente, sebbene intorno a lui le perdite dei soldati furono sempre ingenti328.

- Il 23 agosto 1669, poche settimane prima della resa della città, in uno degli ultimi assalti generali avveniva un esplosione di una mina sotterranea preparata dai turchi in vicinanza del bastione Sant’Andrea; quel giorno, a fronte della perdita di circa trecento difensori tra morti e feriti, il Capitano Generale sopravvisse illeso nonostante le molte perdite causate dal brillamento dell’ordigno sotterraneo nel quale venne coinvolto anche lo stesso Morosini329.

- Nel 1688, nei pressi dell’isola di Zagurio, due navi non saldamente ancorate agli ormeggi si scontrarono a causa di una tempesta e presero fuoco; in una di esse vi era il Morosini, che riuscì a salvarsi fortunosamente venendo trasbordato poco prima

dell’affondamento delle due galee330.

- Dopo la conclusione della guerra di Candia e delle sue imprese in Morea Francesco Morosini, eletto Doge, rientrò per alcuni anni in patria.

Nell’inverno del 1689, nel suo viaggio di ritorno a Venezia, fu costretto a passare indisposto alcuni giorni nel palazzo del governo a Spalato; qui, il 9 novembre 1689, per poco non rimase ucciso dal crollo di una stanza dalla quale era appena uscito331.

326 Ivi. Pag. 107 327 Ivi. Pag. 108 328 Ivi. Pag. 116 329 Ivi. Pag. 132 330

I. CACCIAVILLANI, op. cit. Pag. 206

Queste sono le circostanze più incredibili nell’intervento della fortuna nell’esistenza del condottiero e Doge; per questione di sinteticità si sono tralasciate le descrizioni dei pericoli più “comuni” ai quali qualunque altro soldato o marinaio dovette abituarsi nel corso del proprio servizio militare.

Tuttavia non si può ignorare il grande ruolo che l’ingerenza della buona sorte ebbe sulla carriera e la vita (soprattutto militare) di Francesco Morosini.

L’assedio di Modone

Nella trattazione delle imprese militari del nostro protagonista ci siamo occupati naturalmente anche della guerra di Morea; rispetto a quello di Candia, questo fu un conflitto molto più dinamico e allargato, con battaglie campali, assedi, controffensive e veloci mutamenti di fronte.

Nel corso della campagna per la conquista della Morea, Morosini dovette in più occasioni conquistare fortezze e presidi fortificati, indispensabili per la creazione di avanguardie veneziane dalle quali partire per l’espugnazione completa della regione; a chi contestava al Capitano Generale d’essere un valente ammiraglio ma uno scarso comandante di terra, il Morosini rispondeva con i fatti d’arme: prese Navarino Vecchio e Navarino Nuovo e si apprestò all’avanzata verso i restanti presidi turchi nel Peloponneso.

Nel giugno 1686 si trovò però d’innanzi la formidabile fortezza di Modone, considerata da molti imprendibile e la cui conquista avrebbe aperto le porte della Morea; per la prosecuzione della campagna fu quindi necessario porre l’assedio alla piazza.

Mentre il generale Königsmark stringeva il cerchio intorno a Navarino Nuova, Morosini schierò le proprie artiglierie intorno alla fortezza di Modone; dopo un laconico rifiuto di resa, il 2 di luglio iniziarono i bombardamenti sia da versante terrestre che da parte della flotta, schierata nelle acque antistanti la città.

Gli artiglieri veneziani avevano fama di essere i migliori al mondo nel loro mestiere, e anche in questo caso essi non tradirono le aspettative: dopo soli quindici giorni di incessanti bombardamenti, le mura di una piazza considerata imprendibile erano ridotte a uno stato pietoso, molto peggio di quelle di Candia dopo oltre vent’anni di assedio. Il 15 luglio la fortezza si arrendeva e i turchi ancora vivi furono catturati e imbarcati sulle galee veneziane; la campagna per la conquista della Morea sembrava procedere sotto il migliore degli auspici.

Il documento di seguito presentato è una viva testimonianza di cosa precedesse un assedio dell’epoca e quali fossero le sue conseguenze; si tratta infatti della richiesta di resa che il Capitano Generale fece consegnare al sovrintendente ottomano della fortezza, Acmed Agà Desdar; il dispaccio presenta, con crudezza di dettagli, le conseguenze alle quali andavano incontro quei presidi che avessero combattuto nonostante la chiara impossibilità di vittoria. Segue una breve analisi del testo:

“Lettera di Francesco Morosini ad Acmed Agà Desdar assediato a Modone e sua

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