• Non ci sono risultati.

La descrizione della vita di Francesco Morosini ci comunica, a distanza di più di tre secoli, quale straordinario e complesso personaggio egli fosse; l’eco delle sue imprese in settantaquattro anni di vita al servizio della Serenissima Repubblica di Venezia si sarebbe tramandato alle epoche successive, sottolineate anche dal fatto che egli rappresentò l’ultimo grande condottiero veneziano prima dell’oblio settecentesco della Serenissima, ormai rinchiusa nell’autocelebrazione di se stessa e in un immobilismo che le risulterà fatale.

La peculiarità di un carattere storico come quello di Francesco Morosini tuttavia non risiede solamente nelle sue imprese militari, pur vastissime, ma riflette la rimembranza di un’intera epoca; ed essa si inserisce in un contesto di più ampio respiro, quello della Venezia seicentesca con le sue contraddizioni, i suoi fasti, le sue peculiarità costantemente in bilico su di una fune traballante di autocelebrazione del potere e di contemporaneo mascheramento di limiti e difficoltà sempre più evidenti nel corso del tempo.

La realtà veneziana, così contraria per sua stessa natura all’ammissione dell’individualismo privato, è tuttavia nettamente in contrasto con la dimensione effettiva dei massimi esponenti politici, militari e sociali del proprio ambiente che finiscono (volenti o nolenti) per risaltare maggiormente in un tale contesto che tenta, senza riuscirvi, di applicare il criterio della “spersonalizzazione” a favore dell’entità superiore della patria.

È in un tale ambiente che si inserisce virtualmente Francesco Morosini, uomo a tutto tondo in quanto figlio della propria epoca; le cronache, le orazioni, i trattati politici del periodo ci tramandano la contraddittorietà che aleggiò su di lui e che le fonti letterarie successive riuscirono solo in parte a stemperare; obiettivo di questo lavoro è anche quello di restituire almeno in parte gli aspetti meno noti e studiati della sua biografia. Secondo tale logica in questo capitolo ci si concentrerà sull’attacco politico che infiammò le sedute del Maggior Consiglio a partire dal 19 settembre 1670 ad opera del patrizio Antonio Correr, attacco di cui (citando le parole di Ivone Cacciavillani) “Va

condotta un’analisi oltre che storica, anche politica, che non può svolgersi sulla base dei canoni valutativi attuali225”.

La descrizione minuziosa dell’accaduto è stata volutamente tralasciata nel corso della narrazione biografica del capitolo precedente, per poter essere sviluppata e approfondita più in dettaglio ora; tuttavia, prima di poter riportare integralmente le arringhe che si svolsero in quei mesi sull’argomento, è necessario dotarsi di quegli strumenti concettuali, metodologici ed evenemenziali che ci permetteranno di condurre un’analisi obiettiva e critica dell’accaduto. Iniziamo quindi questo importante capitolo andando a descrivere alcuni aspetti della società veneziana del periodo, con particolare riferimento al suo peculiare sistema di governo, alla sua classe politica, alle sue speranze e paure e alla cultura del tempo.

65

In questa fase del lavoro si ricorrerà a saggi, opere e opinioni dei più importanti studiosi contemporanei della civiltà lagunare, di volta in volta chiamati in causa per le necessità finali della nostra ricerca e quindi indispensabili per avvicinarci a cerchi concentrici al cuore del tema trattato. In seconda battuta invece ci avvaleremo di documenti inediti d’archivio, per corredare l’analisi finale degli argomenti descritti.

Dopo questa breve ma doverosa premessa iniziamo quindi il capitolo parlando per sommi capi della Venezia del XVII secolo.

La Venezia barocca

Il Seicento veneziano si inserisce in un contesto politico, economico e istituzionale di grandi rivolgimenti europei. Dopo la grande espansione quattro – cinquecentesca, segnata dalla scoperta del Nuovo Mondo (tema equivalente ai viaggi spaziali degli anni ’60 del XX secolo), la nascita del Protestantesimo, l’invenzione della stampa, l’uscita definitiva dal periodo medievale, l’umanesimo, si assiste nel XVII secolo a una sorta di inversione di tendenza: agli occhi dei posteri il Seicento rappresenta un’epoca di forte transizione, un periodo di “vuoto” tra le due ere “piene” quali il Cinquecento e il Settecento illuminista.

È un po’ il periodo dell’insicurezza se vogliamo: Spagna e Portogallo, le due massime autorità che con il secolo precedente avevano raggiunto livelli di potenza e ascendenza politica inimmaginabili (“l’impero sul quale non tramonta mai il sole”), mostravano già i primi segnali di crisi, dovuti soprattutto allo sperpero insensato delle immense ricchezze acquisite dai domini d’oltreoceano; i contrasti religiosi esplodevano nel 1618 (un anno prima della nascita di Francesco) con la terrificante Guerra dei Trent’anni che avrebbe prostrato l’Europa per i decenni successivi. Un’ondata di peste, portata in Italia dai mercenari lanzichenecchi, imperversava nei maggiori centri della penisola con massima virulenza nel 1630, spopolando i borghi e le grandi città; in Inghilterra si assiste allo scoppio di due rivoluzioni (1628 – 1660 e 1688 – 1689), mentre anche il regno ottomano è alle porte di grandi sconvolgimenti interni con le lotte di palazzo per il potere e la rivolta dei giannizzeri, che estranieranno gradualmente l’impero turco dalla scena di primo piano mondiale fino alla sua caduta nel XX secolo.

Ma il Seicento è anche il secolo delle grandi scoperte scientifiche, dell’embrione concettuale dell’illuminismo successivo, di ambiziosi viaggi esplorativi e di ancora più ambiziose missioni di colonizzazione, di creazione di quelle basi che manterranno il Vecchio Continente (presto affiancato dal Nuovo) sul piano di predominanza che lo vedrà indiscusso protagonista fino ai nostri giorni.

Il Seicento è quindi un periodo di grandi luci e grandi ombre; un po’ come sarà lo stesso Morosini. Ma andiamo con ordine e vediamo la situazione della Serenissima Repubblica nel corso del XVII secolo.

Venezia non rimase esente dai massimi sconvolgimenti che la piena epoca moderna stava apportando all’universo politico ed economico mondiale: il periodo si apre con l’acutissima crisi dell’Interdetto, scoppiata nel 1606 a causa dell’arresto di due prelati per la condanna di reati comuni. Tale vicissitudine, che culminò nella scomunica dell’intera città di Venezia (e da questo deriva il termine “Interdetto”), si risolse essenzialmente con il ritorno alle posizioni di partenza ad esclusione dell’ammissione dell’ordine dei gesuiti da Venezia, ma rappresentò un risvolto mediatico incredibile per

66

l’epoca, una delle ultime occasioni nelle quali Venezia poté essere annoverata tra le corone centrali d’Europa226.

Sul versante economico la crisi si faceva sentire sempre più: scoperte le nuove rotte per l’Oriente già da metà ‘400 (e per il Nuovo Mondo successivamente) e passato il ‘500 come secolo di transizione la Serenissima non riscontrava più quell’importanza da sempre attribuitale come ponte tra Oriente ed Occidente. Contrariamente a quanto si crede comunemente, non è vero che fin da subito Venezia venne tagliata fuori dalla centralità commerciale mondiale e in tutto il Cinquecento non assistiamo a una vera e propria diminuzione dei traffici mercantili; solamente nel secolo successivo si aprì quella vera e propria crisi che trasformò il Mediterraneo da bacino della civiltà europea a teatro di importanza secondaria. I porti e i mercati rialtini, passato il periodo delle sperimentazioni tecniche e della pioneristica oceanica, risultarono desolatamente diminuiti in importanza e mole dei traffici; in Arsenale si costruivano meno imbarcazioni adibite al commercio mentre le spedizioni via terra partivano sempre più raramente.

È in quest’ottica che si realizzò quel Dominio di terra in precedenza tanto snobbato in laguna; da potenza mercantile, Venezia si stava gradualmente trasformando in stato di terraferma, ma con un’ottica conservatrice, non espansionistica: dopo la cocente sconfitta di Agnadello del 1509 (che aveva mostrato tutti i difetti e i limiti della politica terriera di Venezia, essenzialmente evanescente nei confronti dei propri domini continentali) l’espansionismo territoriale lagunare incontrò un brusco arresto. Nei secoli successivi la linea di condotta repubblicana si sarebbe limitata a un mantenimento con il minor sforzo possibile delle proprie prerogative locali, tese a confermare di volta in volta campanilismi e poteri locali precedenti del territorio227.

In quest’ottica di regressione, però, aspetti positivi vi sono: il Seicento veneziano è il secolo barocco, periodo nel quale la città divenne sinonimo di arte e cultura raffinata (sebbene ai nostri occhi abbastanza pesante e ridondante, “barocca” per l’appunto); nonostante gli elementi di crisi appena descritti, non siamo ancora negli anni del definitivo tramonto della Serenissima quanto piuttosto nel suo periodo crepuscolare. È ancora diffusa, a tutti i livelli della società, la speranza di poter riacquisire quello splendore e quell’importanza mondiale che avevano caratterizzato la Repubblica nei secoli precedenti; si consideravano quegli anni come un periodo certamente negativo ma al tempo stesso di semplice transizione, passato il quale l’economia e la società veneziana avrebbero saputo reinventarsi.

La verità, purtroppo, era ben diversa: come in moltissimi altri casi, la forbice economica si allargò e le famiglie già ricche (se ben condotte) poterono divenirlo ancora di più, sfruttando quelle incertezze e quelle paure che la crisi comportava; i poveri invece aumentarono di numero e composizione tanto che a fine secolo la parte di patriziato misero che non riusciva nemmeno a vivere una vita decorosa era aumentata esponenzialmente rispetto all’inizio del secolo.

226 L’accaduto è stato abbondantemente studiato in diverse opere, tra le quali segnalo A. BATTISTELLA, La politica ecclesiastica della Repubblica veneta, in “Archivio Veneto, vol. XVI”, Venezia, 1898, e G. CAPASSO, Fra’ Paolo

Sarpi e l'Interdetto di Venezia, Firenze, 1888 227

S. ZAMPERETTI, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Il Cardo, Venezia, 1991

67

Il tutto avveniva mentre tra coloro che potevano permetterselo, si moltiplicavano le manifestazioni di lusso e spreco sfrenato con feste, balli in maschera, costosi ricevimenti e sontuosi matrimoni, quasi a voler nascondere la vera preoccupazione per l’andamento dei tempi e della realtà, un “nascondere sotto il tappeto” la polvere della decadenza economica e politica.

La rivoluzione francese avrebbe provveduto, indirettamente, a por fine anche alla tradizionale realtà veneziana e alla sua classe politica, incapaci di rinnovarsi per far fronte alla drammatica avanzata degli eventi.

Il sistema repubblicano veneziano

Connotazione peculiare di Venezia fu sempre rappresentata dal suo sistema di governo. Dall’indipendenza sostanziale dall’esarcato bizantino nacque la forma repubblicana i cui sviluppi storici non verranno discussi in questa sede; a livello esplicativo, la forma politica repubblicana di Venezia passò attraverso tre fasi: la prima è chiamata “periodo ducale” (con la nascita dell’istituto del Doge, che non rappresenta però un sovrano in quanto la carica non divenire ereditaria), la seconda è invece detta “età comunale” (seguendo le forme istituzionali che si andavano creando dopo l’anno mille nel nord della penisola) mentre l’ultima è definita il “periodo aristocratico” con la serrata del Maggior Consiglio (1297), che rese accessibile l’ingresso a questo fondamentale organo solamente agli eredi delle famiglie nobili più antiche e prestigiose (anche se come vedremo più avanti in momenti di crisi si decise l’ingresso di nuove famiglie patrizie). Tralasciando gli sviluppi diacronici del sistema repubblicano veneziano, appare invece di maggior interesse ai fini della nostra ricerca una breve analisi della sua formulazione sostanziale.

Pur acquisendo una forma di tipo oligarchico nel periodo aristocratico, la maggior parte delle antiche istituzioni collegiali sopravvisse, rimanendo pressoché intatta fino alla caduta stessa della Repubblica (12 maggio 1797); quello veneziano si presentava come un sistema complesso, a base essenzialmente collettiva, con il compito di organizzare i poteri statali su più livelli di modo che, almeno teoricamente, nessuno di essi divenisse preponderante rispetto a un altro.

In linea concettuale si può parlare come di una sorta di “polverizzazione” dei poteri dello stato, di volta in volta affidati ad organi elettivi organizzati in struttura piramidale; non esisteva infatti una netta divisione dei poteri di governo (legislativo, esecutivo e giudiziario) dal momento che quasi ogni funzionario veneziano racchiudeva nella propria figura parte di ognuno di essi228.

Al di sotto delle cariche più importanti a livello repubblicano esistono altre decine di uffici e incarichi minori dei quali, per questioni pratiche, non è possibile esprimersi qui; il breve sunto presentato può tuttavia far rendere l’idea di come il potere oligarchico, organizzato in forma di Repubblica, funzionasse e sorvegliasse se stesso da prevaricazioni di tipo univoco.

Grande cura era infatti posta nel controllo degli uffici più rilevanti (quali il Maggior Consiglio, il Senato o la Quarantia, oltre allo stesso Doge) da figure speculari, la più importante delle quali era certamente quella degli Avogadori di Comun, in grado di

68

cassare o ritardare anche provvedimenti di rilievo229. Il timore era quello di un reiterato abuso di potere da parte di organi assembleari o di funzionari che potesse sottrarre importanza o fondamento alla forma aristocratica dello stato; se mi si consente la metafora, il sistema oligarchico dello stato veneziano si poneva come una sorta di “gioco

di specchi” nel quale poteri e figure istituzionali si guardavano l’uno l’altro, si

mescolacano, si sovrapponevano e si limitavano a vicenda in una continua lotta per l’equilibrio. Attenzione però: con questo non voglio assolutamente intendere che l’ambiente lagunare fosse contraddistinto da una peculiare assenza di individualismi spicci, di interessi privati che anteponevano l’interesse della patria e delle istituzioni al proprio, tutt’altro; è anzi proprio in un ecosistema del genere che è possibile ritrovare figure che risaltano nella pur vasta discrezionalità che leggi e prerogative delle cariche lasciavano all’arbitrio di ognuno. Spesso si sente dire “una legge o un divieto, per essere

veramente efficaci, devono poter permettere alcune eccezioni”: niente di più vero; basti

pensare alla deroga per l’età minima per l’ingresso in Maggior Consiglio (25 anni), norma molto spesso ignorata in favore di parenti o figli di grandi figure della Serenissima tra le quali abbiamo visto anche il caso dei nipoti di Morosini.

Ritornando al nostro ragionamento, appare inevitabile come in una macchina complessa quale fu il governo della Serenissima Repubblica, composta da una miriade di ingranaggi, vi fossero interstizi e spazi di manovra per chi fosse stato abbastanza scaltro da approfittarne; “gioco di specchi”, quindi, ma di specchi deformanti si tratta; colui il quale conoscesse a fondo l’ambiente politico veneziano avrebbe saputo chi deteneva il vero potere, quali erano “il palcoscenico” e “le quinte” e chi invece sosteneva cariche di pura rappresentanza.

Franco Gaeta, nel suo saggio sulla Repubblica veneziana, si esprimeva in questi termini: “[Il governo veneziano] aveva avuto di mira l’avanzamento di una proposta politica

nella quale struttura della società e ordinamento dello stato tendevano a identificarsi. La dottrina dello stato misto si presentava così come la dottrina dell’armonia sociale che si concretava in un tipo di governo in cui il contemperamento delle forme era garanzia di efficienza e di durata, ma una delle componenti inevitabilmente finiva per assumere su di sé la direzione effettiva dello stato230”.

Secondo il Gaeta, era bandito quasi per legge qualsiasi elemento di passione al fine di assegnare ad ogni figura compiti precisi in un’organizzazione rigidamente gerarchica231. Tuttavia, ciò che i fautori di questa organizzazione avevano dato per scontato e che rappresenta la vera ragione della presenza di vasti spazi di manovra e di figure preponderanti, era il fatto che funzionari, politici, senatori, avvocati di stato non potevano essere concepiti come semplici “mattoni da costruzione”, esenti cioè da ambizioni e desideri di arricchimento personali; ciò che in definitiva limitava la visione repubblicana della Serenissima era il fatto che quelle stesse passioni, che con tanta fatica si cercava di mantenere costantemente al di fuori dell’ambiente politico, erano di fatto incancellabili e indivisibili da chi incarnava le cariche di governo.

229 C. POVOLO (a cura di), Processo e difesa penale in età moderna. Venezia e il suo stato territoriale, Il Mulino

Editorie, Bologna, 2007

230 F. GAETA, Venezia da “stato misto” ad aristocrazia “esemplare”, in “Storia della cultura veneta, volume Il

Seicento”, Neri Pozza Editore, Vicenza, 1976 – 1986. Pag. 454 – 455

69

Sebbene fin dalla sua origine Venezia cercasse di dare di sé un’immagine mitizzata, come di una repubblica “nata perfetta”, non sempre questa visione era condivisa dai contemporanei; il francese Nicholas Amelot de la Houssaye nella sua opera “Historie du

gouvernement de Venise232” criticava pesantemente il sistema di governo oligarchico, considerando che “Le Sénat contente le peuple en le laissant vivre dans l’oisiveté et dans

la debauche, n’y aiant pas de meilleur de l’avilir et de le rendre obeïssant, que de ne lui point controler les plaisirs, et céte vie licentieuse, qu’il nomme liberté, quoique ce soit en effet le principal instrument de sa servitude233”.

Un altro implacabile detrattore del mito veneziano e della sua forma istituzionale fu lo storico francese Pierre Daru, che nella sua opera sulla repubblica lagunare234 ne sottolinea i difetti e i vizi, affidandosi tuttavia a fonti non sempre integerrime e attendibili; il punto focale del suo discorso, che ci interessa da vicino, consiste nel fatto che il Daru considerava il sistema oligarchico veneziano come obsoleto e inadatto a fronteggiare cambiamenti drastici a livello europeo. Pur non convincendo appieno nella sua analisi, lo studioso francese ci comunica come venisse visto il sistema repubblicano veneziano circa un quarto di secolo dopo la sua caduta e di come il mito della “repubblica nata perfetta” non trovasse più validi sostenitori235.

Importante per la nostra analisi è quindi evidenziare le tensioni e i contrasti che serpeggiavano nell’ambiente repubblicano.

Nel corso del tardo Cinquecento e del primo Seicento l’ambiente politico lagunare fu attraversato dall’aspra lotta tra i cosidetti patrizi “giovani” e quelli “vecchi”; se i primi rappresentavano la fascia di nobili meno abbienti, provenienti da famiglie meno prestigiose e per questo di fatto esclusi dalle maggiori cariche di governo, i secondi erano invece esponenti della massima forma oligarchica dello stato, ben attenta a mantenere intatti i propri privilegi e le proprie prerogative esclusive. Inoltre, se i “giovani” caldeggiavano un intervento diretto e aggressivo nella direzione della politica estera (in particolare contro il potere asburgico), i “vecchi” favorivano invece il neutralismo più schietto e lineare da mantenere attraverso rapporti diplomatici amichevoli (soprattutto verso la temuta corona spagnola).

Era ovvio che organi quali il Senato e specialmente il Consiglio dei X fossero massima espressione di quest’ultimo partito, mentre l’Avogaria di Comun e in parte il Maggior Consiglio rappresentassero le enclavi dei “giovani”; sebbene la lotta tra questi due fronti non si concludesse con la completa sconfitta dei “vecchi”, la componente antitetica riuscì ad ottenere l’importantissima abrogazione della “Zonta” in seno al Consiglio dei X nel

232N. AMELOT DE LA HOUSSAYE, Historie du gouvernement de Venise, Parigi, 1677 233 Ivi. Pag. 53

234 P. DARU, Histoire de la Rèpublicque de Venise, Chez Firmin Didot, Parigi, 1819 235

Un parziale ma limitato mitigamento delle critiche al sistema lagunare fu introdotto da James Fenimore Cooper nel suo romanzo “The Bravo” del 1831 nel quale l’autore, pur riferendosi implicitamente al proprio paese per sostenere la modernità del sistema repubblicano, ne criticò aspramente la sua forma oligarchica, riuscendo in effetti a cogliere le reali strutture di potere che agivano dietro le quinte di un’apparenza istituzionale. Maggiori dettagli in C. POVOLO, Un sistema giuridico repubblicano: Venezia e il suo stato territoriale (secoli XV – XVIII), in I. BIROCHI, A. MATTONE (a cura di), Il diritto patrio. Tra diritto comune e codificazione (secoli XVI – XIX), Roma, 2006. Pag. 297 – 353

70

1582 – 1583, potendo così riequilibrare i poteri di tale organo riconducendoli alla loro formulazione iniziale236.

Spinte antioligarchiche simili saranno evidenti anche in altri momenti della storia veneziana.

Tuttavia non vi era solamente la questione del puro repubblicanesimo a rivestire un’importanza capitale nel sistema policio lagunare; si pensi a tutte le prassi e le convenzioni non scritte che vigevano all’interno dei delicati equilibri tra aspirazione politica, condizione sociale, potere e rappresentazione dello stesso. Esempio eclatante di tale affermazione può essere riconosciuto nella mancata elezione al dogado del Cavaliere Giovanni Sagredo nel 1676 (lo stesso che difenderà con le proprie arringhe il Morosini); il Sagredo, esponente di spicco del patriziato veneziano di nobile e antichissima famiglia, pur molto ricco e influente (ricoprendo la carica di ambasciatore marciano presso importantissime corti europee), non riuscì tuttavia ad assurgere alla massima carica rappresentativa repubblicana in quanto, al momento della propria elezione, scoppiarono tumulti popolari (si dice sobillati dai nemici del Sagredo) che posero sul trono dogale Alvise Contarini. Il punto interessante è però rappresentato dal fatto che tali manifestazioni di astio nei suoi confronti sembra fossero state innescate dai suoi avversari politici, facendo leva sulla mancata elargizione di denaro al pubblico astante

Outline

Documenti correlati