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Mi confido che saranno condotte le Eccellenze Vostre alla evidente necessità di tale inquisitione per la Ragione che cosi persuade, per la Legge che cosi obbliga, per la

Consuetudine che cosi invita. Tanto per gli esempij domestici quanto per quelli degli

altri Governi convien praticarla, perché è stata mostruosa la negotiatione della Pace

senza commissione, perché chi difende le Piazze ha obbligo di sagrificare in esse la

vita, perché convien salvare il nome pubblico e la nostra riputatione da note indegne,

da macchie disonorevoli, perché molta utilità se ne aspetta. Si tratta della difesa

della libertà comune, della quale essendo anch’io partecipe, e vedendo la Cristianità

priva di difesa tanto necessaria, penetrato, come dissi, sin da principio, dei due primi

doveri che noi abbiamo verso Dio e verso la Patria, non ho avuto riguardo alle mie

debolissime forze, ma ho inteso di pagare, per quanto è in me, un debito contratto.

con l’uno e con l‘altra.

Ho detto.

In seguito tratteggeremo in sintesi il contenuto e gli stili adottati dai due oratori per ottenere il vantaggio degli astanti e delle proprie ragioni; analizziamo per ora più in dettaglio alcuni punti salienti delle due arringhe (evidenziati in grassetto nel testo originale).

Iniziamo con il discorso di Antonio Correr; nelle righe 67 e 68 abbiamo un primo richiamo a un tema che sarà più volte riproposto dall’accusatore: quello del ingiusto prestigio e potere conferito a Francesco Morosini, che sembra atteggiarsi più a principe che a cittadino. Questo elemento sarà presente anche alle righe 187, 188 e 189 e, in un lungo passaggio, alle righe 304 – 309; infine, è riproposto con timore alle righe 476 e

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479 (“Non so a quali estremi d’ambitione giungerà il cervello del Capitan Morosini, che

anche dopo le sue perdite si vede adesso fra noi trionfante e insensato”).

Come evidenziato, il Correr ricorre a numerosi esempi classicheggianti, soprattutto romani. Nella sua arringa, il mondo romano tardo repubblicano si presta ottimamente al confronto con la figura del Capitano Generale, visto come una sorta di Giulio Cesare o di Ottaviano in grado di mascherare il bene supremo della patria per poter ottenere prerogative sempre maggiori, svuotando al contempo gli organi repubblicani dalla reale predominanza nella vita politica del governo. I passaggi testuali che con lucida chiarezza accumunano Francesco Morosini a un “dictator” tardo repubblicano sono numerosi, e precisamente: dalla riga 193 alla 199, dalla riga 297 alla 300, da 318 a 322 e infine dalla riga 476 alla 479.

Un altro richiamo a figure di rilievo è presente alla riga 585 fino alla riga 590, dove il Correr cita un passo dell’opera di Paolo Sarpi che testimonia l’illegalità di una decisione, pur giusta, presa senza il consenso del governo.

In due passi successivi dell’orazione il Correr si preoccupa di sottolineare che la sua proposta di accusa non è stata provocata da dispiaceri personali contro il Capitano Generale o la sua casata (“che mai non è stato tra la Casa Morosini e la mia alcun

disgusto, mai tra persona e persona insorsero dispiaceri”, righe 329 e 330), e che il suo

intervento è un’opera personale, motivata senza influenze esterne (“la deliberatione di

parlarvi oggidì non venne da me comunicata né a parenti né ad amici, né io chiesi da altri consigli”, righe 335 e 336), anche se come si vedrà il Correr parlava secondo

un’ottica ben precisa, che ricalcava gli interessi di una parte del patriziato.

Alle righe 634, 635 e 636 il Correr esprime un duro ammonimento, che lo persuase a richiedere un pronto provvedimento del Maggior Consiglio per non dar modo ai parenti e agli amici del Morosini di insabbiare la vicenda, se cioè “si tentasse di licentiare il

Consiglio per dare tempo a’ parenti del Morosini, ed a’ suoi interessati di sconvoglier nel broglio le menti santissime dei più zelanti”.

Alla richiesta dell’apertura del processo segue quella della spogliazione della veste di Procuratore di San Marco per Morosini dal momento che, come compare alla riga 422, essa è stata conferita “con forme straordinarie né più praticate”; pochi passaggi dopo, il Correr si esprime anche sulla pace ottenuta a Candia, “so soltanto che se n’è stipulata

una infelice e miserabile”, riga 560.

Uno degli ultimi passaggi di rilievo rappresenta la retorica a supporto dell’innocenza del Morosini e della sua capacità di arrivare a stipulare un trattato di pace: “eh queste

frottole si narrino alla cuoca, queste ciance si dicano a’ fanciulli”, righe 602 e 603,

mentre nelle frasi direttamente successive si raggiunge l’apogeo della veemenza: “si, il

Senato è stato ingannato da lettere che rappresentavano quello che non era; da lettere, mi dispiace il dirlo, che si formavano a Venetia intercettando quelle dei particolari che riferivano il vero, e non lasciando corso se non che a quelle scritte a contentamento delle autorità ed a piacere del Comandante”, righe 607 – 610; segue un esempio pratico,

ricavato dall’ambiente campestre, forse posto non a caso e diretto verso il patriziato che sempre più stava diventando latifondista di terraferma: “un agente di villa scrive ad uno

delle Eccellenze Vostre che ha venduto 5oo stare di frumento ch’era di cattiva conditione, perché tenendolo più oltre sul granaio sarebbe tutto finito a male. Il padrone, considerata la espositione fattagli dall’agente, risponde che ha fatto bene, e lo ringratia e lo loda, ma informato poi da altri della verità del fatto, e saputo che il grano

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era d’ottima qualità, che il prezzo correva molto maggiore, inquirisce contro l’agente, pretende il risarcimento del danno; né v’ha chi lasciasse di farlo”, righe dalla 611 alla

621.

Infine, conclude la sua arringa chiedendo al Maggior Consiglio l’istituzione del processo “per la Ragione che cosi persuade, per la Legge che cosi obbliga, per la Consuetudine

che cosi invita”, righe 641 e 642.

Arringa del Cavaliere Giovanni Sagredo, 23 settembre 1670

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Non è meno pericoloso l’imbarcarsi sulla nave dove mi trovo di quello che sia sopra la

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