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la genealogia di Morosini, con il padre Pietro, Francesco e i fratelli

La morte prematura della consorte sembra essere stata una disgrazia, anche se alcuni contemporanei e addirittura degli storici successivi vi videro una certa premeditazione77:

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DBI, voce Francesco Morosini di Giuseppe Gullino, http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco- morosini_%28Dizionario-Biografico%29/, data ultima consultazione 27/05/2015

75 Secondo le fonti, Francesco ebbe due fratelli e due fratellastri. Egli era il terzogenito. Nella tavola dopo allegata, si

legge la genealogia di Pietro e Francesco, nella quale figura un Pietro (1604 – 1633), Francesco (1618 – 1694), un Lorenzo (1632 – 1686), un Antonio (1651 – 1653) e infine un Michele (1606 – 1653)

Francesco aveva appena un anno quando, durante l’estate del 1620, nel corso di una vacanza che la famiglia era solita trascorrere nella villa di famiglia presso le assolate rive del Brenta, la madre Maria annegò nel fiume, nel tentativo di salvare il marito Pietro, caduto in acqua.

La cronaca vuole che il padre sia scivolato mentre faceva una passeggiata con la moglie, la quale, cercando di aiutarlo, annegò nel tentativo mentre Pietro Morosini riuscì stranamente a salvarsi in circostanze mai chiarite.

Molte malelingue bisbigliavano che il fatto non fosse avvenuto casualmente ma secondo un’ottica di intenzionalità; invidia personale? Semplice pettegolezzo? O qualcosa di più? Il fatto non fu mai chiarito del tutto, ma il padre di Francesco non fu oggetto di inchieste formali, e poté risposarsi sette anni dopo.

Con la nuova sposa, Pietro trasferì tutta la famiglia nella contrada di Santo Stefano, prendendo dimora nel sontuoso palazzo omonimo78 che sarà più volte rinnovato ed ampliato, portato in dote dalla ricca vedova Priuli79.

Sul carattere di Pietro abbiamo qualche notizia in più rispetto alla madre: molto ricco, ma (come molti altri veneziani) influente e bramoso di onori, ricchezze e prestigio per i propri famigliari, era definito “uomo severo di carattere e di non comune valore”, valore che, sebbene non fosse mai andato in guerra, dimostrava nella propria professione e nel proseguimento dei propri interessi.

Probabilmente tali aspetti caratteriali passarono al giovane Francesco, che fin dai primi anni si dimostrò di indole forte e ambiziosa; quest’ultimo sarebbe stato destinato, almeno in parte, a seguire le orme del padre: politico influente, senatore e burocrate di spicco, Pietro Morosini era giunto ad acquisire l’ambitissima carica di “Procuratore de Supra” della basilica di San Marco, ottenendo uno dei nove posti disponibili previsti dalla legge. Questa volta non si può non concordare con il Damerini che dice di Francesco: “Giovinetto egli aveva, dunque, dinnanzi a sé oltre alla imponente testimonianza delle

memorie accumulate nella casa avita, l’esempio del genitore che lo spronava. Tutto concorreva a perfezionare la sua educazione”80.

La casata Morosini, già ricca di proprio, era destinata ad aumentare il proprio patrimonio sia grazie al padre Pietro che al figlio Francesco: riguardo al primo, da una redecima del 1661 appare chiaro il cospicuo vitalizio del capofamiglia, ben 4500 ducati annui81

(grossomodo corrispondenti a 2.250.000 euro odierni, contando che un ducato dell’epoca valeva all’incirca come 500 euro attuali82).

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Il Damerini fa orecchie da mercante, considerando il tutto come “un’orribile sciagura”. Alessandro Marzo Magno, invece, sembra non credere del tutto alla tesi della disgrazia: “Una sorta di «divorzio alla veneziana», insomma, rapido

e veloce, senza l’obbligo di passare per le lungaggini e i costi notevoli dell’annullamento al tribunale della Sacra Rota, mai negato alle persone giuste e dotate di borsellino capiente, ma calato dall’alto, fatto sospirare e, soprattutto, costoso”. A. MARZO MAGNO, op. cit. Pag. 40

78 V. CONTICELLI, Architettura e celebrazione a Venezia: i progetti di Antonio Gaspari per Francesco Morosini in

“Studi Veneziani”, n.s., XXXVIII, Venezia, 1999. Pag. 129 – 177

79 Il Da Mosto spende alcune righe sul palazzo: “Questo edificio venne rifabbricato dal Doge, il quale destinò nel testamento una forte somma per completarlo. A suo ricordo sulla grande porta d’ingresso si vede scolpito sotto l’architrave un gran trofeo di armi con scudi, bandiere, cannoni ed altri emblemi guerreschi”. A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 526

80 G. DAMERINI, op. cit. Pag. 35 81

A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 526

Come giovane di buona famiglia, a Francesco fu impartita un’educazione di rilievo, la più vasta e approfondita possibile: venne affidato inizialmente agli insegnamenti del padre, severo ma giusto nei suoi precetti, e ben presto al prestigioso seminario San Carlo a Modena83 dove la sua formazione fu completata; nei primi anni a casa Morosini, venne volutamente tenuto lontano dalla servitù84, probabilmente per impartirgli fin da subito il senso dell’onore patrizio e delle differenze di ceto.

Gino Damerini sbaglia nel considerare l’educazione di Francesco curata e gestita in prima misura dalla nonna Daniela Badoer, che negli anni di cui stiamo parlando era già passata a miglior vita85; il suo rapporto con la nuova moglie del padre Pietro Laura Priuli non è ben chiaro, ma è possibile che il futuro condottiero non si sentisse completamente a suo agio nella nuova situazione, e anche questo potrebbe averlo spinto in seguito ad intraprendere la carriera militare sulle navi della Serenissima.

Di carattere si dimostrò, fin da giovanissimo, indomito e portato all’azione, molto poco incline alla tranquillità e alla vita agiata, sebbene avesse intorno a sé molteplici esempi in tal senso; fisicamente cresceva robusto e sano.

Secondo l’Arrighi, “gli piacevano le arti marziali e i duelli, nei quali non era

infrequente che qualcuno perdesse la vita86”.

È probabile che, come quasi tutti i figli dei nobili, durante la pubertà praticasse lezioni di scherma, imparasse a utilizzare un’arma da fuoco e prendesse dimestichezza con il

mondo militare, in vista di un’eventuale carriera bellica come in effetti avvenne. Prima dal padre e poi nel collegio a Modena apprese lezioni e insegnamenti di varia natura, anche se le sue materie preferite risultarono essere la storia, la disciplina navale e militare, ma ricevette anche precetti di lettere, arti e lingue classiche oltre a lezioni di retorica e filosofia87.

Quindi, pur ottenendo una salda cultura umanistica (che si può riconoscere in certi momenti della vita del Morosini, così come in certe sue scritture), il giovane Francesco decise fin da subito che il suo futuro sarebbe stato nella marina veneziana accanto a quei patrizi che decidevano di abbandonare gli agi e i lussi della capitale o delle città del Dominio di terraferma per intraprendere una carriera lunga, difficoltosa e irta di pericoli ma estremamente valorosa e, a volte, molto remunerativa.

In merito alla questione, famoso divenne il caso di quando suo padre Pietro gli domandò perché non volesse, al pari dei suoi coetanei di età simile, appassionarsi alle lettere e agli scontri filosofici; la risposta fu palese: “con simili studi nessuna città si prende!88”. In un’altra occasione, forse stanco di sentire suo figlio parlare in continuazione di battaglie e scontri navali (dei quali faceva spesso partecipi anche i compagni di seminario), il Procuratore Pietro gli fece osservare che molto spesso gli uomini che si gettavano in simili conflitti incontravano la morte sul campo di battaglia; per nulla

83 A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 527

84 Anche se l’Arrighi erroneamente considera il fatto diversamente; a suo dire, il carattere indocile e scontroso venne

tenuto a freno sia dal padre che dalla servitù di casa. I. CACCIAVILLANI, op. cit. Pag. 53 85

A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 526

86 A. ARRIGHI, op. cit. Pag. 53 87 A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 527

88 Citazione riportata da diverse fonti, prima fra tutti dal Da Mosto, op. cit. Pag. 527. Anche l’Arrighi si esprime in tal

senso, indicando però come il giovane Francesco effettivamente partecipasse spesso a queste battaglie letterarie scolastiche, pur non essendone appassionato. La frase si trova in I. CACCIAVILLANI, op. cit. Pag. 53

impaurito, Francesco rispose che ognuno era destinato a morire, in un modo o nell’altro, per malattia o morte violenta89.

Probabilmente dopo tali risposte la famiglia decise di assecondare i desideri del figlio, che chiese espressamente, raggiunta la maggiore età di vent’anni (1638), di arruolarsi nella flotta, permesso che gli venne concesso.

L’inizio di una carriera brillante

Antonio Arrighi scrisse nella sua opera sul Morosini, “Accade di rado, infatti, che le

Città generino dei personaggi di grande forza e ingegno; passati i quali esse restano a lungo come spossate, quasi alla mercé degli eventi90”; in questo l’abate aveva identificato qualcosa di vero, contando che Francesco Morosini fu l’ultimo grande condottiero della Serenissima, capace anche se per pochi anni di ridare un adito di speranza a chi faceva dell’onore e del prestigio della Repubblica lagunare la sua scelta di vita.

Tuttavia, come disse un saggio cinese (probabilmente Confucio), “anche il più lungo

cammino inizia sempre dal primo passo”; al suo primo imbarco nel 1638, Francesco

Morosini sarebbe potuto apparire ai più come l’ennesimo figlio patrizio viziato che, stanco delle comodità della campagna, voleva cimentarsi nella carriera militare, per poi ripiegare su scelte maggiormente di comodo.

Errore più grande di valutazione non sarebbe stato possibile, come testimonierà lo stesso Morosini con le sue azioni belliche.

Volenti o nolenti, la maggior parte della propria vita Morosini la passò presso lontani campi di battaglia, al comando della propria bastarda generalizia o in città assediate; non si può quindi restare sorpresi dal fatto che la parte più ragguardevole dei fatti che lo videro protagonista furono di carattere militare.

Chiese e ottienne di poter imbarcarsi sulla galera di Piero Badoer91, suo secondo cugino92, all’epoca capitano della guardia navale di Creta sotto il comando del Provveditore Generale di Candia Marin Capello, anche se le fonti ufficiali non lo comunicano con sicurezza93.

Il battesimo del fuoco non tardò ad arrivare: in quegli anni, come in moltissime altre occasioni, i pirati barbareschi, dalmati, uscocchi e perfino (in rari casi) papali molestavano i traffici commerciali veneziani contestandone il dominio dell’Adriatico e partendo da basi nascoste sulla terraferma per attaccare i convogli; in particolare, per gli anni 1625 – 1630 si segnalano frequenti incursioni dei legni barbareschi tunisini e algerini che, partendo dalle loro basi in Nord Africa, risalivano l’Adriatico per depredare i bastimenti mercantili e rendere schiavi gli equipaggi, i quali finivano a fare da vogatori

89 Ibidem

90 Ivi. Pag. 54. La citazione è da qui tradotta testualmente

91 È probabilmente a questo che si deve l’errore di Damerini riguardo alla nonna Badoer di cui parlavamo poco fa;

probabilmente, il Damerini ha considerato l’imbarco sulla galea di Piero Badoer come una naturale conseguenza del suo rapporto con la nonna, che però Francesco non conobbe mai

92 A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 527

93 DBI, voce Francesco Morosini di Giuseppe Gullino, http://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-

sulle imbarcazioni assalitrici. Il tutto avveniva sotto la protezione, o almeno il tacito consenso, dell’Impero Ottomano, con il quale ad onor del vero in quegli anni correvano discreti rapporti diplomatici e commerciali.

La vicenda era ben nota negli ambienti militari veneziani ed europei, ma per evitare contrasti diplomatici ben peggiori si evitava di far ricadere la responsabilità dell’accaduto sulla Sublime Porta, mentre viceversa quest’ultima chiudeva un occhio sulle frequenti rappresaglie veneziane che a più riprese cercarono, con alterne fortune, di eliminare la minaccia piratesca nelle proprie acque.

Nel 1638 si avvertiva una fastidiosa scorreria di navi barbaresche che, risalendo l’Adriatico, avevano inizialmente attaccato le città costiere calabresi per poi minacciare Cattaro e infine rifugiarsi nei sicuri porti dell’Albania (a Vallona) sotto la protezione delle batterie costiere turche94.

Il fatto non poteva restare impunito a Venezia, che infatti decise di intervenire tempestivamente: Marin Capello giunse quindi con le sue squadre navali di fronte al porto albanese, tentando di provocare l’uscita o la fuga delle navi avversarie, ma non poté aprire il fuoco contro di esso per non causare un incidente diplomatico con le autorità turche che effettivamente, secondo il Damerini e le cronache ufficiali, aprirono il fuoco in segno di avvertimento.

Costretto ad incrociare con le sue navi al largo, Capello dovette sperare in un tentativo di fuga delle navi barbaresche, tentativo che per fortuna dei veneziani avvenne il 5 luglio 163895, ma che fu fugato grazie all’intervento dei vascelli lagunari, che abbordarono o danneggiarono diverse imbarcazioni nemiche, costrette a tornare in porto.

Il blocco andò avanti, ininterrotto, fino ai primi di agosto (precisamente il 7) quando il Provveditore Generale, temendo l’arrivo di rinforzi nemici, decise di rischiare una guerra aperta con l’Impero Ottomano attaccando lo stesso porto e le navi nemiche ivi ancorate, distruggendone molte, incendiandone altre, catturandone alcune96 (secondo Arrighi, sedici catturate, di cui quattordici poi affondate, una data come premio a pirati, probabilmente dalmati, che avevano aiutato i veneziani nello scontro, l’ultima mandata a Venezia come bottino di guerra e in seguito restituita).

Per fortuna della Serenissima il Sultano Murad IV, dopo alcuni giorni di indugio, decise di lasciar cadere l’accaduto e di accettare da parte dei veneziani il pagamento dei danni arrecati al porto di Vallona e la restituzione di una galea algerina condotta in precedenza a Venezia come trofeo di guerra97; in cambio, il sultano avrebbe posto un freno alle scorrerie dei pirati barbareschi sull’alto Adriatico, impedendone l’accesso ai porti ottomani nella penisola balcanica.

Anche se l’azione in sé non portò a conseguenze pratiche di rilievo essa rappresentò il primo, prematuro battesimo del fuoco per Francesco Morosini, che probabilmente si

94

G. DAMERINI, op. cit. Pag. 47

95 Ivi. Pag. 48 96 Ibidem

97 I fatti della galea da restituire non sono chiari in proposito: il Damerini non prosegue nella trattazione dell’accaduto,

mentre l’Arrighi sostiene che la galea algerina non fu effettivamente restituita, ma che anzi al momento della redazione della sua opera (1750) essa si trovasse ancora a Venezia, al museo navale

convise ancora di più della propria scelta di vita, scelta incoraggiato anche dal nullo conto di perdite veneziane consistenti in soli feriti leggeri98.

Dopo questo scontro iniziale è probabile che il Morosini si impratichisse delle tecniche nautiche e guerresche sotto l’occhio attento e vigile del Badoer, imparando ben presto a come governare una nave, le leggi segrete e palesi che vigevano a bordo, come condividere i pochi lussi e i molti disagi della vita imbarcata, fraternizzare con le varie manovre correnti e immobili (si chiamano in tal gergo tutte le strutture che permettono a una nave di essere manovrata, come drizze e scotte) della galea e divenire quindi il genere di abile ufficiale di cui la Serenissima aveva disperato bisogno.

Per comprendere la difficoltà del mestiere del quale Francesco Morosini divenne un’icona del proprio tempo, è utile a questo punto fare una breve descrizione degli strumenti che, a metà XVII secolo, si avevano a disposizione per la guerra sui mari. La galea continuò a rappresentare, come per il secolo precedente, la regina del mar Mediterraneo e dell’Egeo; imbarcazione mista, a due alberi a vele latine, aveva dai 24 ai 27 banchi di rematori (di più era considerata una “Bastarda Generalizia”, riservata cioè ai comandanti della flotta); l’entità dell’equipaggio variava molto, ma in totale poteva essere tra i 250 e i 300 uomini tra vogatori, ufficiali, soldati di fanteria e serventi ai pezzi.

L’armamento era concentrato a prua, generalmente consistente in una colubrina di grande calibro, mentre ai lati potevano essere presenti armamenti di rango inferiore, come i cosiddetti “Falconetti” con funzione antiuomo99.

Più possente e di pescaggio maggiore, la galeazza era un’invenzione tutta Veneziana, introdotta nella battaglia di Lepanto e poi copiata da diverse marine compresa quella ottomana dove era denominata “Mavuna”; è molto spesso citata con il termine “Maona”. I banchi di vogata erano qui aumentati fino al numero massimo di 46, e l’equipaggio poteva raggiungere ben 900 uomini imbarcati; l’armamento era maggiore in proporzione a quello della galea, consistente in 8 colubrine di alto calibro, quattordici cannoni di varie dimensioni e il variegato arsenale delle armi minori100.

Infine vi era la categoria dei navi a vela, le quali nei rapporti ufficiali comparivano la maggior parte delle volte sotto il termine generico di “vascelli”; di stazza generalmente maggiore di quella di galee e galeazze, i vascelli erano affidati completamente alla propulsione velica ed erano caratterizzati da un maggior numero di batterie d’artiglieria ma anche da una minore agilità dovuta alle loro dimensioni imponenti e alla dipendenza dai venti101.

Solo dalla “semplice” descrizione tecnica dei bastimenti impiegati traspare la difficoltà dell’arte navale del periodo; continuiamo però a seguire le vicende del Nostro.

Dopo il 1638, ritroviamo Francesco Morosini nella guardia di Candia, dove rimase per i successivi tre anni come “nobile di poppa”, concludendo con successo brillante il suo tirocinio come apprendista comandante.

98

Riferimenti allo scontro sopra descritto possono essere trovati in G. NANI, op. cit., e in P. PARUTA, Degl'istorici delle

cose veneziane: i quali hanno scritto per pubblico decreto, Vol. IX, Venezia, 1718 – 1722. Pag. 604

99 Un’accurata descrizione della galea tipica, dalla quale è stato qui redatto un sunto, può essere trovata in B. MUGNAI,

A. SECCO, op. cit. Vol. II. Pag. 43

100

Ivi. Pag. 44

Pochi anni dopo, nel 1641 e concluso il suo periodo di apprendistato, ottenne il primo vero incarico: fu infatti nominato “sopracomito”102, ossia comandante di galea (che le fonti non riportano nel nome, anche se quasi certamente non fu la “Croce dorata” che poco tempo dopo la battaglia di Naxos e Paros sarebbe divenuta la sua ammiraglia per qualche tempo).

Certo fu il fatto che Morosini rinominò la sua nave con il motto che sarebbe poi divenuto la sua filosofia di vita: “In Certamine prima” (prima in battaglia), a simbolo ed indice del suo irruento carattere103.

Il perfezionismo e l’accuratezza per la perfetta tenuta dei propri strumenti bellici e dell’equipaggio, che caratterizzeranno l’agire di Morosini per i successivi cinquant’anni, lo fecero ben presto assurgere al ruolo di uno dei più promettenti comandanti veneziani, a discapito dell’età non ancora avanzata e gli valsero, qualche mese dopo i fatti narrati, il conferimento di bacchetta e copricapo, concessi dai vari Comandanti Generali solamente a quei capitani in grado di dimostrare integerrima condotta e straordinarie doti caratteriali (oltre che pratiche) nella conduzione di una nave da guerra.

Da questo momento in poi, Morosini potrà fregiarsi dell’appellativo di “sopracomito scelto”104.

Le sue prime azioni consistettero tuttavia in piccole scaramucce, peraltro poco chiare, contro i corsari barbareschi105; il vero battesimo del fuoco in quanto comandante di galea avverrà invece pochi mesi dopo, nel corso della breve guerra di Castro.

Il cosiddetto conflitto di Castro (1641 – 1644), chiamato anche “prima guerra di Castro” (alla quale ne seguirà una seconda, 1646 – 1649), scoppiò a causa del predominio sul ducato laziale omonimo tra la famiglia Farnese di Modena e lo Stato Pontificio, in particolar modo con i nipoti e gli alleati di Papa Urbano VIII che ne rivendicavano il possesso106. L’occupazione, considerata illegale, da parte delle truppe pontificie del territorio ducale fu la famosa goccia che fece traboccare il vaso e scoppiare la vera guerra, dopo un escalation di tensione tra i due contendenti; Venezia, in quanto alleata dei duchi di Modena e Toscana e desiderosa di mettere in chiaro il proprio dominio dell’Adriatico contro le mire espansioniste papali, ebbe il compito di gestire la guerra navale.

Nei pochi effettivi scontri che seguirono, Francesco Morosini non mancò di segnalare il proprio valore, partecipando (o meglio conducendo da solo) al bombardamento di Cesenatico e Senigallia dalla sua galea, su espresso ordine di quel Lorenzo Marcello che alcuni anni dopo avrebbe guidato la flotta veneziana nella grande vittoria dei Dardanelli, a costo però della sua stessa vita.

Nell’estate 1645, ormai avviato sulla buona strada per fare carriera, Morosini fu mandato dal Cavaliere Francesco Molin, all’epoca Provveditore Generale, a trasportare sulla

102

ASVE, ms., Segretario alle voci. Elezioni in Maggior Consiglio, registro 17, carta 184

103 A. DA MOSTO, op. cit. Pag. 527 104 G.DAMERINI, op. cit. Pag. 49

105 Per “poco chiare” intendo più che altro infruttuosi inseguimenti, dal momento che i pirati barbareschi preferivano

fuggire alla vista di navi da guerra nemiche, difficili e al contempo poco profittevoli sul piano del bottino, per potersi

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