• Non ci sono risultati.

Gregorio Lazzarini, ritratto attribuito di Antonio Correr

256 Che può essere approfondita in D. RAINES, Cooptazione, aggregazione e presenza al Maggior Consiglio: le casate del patriziato veneziano, 1297-1797, in “Storia di Venezia – Rivista I”, Venezia, 2003. Pag. 2 – 64

79

Se la vita di Francesco Morosini appare ai nostri occhi come densa di avvenimenti gloriosi, caratterizzata dalla partecipazione alle più importanti circostanze che influenzarono la storia della Serenissima nel XVII secolo, quella di Antonio Correr si presenta di riflesso come una sorta di “ombra” che si affaccia per brevi tratti nel corso degli eventi. Il titolo di questo paragrafo non è infatti stato scritto a caso; Antonio Correr viene essenzialmente ricordato dagli storici quasi solamente per il suo veemente attacco contro il Morosini, mentre altri fatti che caratterizzarono la sua vita non sembrano agli occhi dei posteri così degne di nota.

Antonio Correr nacque a Venezia il 17 febbraio 1622, figlio di Giovanni (1586 – 1644) e di Cecilia di Marcanton Zen; la sua famiglia apparteneva a un ramo modesto del patriziato minore e il Correr si avviò alla carriera politica partendo dal basso, dagli incarichi più semplici e meno remunerativi: nel 1647 viene eletto castellano di Brescia, mentre tre anni dopo lo ritroviamo nel suo primo impiego di carattere militare, quello di governatore di galea che tenne per circa sette anni258.

Prima carica di rilievo il Correr la ottenne nel 1658, quando a 36 anni entrò nel Consiglio dei Pregadi, ma solamente l’anno successivo venne destinato ad un altro incarico minore, ossia quello di Provveditore alle Biave e sopra i denari; nel 1660, circa nove anni prima del discorso che lo rese famoso, ottiene la carica di Provveditore sopra gli Ori e le Monete ma nello stesso anno subì una cocente umiliazione quando non riescì a ottenere il quorum necessario per l’elezione a Provveditore sopra i beni inculti, una carica che gli avrebbe fruttato una discreta rendita economica259. Nel 1661 ricoprì per la seconda volta la carica nel consiglio dei Pregadi e tra il 1662 e il 1664 ottenne la sua carica politica più prestigiosa (se escludiamo quella successiva di Avogadore), venendo eletto nella giunta del Senato per tre anni consecutivamente pur ricoprendo nel frattempo altri incarichi minori come quello di Provveditore sopra i Feudi.

Tuttavia la vita politica di Antonio Correr non sembrava decollare e probabilmente lo stesso Correr avrebbe desiderato ricoprire incarichi ben più prestigiosi e remunerativi; tra il 1666 e il 1670 si segnalò il suo abbandono della vita politica attiva, pur partecipando ad alcune sedute del Maggior Consiglio e votazioni minori. Non sappiamo se il Correr volle lasciare l’ambiente di governo veneziano perché convinto di non ricavarne più alcun successo personale o per dedicarsi interamente alla sua passione privata, la letteratura; qualunque ne fosse la ragione, il suo ritorno avrebbe segnato una sfolgorante sorpresa.

Il 19 settembre 1670 il Maggior Consiglio si riunì per l’elezione di un nuovo Avogadore di Comun; a livello teorico ogni patrizio aveva il diritto, durante i dibattimenti, di prendere la parola in Consiglio; così fece Antonio Correr fra la sorpresa di tutti i presenti che ben conoscevano l’indole del letterato, il quale negli ultimi anni si era praticamente astenuto da qualsiasi atto politico. In ogni caso i patrizi riuniti si aspettavano che il discorso riguardasse la votazione per l’Avogaria all’ordine del giorno, ma dopo poche parole lo stupore degli astanti rivelò tutta la sorpresa e l’audacia insita nelle parole del Correr: egli stava infatti attaccando veementemente il Procuratore di San Marco già

258 DBI, voce Antonio Correr di Claudio Povolo, http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-correr_res-517ec8df-

87eb-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Dizionario_Biografico%29/, data ultima consultazione 09/05/2015

80

Capitano Generale da Mar Francesco Morosini per aver ceduto Candia al turco senza previa autorizzazione del Senato; in secondo luogo, accusava il Morosini si essersi appropriato di ingenti quantità di denaro pubblico per ricchezze proprie e della sua casata e infine di aver ricevuto la veste procuratoria in maniera illegale e ingiusta.

Il suo appassionato discorso, tipicamente di uomo di lettere, durò lo spazio di un’ora e mezza e nonostante la sua lunghezza tenne col fiato sospeso tutti i presenti, che ne aspettavano la conclusione; terminando la sua arringa, il Correr chiedeva l’apertura di un processo a carico di Francesco Morosini per le sue colpe nella guerra di Candia, la sua spogliazione dalla veste di Procuratore di San Marco e soprattutto la sua incarcerazione in accordo alle leggi della Serenissima Repubblica260.

Ci occuperemo degli avvenimenti successivi a questa data nel prossimo paragrafo, proprio prima di introdurre le arringhe del Correr e del Cavaliere Sagredo che difese il Morosini; in ogni caso, come già affermato nella biografia del condottiero, quest’ultimo venne prosciolto dall’inchiesta e dalle accuse ordite dal Correr.

Il “novello Bruto”, come comincerà ad essere chiamato il Correr stesso, ottenne l’elezione ad Avogadore di Comun il giorno seguente, 20 settembre 1670, e con alcuni nuovi sostenitori riprese il progetto di distruggere la carriera del Morosini; le proteste sollevate dal Correr spinsero il Senato a nominare un inquisitore nella persona di Francesco Erizzo, che a malincuore dovette accettare l’incarico sebbene con la richiesta (accolta) di poter essere coadiuvato da altri due inquirenti.

Il Correr non mancò di contestare la nomina sia perché l’Erizzo era uomo di fiducia del Senato e del patriziato più potente sia perché la nomina dell’inquisitore sarebbe spettata solamente al Maggior Consiglio e non al Senato che effettivamente la emanò.

In ogni caso, l’Avogadore dovette attenersi alle disposizioni del governo; qualche giorno dopo, il 23 settembre, il Maggior Consiglio si riunì per discutere del provvedimento, raccogliendo un numero elevatissimo di patrizi, richiamati dall’eco della vicenda. Anche in questa seduta il Correr ripeté le accuse avanzate al Morosini qualche giorno innanzi; Morosini stesso (pur recapitando al Senato e al Maggior Consiglio lettere con le quali proclamava la sua innocenza) non venne mai di persona a contrattaccare le imputazioni che gli venivano rivolte, ma si dichiarava fiducioso del buon esito del processo e anzi sollecitò la nomina dell’Erizzo per poter dimostrare la sua innocenza.

Il 25 settembre avvenne tuttavia il primo, deciso intervento contro il Correr e a difesa del Morosini: prese la parola lo stimato cavaliere Giovanni Sagredo (secondo alcune fonti amico stretto del Morosini stesso) ribattendo con pari eloquenza e convincimento l’arringa dell’Avogadore e rispondendogli colpo su colpo. L’assemblea cominciò quindi a dividersi al proprio interno in chi bramava rivalsa per la perdita di Candia sulla sola persona del Morosini, chi auspicava un processo equo e approfondito e chi invece si schierava indissolubilmente al fianco dell’ex Capitano Generale, difendendone l’operato e chiedendone l’assoluzione. Messe ai voti le proposte del Correr e del Sagredo, per quel giorno non si poté procedere oltre dal momento che sia la linea dell’Avogadore sia quella del Cavaliere ottennero un numero pari di preferenze e si decise quindi di spostare

260 Dice il Romanin, storico di Venezia, che la seduta provocò una tale confusione e dibattiti così accesi che in quel

giorno “non si poté deliberare nulla”. Lo scandalo prodotto da un tale discorso provocò reazioni incredibili. S. ROMANIN, Storia documentata di Venezia, Tomo VII, Pietro Naratovich Editore, Venezia, 1855. Pag. 467 – 468

81

la nuova votazione due giorni dopo, quando si prevedeva un afflusso ancora maggiore di patrizi in Maggior Consiglio.

Il 25 settembre segnò la fine della breve e folgorante carriera di “novello Bruto” per il Correr: credendo di avere ancora dalla sua parte la maggioranza dell’assemblea (che invece appariva intimorita e rabbonita dalle parole del Sagredo), il nuovo Avogadore attaccò duramente il Cavaliere e il Morosini, provocando però ondate di sdegno e forti proteste al punto che gli stessi sostenitori intimarono al Correr di non andare troppo oltre; la votazione rischiava di degenerare in tumulto. Prese a questo punto la parola il patrizio Michele Foscarini che, pur sottolineando la necessità di chiarezza e di chiusura di un evento così infelice come era stata la guerra di Candia, fosse indispensabile procedere con calma e senza l’onda di rivalsa personale che il Correr e parte del Maggior Consiglio volevano sfogare sulla persona del Morosini per ottenere giustizia dopo la dolorosa perdita dell’isola; l’intervento messo in atto per placare gli animi ottenne il successo sperato.

Nei mesi seguenti la vicenda esplose come una bolla di sapone: tornato da Candia e dall’armata, l’Inquisitore Erizzo non scoprì prove sufficienti a condannare il Capitano Generale, che venne assolto da tutte le accuse; tuttavia, la loro inchiesta gettò una luce infamante su un gran numero di funzionari veneziani, di burocrati e di commissari dato che vennero scoperti incredibili ammanchi di cassa, casi di corruzione, ruberie di materiali e denari intascati per il proprio rendiconto, inadempienze nei pagamenti delle truppe tramite i quali i comandanti veneziani tenevano per sé l’intero stipendio dei soldati. Ancora una volta la malafede di alcuni si ritorceva contro l’intera armata veneziana e il suo governo, andando ad intaccare notevolmente quel mito della “Venezia perfetta” che in passato si era tanto riproposto ma che in quegli anni non reggeva più il confronto con la realtà effettiva.

La mole dei processi da istituire, delle accuse da formulare ma soprattutto dei colpevoli da punire, a più di un anno dalla fine della guerra di Candia, portò alla decisione di amnistiare tutti gli indiziati; lo stesso Morosini venne prosciolto con onore, dato che furono in molti a testimoniare il suo valore in battaglia e la sua correttezza nel maneggio del denaro pubblico ed emerse perfino che i registri contabili da lui scrupolosamente tenuti e compilati erano stati manomessi e farsati per includerne la colpevolezza.

Ciononostante, ancora oggi sussiste un sospetto più che velato che le accuse fossero in parte vere: la sua casata, al contrario di altre i cui congiunti furono impegnati in guerra, non ebbe mai a soffrire economicamente, se i nipoti di Morosini dichiararono 7100 ducati di rendita annua nel 1712 indicando l’arricchimento della famiglia negli anni261; molte voci sussurravano che il Morosini avesse intascato oltre un milione di ducati in contanti, mentre secondo Pietro del Negro gli si permise anche di trattenere sedicimila ducali che sembra avesse ingiustamente intascato262.

In ogni caso, il Correr e il suo partito vennero sonoramente messi a tacere; dopo il 1670 il nostro Avogadore scompare nuovamente dai fatti politici più importanti, tornando a fare da personaggio “ombra” nei bassi ranghi della Serenissima; nel 1671 lo ritroviamo camerlengo di Comun e podestà di Brescia, mentre nel 1674 divenne consigliere per il

261 A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 530 262

P. DEL NEGRO, La milizia, in “Storia di Venezia, Volume VII, La Venezia Barocca”, Enciclopedia Treccani, Istituto della Enciclopedia italiana fondato da Giovanni Treccani, Roma, 1991 – 2002. Pag. 512

82

sestiere di San Polo263. Infine, sempre nel 1674, ottenne l’incarico che anni prima avrebbe potuto lanciare la sua carriera politica, mai decollata del tutto: venne infatti eletto magistrato alle pompe; nel 1676 ottiene l’ultimo incarico rientrando per la seconda volta nella “Zonta” del Senato.

Morì pochi mesi dopo nell’ottobre 1676: il “novello Bruto”, come rimase noto ai posteri, aveva fallito nel tentativo di screditare Francesco Morosini, la sua casata, il patriziato più ricco ed influente e, come approfondiremo in seguito, nell’ambizioso progetto di riportare in auge il repubblicanesimo nella Serenissima.

Il suo più cocente avversario, quel Morosini che tanti onori secondo lui ingiustamente otteneva, morirà quasi vent’anni dopo il suo più eloquente oppositore politico (sebbene manovrato da altri), sempre convinto che solo la buona fede e il senso di giustizia per la Repubblica avessero motivato le parole del Correr e dei suoi sostenitori.

Come vedremo, tuttavia, non fu una semplice questione di rivalsa personale ma un estremo tentativo di porre un freno al potere del patriziato più ricco e spregiudicato.

Le arringhe di Antonio Correr e di Giovanni Sagredo

È giunto il momento di riportare, integralmente, i famosi discorsi che infiammarono il Maggior Consiglio della Serenissima in diversi dibattimenti a partire dal 19 settembre 1670.

Prima di passare la parola ai protagonisti è necessario fare alcune premesse a livello metodologico e stilistico; i discorsi sono basati quasi interamente sulla loro riedizione a stampa che venne curata da Bartolomeo Gamba uscita con il titolo “Orazioni da Antonio

Corraro e da Giovanni Sagredo dette nel Gran Consiglio di Venezia nell’anno MDCLXX264” e trascritti in onore delle nozze di Michele Zoccoletti e Antonietta Acqua di Venezia. Ho voluto tuttavia anche confrontare il testo con copie manoscritte della cui provenienza esatta ho riportato la dicitura nel paragrafo che si occuperà della diffusione successiva delle perorazioni, trovandone molto spesso un sunto riepilogativo, diverse terminologie ma al tempo stesso un’identica coerenza di fondo, ragion per cui ho deciso di affidarmi alla loro trascrizione del XIX secolo.

Queste orazioni sono, per la prima volta in un’opera che si occupa direttamente o indirettamente di Francesco Morosini, riportate integralmente; esse occupano circa 25 pagine del nostro capitolo, ma dato il loro interesse ho trovato opportuno includerle per intero nella trattazione. In effetti, esse rappresentano il risultato di diverse ore di dibattimento tra il Correr e il Sagredo che tennero con il fiato sospeso l’assemblea per diverso tempo; data la loro lunghezza, le orazioni vengono qui presentate impaginate in tabella e con l’indicazione a sinistra del numero di riga corrispondente, necessaria per gli approfondimenti successivi del testo. Ultima precisazione, le parti o le frasi più importanti sono poste in grassetto e saranno oggetto di una breve analisi ogni qual volta si raggiunge un punto di interesse; lascio quindi la parola ai due contendenti.

263 DBI, voce Antonio Correr di Claudio Povolo, http://www.treccani.it/enciclopedia/antonio-correr_res-517ec8df-

87eb-11dc-8e9d-0016357eee51_%28Dizionario_Biografico%29/, data ultima consultazione 09/05/2015

264

B. GAMBA (a cura di), Orazioni da Antonio Corraro e da Giovanni Sagredo dette nel Gran Consiglio di Venezia

83

Arringa di Antonio Correr, 19 settembre 1670 e giorni successivi

Numero di Riga

Testo

1

36

Dio giudice giusto, eterno protettore della verità, scrutatore de’ cuori, rimuneratore

delle buone opere de’ viventi, assista al mio zelo e doni forza alla mia debolezza,

come quegli ch’è solito valersi de’ mezzi più deboli nelle imprese più grandi: “Ex ore

infantium et lactantium perfecisti laudem”. Povera Patria, derelitta da ognuno,

ridotta a miserabile conditione, e quello ch’ è più deplorabile, senz’avvocato che la

difenda, costretta quasi a perire oggidì che il bene particolare aliena da ogni cura che

debb’essere ne’ Principati liberi del bene pubblico! Io povero di abilità, di eloquenza,

spogliato anzi d’ogni necessaria capacità in momenti di tanto rilievo, insetto vile fra

tutti quelli che hanno l’onore di vestire la veste senatoria, ardisco mostrarmi in

questo luogo occupato soltanto da Senatori forniti di virtù e di autorità; ma dopo

aver atteso sin ora inutilmente che altri in luogo mio comparisse, commosso dalla

calamità pubblica, mi risolvo, in tanto deplorabil disgratia, con quella libertà ch’è

l’anima d’ ogni cittadino di repubblica, di palesare i miei umilissimi sensi. Che non

abbiano origine da altro impulso fuorché da quello del pubblico bene ne chiamo Dio

in testimonio.

Si è resa Candia al Turco, e qui si tace? Si perde la Piazza ch’era l’antemurale della

Cristianità, e qui si tace? Dio immortale, in quale letargo siamo noi tutti! Ma ciò è

poco mentre vi ha fatto assai più lagrimevole! Quello che l’ ha ceduta, che l’ha posta

tra le mani de’ Barbari si accetta da noi tra gli applausi, si accoglie con onorificenze,

si corre al suo ingresso nella città nostra in mezzo alle pompe, si premia con la

procuratoria dignità? Di dove dunque caviamo noi tali esempij, tanto diversi da

quelli de’ Romani che non solevano coronare alcun capitano senza prima presentare

al Senato la nota delle provincie e de’ regni acquistati, e passavano bene spesso non

pochi lustri prima di passare a’ trionfi, perché voleano prima minutamente esaminare

e scandagliar le conquiste? E noi, all’ opposto de’ Romani, vorremo oggidì far

trionfare coloro che ci tolgono il possedimento d’ un regno?

Francesco Morosini ha ceduta al Turco quella Piazza dalla quale dipendeva la

Outline

Documenti correlati