fin’ terra tra la barbara gente doloroso se ne (vive), lascio gradi sei di gloria, potendo
meritatamente dimandar et otener dalla mia Principessa Veneziana qual si voglia
honor, grado e dignità. Di più sulla sua istanza, contro perfide (cingue) de’ suoi
inimici, gli lascio che nel zelo della sua impresa gli sia scolpito un monte di accaio,
contro il quale venghino (staccate) saette di piombo, che non potendo ferire se ne
cadano a terra: col motto, che (de’) cieli, FRUSTA”
L’inizio sembra riecheggiare l’apertura di un normale testamento di tipo personale, ma le righe successive si addentrano nelle prime note di rilievo: la città di Candia, sul punto di morire per l’assedio delle forze ottomane (in realtà ciò avverrà quasi vent’anni dopo) chiede che si celebri il suo ricordo e la sua messa funebre a Venezia, “mia principessa”, dove già si trovano i suoi fratelli Regni di Cipro e di Negroponte. Essa lascia alle isole ancora veneziane (Zante, Cefalonia e Tine) tutti gli abitanti cretesi che non volessero vivere sotto il dominio ottomano; inoltre, chiede di essere celebrata ogni anno con funzioni solenni nel periodo che intercorre da quando i legni ottomani arrivarono per la prima volta sulle sue sponde a quando questi se ne tornarono in patria dopo la sua conquista.
Il passaggio seguente testimonia una lucida consapevolezza politica: “lascio in
elemosina [ai principi cristiani] per una volta tanto, tutti li pronti vantaggi, che ricevono nei loro interessi dalla mia morte”; questo a sottolineare i vari sotterfugi e
macchinazioni delle potenze europee che avrebbero tratto vantaggio da un ulteriore indebolimento di Venezia.
Alla Chiesa romana è concesso solamente di nominare nuovi vescovi entro la giurisdizione dell’isola mentre agli eserciti cristiani, “per esser state[i] lente[i] a’
soccorrermi nella parte mia Indispositione”, non viene lasciato nulla tranne la possibilità
di approdare brevemente sulle proprie sponde per approvvigionarsi di acqua o legname. Venezia è l’unica e vera beneficiaria dei (pochi) lasciti testamentari di Candia: “Alla
Republica di Venezia, mia Principessa, e Signora, alla quale ho anco servito lungamente per baila, havendo allattati, e nutriti, con le mie viscere molti di suoi figliuoli […],lascio per regalo perpetuo il mio piccolo reggio, sopra il possesso del quale non credo haverà mai alcuno litiggio, e ciò per havermi sostentata con grandissimo dispendio fin all’ultimo spirito della mia vita”.
“L’isola” perdona poi chiunque le avesse arrecato danno o offesa; segue la lista dei personaggi che in un modo o nell’altro incisero sulle sue sorti recenti: Giovanni Capello, Antonio Navagero, Andrea Cornaro.
Un passo interessantissimo è il successivo: dato che ormai i beni immobili e le ricchezze dell’isola non le appartengono più (“ma il residuo delli mobili, che restano alla mia
dispositione: poiché de’ stabili non posso restare per esser sotto fidel comesso spettanti alla capa ottomanna”), Candia può solamente lasciare in eredità la gloria per chi se la
fosse meritata in sua difesa: a questo proposito vengono nominati Leonardo Mocenigo e Tommaso Morosini.
Segue però nel documento un’aggiunta, probabilmente fatta posteriormente, per includere il personaggio di Nicolò Dolfin. La scrittura sembra cambiare infatti poco prima dell’asterisco, mentre è quasi sicuramente diversa quella dell’aggiunta stessa posta a fine documento. Questo può forse significare una mancanza dell’autore ma più probabilmente un ripensamento nel quale si doveva (o voleva in seguito) includere anche la figura del Dolfin nella spartizione della gloria e dell’onore metaforici di Candia.
Dopo l’asterisco che segna l’aggiunta di cui abbiamo appena trattato, la lista per la distribuzione della celebrità continua: sono nominati Giovanni Alvise Emmo, Benetto da Canal e infine Angelo Lipomanno, “mio Generale Signore di molta pietà”, incaricato di sovrintendere ai funerali della città. La porzione residua dell’onore (otto parti su ventiquattro totali) va invece “una parte in beneficio delle anime de’ gli altri deffonti in
mio servitio. L’altra parte, alli poveri della città di Candia, e dell’Armata, che spendono il sangue per giovarmi”.
Tuttavia non si spendono solo parole benevoli: ai colpevoli di ruberie, furti e sparizioni di fondi e materiali atti alla difesa di Candia (anche se nel testo identificati idealmente come “onori e gloria”), la città chiede espressamente giustizia nei confronti di questi personaggi non ben identificati, rei di aver approfittato dell’indisposizione dell’isola per attuare la loro appropriazione indebita (“perché intendo, che tra le confusioni della mia
malatia, così delle professioni maritime, come di terra, hanno espillato detto mio residuo, havendo indebitamente rubbati honor, e gloria, che non s’aspettano a’ loro, voglio che siano obligati a’ render conto a’ tempo, et luogo”).
Pur trattandosi di un testo allegorico (o forse proprio per questo motivo), il testamento ironico di Candia rappresenta una dimostrazione incredibile e quasi unica nel suo genere di diffuso interesse per le vicende dell’isola di Creta in quegli anni decisivi.
Francesco Morosini Capitano Generale da Mar
Per la seconda volta, l’elezione di Morosini alla massima carica militare della Serenissima Repubblica provocò reazioni essenzialmente favorevoli soprattutto in quei
personaggi che avevano assistito da vicino alle sue imprese belliche e ne riconoscevano il valore in battaglia e la grande abilità strategica.
Abbiamo in precedenza speso qualche parola sulla grande religiosità del Nostro; questo fatto divenne molto noto già all’epoca e lo stesso Morosini, in più riprese, provvide a beneficiare chiese, istituti religiosi e opere di carità tramite donazioni cospicue.
Tutto ciò, unito al fatto che il conflitto di Candia si stava rapidamente configurando come una vera e propria crociata in difesa della cristianità, non poteva non elevare il Morosini a personaggio favorito nella corte romana e in particolare dai vari pontefici che furono in carica in quel periodo delicato. Le lettere di congratulazione, di lode e di felicitazioni da parte del Santo Padre furono molto numerose e altamente significative; nell’esempio seguente è riportata la risposta del Morosini ad un dispaccio inviato da papa Clemente IX negli ultimi mesi dell’assedio e redatto in latino, motivo per il quale ho preferito riportare solamente la risposta allo stesso.
Il testo trascritto si presenta come segue: