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Gl’emolumenti, e vendite spetanti al Dogado siano somministrate alla Casa di Sua Serenità, perché subito all’obligo del Dogado, vada il rimanente a’ commodo di Sua

Serenità, e gli sia riservato con ogn’altra prerogativa, et dispositione, come se si

trovasse presente.

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L’apertura segnala innanzittutto la necessità di procedere all’elezione di un segretario del Collegio facente funzione di messaggero, con il compito di recarsi celermente all’armata e di consegnare a Francesco Morosini la notizia, il tradizionale berretto ducale e un libro di formule da osservare e imparare per la sua nomina effettiva.

Seguono da subito le prerogative di carattere economico (ricordiamo infatti che ogni Doge doveva provvedere da sé al sostentamento proprio e della propria famiglia dal momento dell’elezione alla carica), prevedendo il rilascio di duecento ducati come anticipo e di cento ducati al mese per le necessità più basilari (“cento al mese supplitto

all’occorenza”).

Rientrava poi nei diritti di ogni nuovo Doge il poter impiegare le proprie insegne precedenti sulle navi e in determinate occasioni; conferimento di fondamentale importanza, il bollo di piombo. Con tale oggetto si avallavano Commissioni ducali, lettere governative e ogni altro atto ufficiale della suprema dignità della Repubblica di Venezia; era quindi di capitale importanza conferire il timbro solamente al Doge in

persona, che ne era responsabile e in caso di danneggiamento o scomparsa dello stesso avrebbe dovuto immediatamente far partecipe il Senato dell’accaduto.

Segue la dicitura intestataria ufficiale con la quale si dovranno redigere tutte le lettere inviate al governo (che non venivano intestate al singolo ufficio di competenza, ma al Doge stesso e poi smistate dalla Cancelleria di Stato); molto interessante a mio avviso il passaggio successivo: “nelle sue [lettere] si contenterà sia scritto Serenissimo Dominio

Venetian”, quasi a significare che l’ego del Morosini e la sua smania di sottolineare

pomposamente ogni carica ottenuta avrebbero dovuto essere limitate dalla forma tradizionalmente adottata, anche se tale formula rientrava in molti altri esempi differenti. Specificati questi punti, si procederà all’elezione di due consiglieri ducali da affiancare al Serenissimo Doge per monitorarne e sorvegliarne l’operato; tali coadiutori riceveranno trenta ducati al mese di stipendio e ben seicento ducati come una sorta di “premio d’ingresso”. Essi dovranno poi scegliere una galea ciascuno da utilizzarsi per seguire gli spostamenti del Doge sulla propria o sul Bucintoro.

I loro alloggi, in presenza del principe, saranno vicini ai suoi, mentre in sua assenza essi dovranno dimorare nello stesso Palazzo Ducale, e in tal caso riceveranno ben trecento ducati al mese per il sostentamento delle spese correnti proprie e dei propri famigliari. Infine tutte le suppellettili, gli stendardi e altri oggetti simbolici dovranno essere allestiti a Venezia anche in assenza temporanea del Serenissimo Doge, “come se si trovasse

presente”.

La regalità ducale passava anche per tali espressioni burocratiche e standardizzate, senza le quali l’ingente regime cerimoniale del principe avrebbe risentito in termini comunicativi e tradizionalisti.

La modifica dello stemma di famiglia

Assurto al trono dogale, Morosini provvide a glorificare la propria immagine; dopo molti anni passati in guerra, aveva finalmente la possibilità di godere di vantaggi e privilegi accordatigli in seguito al suo rimpatrio a Venezia.

Approdato al Lido l’11 gennaio 1690, dopo le formalità di rito e l’incoronazione ufficiale poté concedersi qualche giornata di riposo prima di iniziare ad occuparsi dei suoi nuovi doveri come massima carica rappresentativa repubblicana; se atti, avvenimenti e analisi di incontri con gli ambasciatori stranieri in Collegio saranno al centro della nostra analisi in paragrafi successivi, occupiamoci ora dello stemma di famiglia che il Morosini fece modificare una volta divenuto Doge.

Con un decreto mai emanato in precedenza, il 25 novembre 1690 concesse a se stesso la possibilità di modificare lo stemma famigliare, ultimo esempio della glorificazione personale nella quale si inseriva consapevolmente la sua figura.

Esso riassunse una serie di simboli e significati desunti dalle sue passate imprese militari contro l’Impero Ottomano, ma anche elementi che miravano al ricongiungimento con il passato famigliare certamente glorioso e non privo di significati performativi: di forma ovale, è interzato in palo, con al primo di rosso alla croce d’argento, al secondo d’oro con banda azzurra, che presenta anche tre gigli posti in palo, mentre al terzo di rosso raffigurante uno stocco di acciaio e l’elsa d’oro, evidenziato anch’esso in palo e che regge il pileo d’oro, doni entrambi del pontefice Alessandro VIII; allo stemma sono affiancati, quattro per lato, otto stendardi e otto code dove ognuna di queste ultime pende

sul corrispettivo stendardo sottostante. Sopra di essi si possono notare due fiamme e tre code, rappresentanti trofei catturati in battaglia ai turchi. La croce che spicca nella parte superiore dello stemma raffigura quella donata dal re d’Ungheria Andrea, figlio di Tommasina Morosini e da Carlo Emanuele I di Savoia, mentre i tre gigli presenti simboleggiano quelli concessi dal re di Francia Luigi XIII.

Scendendo maggiormente nel dettaglio, gli otto stendardi citati rappresentano quelli conquistati dalla galea del corsaro Durac Pascià e a quattro sue beilere, sconfitte nel 1668 presso San Pelagia, mentre i rimanenti tre appartengono ai vascelli turchi dell’“Almirante” (ammiraglio) durante la battaglia di Naxos e Paros del 1651, a quello del Bey di Cipro dello scontro di Scio nel 1652 e a quello di Alì Pascià sconfitto nel 1659. Le code laterali raffigurano invece le sei insegne turchesche rispettivamente dei Pascià di Nauplia, di Chiefalà, di Corone, di Modone, di Navarino Nuovo, di Santa Maura e i due stendardi appartenuti al Visir Kalil, fatto fuggire alla battaglia di Corone nel 1685.

Le code poste sopra lo scudo ritraggono invece quelle conquistate al seraschiere ottomano durante lo scontro di Patrasso del 1687 (quelle vere saranno collocate nella sala d’armi del Consiglio dei X vicino al busto di Morosini), mentre le due altre fiamme presenti ricalcano quelle di due galere turche catturate presso Nauplia nel 1686.

Lo stemma era visibile, in legno dipinto d’oro, presso la sacrestia della chiesa di Santo Stefano alla quale il Morosini era sinceramente affezionato e oggi è collocato nel palazzo omonimo a San Vio335.

Abbiamo una descrizione redatta forse di propria mano dallo stesso Morosini e presentata nell’opera di Bartolomeo Cecchetti sul suo funerale e il suo testamento dei quali ci occuperemo nella parte finale del capitolo336; in tale scritto il Doge si esprime con vanto sul nuovo stemma concepito e le sue parole dimostrano quanta attenzione dovesse aver impiegato nella modifica del suddetto:

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