Nell’ultimi due decenni del secolo intrapresero la loro attività anche altri numerosi poeti, che i grammatici catalogarono tra gli autori della Nea, segnalando tra i piú rappresentati-vi Filemone, Menandro, Difilo, Filippide, Posidippo e Apollodoro557. Il loro teatro, però, anche se cronologicamente vicino a quello di Aristofane, in realtà era lontanissimo dall’e-sperienza dei comici dell’Archaia per la diversa scelta delle tematiche, per la differente fun-zione della comicità, per la trasformafun-zione dei principali elementi formali (struttura, trama, personaggi, coro).
Dalla produzione comica compresa nel periodo che va dalla fine del IV agli inizi del III a.C. non emerge piú alcun stretto legame con gli spettatori e le istituzioni di Atene: la polis era diventata una città sottomessa a egemonie straniere, cosicché ai comici in breve tempo erano venuti a mancare sia la difesa garantita loro dalla parrhesia, sia l’interlocutore prima-rio, cioè l’opinione pubblica che rifletteva la genuina espressione di un effettivo dibattito politico interno a una comunità sovrana.
Inoltre i commediografi cominciarono a rappresentare le loro opere anche nei teatri durante gli agoni comici allestiti fuori dell’Attica, come a Delfi, a Delo, a Orcomeno, a Samo e negli altri territori ellenizzati. In quel diverso contesto trovavano spazio soprattutto il vissuto quotidiano di un’umanità ordinaria, rappresentata nel suo privato, nonché i temi universali attuali in ogni epoca, quali i valori morali, i sentimenti, le virtú e i vizi degli indi-vidui: dolore, gioia, rivalità, amicizia, avarizia, generosità, odio, amore.
Progressivamente i commediografi spostarono la prospettiva dalla polis al nucleo fami-liare, l’unica istituzione comunemente condivisa: essa rappresentava il mondo dell’umana comprensione e della sicurezza affettiva, nonostante i turbamenti provenienti dall’esterno che quotidiamente tentavano di minarlo. La famiglia, tuttavia, non era quella tradizionale, basata sul principio di autorità, bensí quella in cui erano favoriti i rapporti paritari tra vecchi
e giovani, tra padri e figli. Le relazioni si estendevano ulteriormente all’esterno, includendo i legami di amicizia e di solidarietà con i vicini. Analogo era il rapporto amoroso, che impli-cava la conoscenza, la lealtà e la stima reciproca; cosí immaginato, anch’esso si configurava moralmente come valore assoluto.
Però, la mimetica riproduzione della vita routinaria toglieva linfa vitale all’antico eroe comico, le cui eccentriche e straordinarie azioni erano sostituite da semplici atti della nor-malità, sostenuti da motivazioni etiche, senza contare che i funambolici progetti, principî motori delle vicende dell’Archaia, in consonanza con una visione peripatetica cedevano il posto al piú banale intento di sottrarsi agli avversi colpi della sorte (Tyche); il proposito era puntualmente realizzato nel finale grazie alla cooperazione dell’insieme dei personaggi, cosí da evidenziare la vitale importanza della solidarietà umana558.
Come accennato prima, alla radice di quella situazione stava il cambiamento della socie-tà avvenuto dopo le imprese di Alessandro Magno. Il susseguirsi di mutamenti di regime e l’instaurazione di governi moderati, se non addirittura oligarchici, che avevano promulgato leggi per restringere il godimento del diritto di cittadinanza sulla base di criteri censori, ave-va costretto la parte meno abbiente della popolazione all’emarginazione dalla vita politica, provocando disaffezione oltre che disparità e tensioni. Nel contempo andava affermandosi un forte individualismo e la propensione al ripiegamento nel privato.
Luogo ideale di rifugio dalle turbolenze sociali divenne la campagna, dove andava a iso-larsi chi desiderava una vita autarchica, antitetica all’esistente politico e alla vita associata559. Per di piú la sospensione del contributo, che aveva consentito a tutti la partecipazione alle rappresentazioni (θεωρικόν), aveva provocato l’esclusione dei meno abbienti dalla frequen-tazione delle grandi manifestazioni festive e in definitiva dalla cultura.
I mutamenti avevano portato a una diversa composizione del pubblico, che risultava costituito per lo piú da artigiani, imprenditori, piccoli proprietari terrieri. I nuovi spettatori, generalmente agiati e colti560, erano invitati a rispecchiarsi nei protagonisti delle vicende proposte a teatro, diventato luogo di evasione e di divertimento.
Testimone dei nuovi gusti e delle differenti aspettative degli spettatori dell’ultima parte del secolo, fu senza dubbio Aristotele, quando nella Poetica si sofferma su come si debba comporre una buona tragedia, consigliando di abbozzare l’intreccio nelle linee generali, anche quello dei racconti inventati, prima di svilupparlo561.
558 Cfr. Men. inc. fab. fr. 686 PCG: εἰ πάντες ἐβοηθοῦμεν ἀλλήλοις αἰεί, | οὐδεὶς ἄν ὢν ἄνθρωπος ἐδεήθη τύχης.
559 Cfr. Men. Dysc. 713-714; Georg. 77-82; fr. 299 PCG (La collana). Sul problema vd. Arist. Eth. Nic. IX 1169b 3 ss. L’interesse per il mondo agricolo diventa forte nei comici della Mese e della Nea, come si enuclea dalle numerose opere dedicate agli abitanti della campagna.
560 Plut. Comp. Aristoph. et Men. 854b.
La raccomandazione fu seguita anche dai commediografi, stando a un aneddoto concer-nente il fare poetico di Menandro562, da cui si evince la preminenza data dal poeta alla scelta dei πράγματα rispetto alla stesura in versi: la trasformazione in trattazione drammatica di fatti privati richiedeva all’autore di essere demiurgo di una realtà non effettuale, ma possi-bile563. Dunque Menandro, avvertendo le difficoltà del mestiere in un’epoca in cui il genere stava mutando, seppure attraverso la mediazione dei personaggi, non mancò di presentarsi come pioneristico sperimentatore di nuovi strumenti, montando ingranaggi inediti, che portavano a una soluzione plausibile e vincente, senza ricorrere alla comicità triviale e ai soliti stereotipi di effimera esistenza564.
Oltre alla scomparsa della parabasi e dell’agone, novità rilevante delle nuove commedie fu la ripartizione in 5 atti (μέρη)565, separati da interludi musicali autonomi, contrassegnati nei papiri dalla sigla χοροῦ. In esse, secondo la teorizzazione di Aristotele566, il nodo (δῆσις) occupava i primi tre atti, il mutamento (μετάβασις) aveva luogo nel quarto atto durante una breve scena di riconoscimento, quando avvenivano senza enfasi lo scioglimento (λῦσις), che poneva fine agli equivoci, e il felice esito.
Invariabilmente nelle commedie menandree c’è qualcuno che rimane all’oscuro degli ultimi sviluppi e costui riceve da ultimo le informazioni necessarie già apprese da tutti gli altri. Il modo di recuperare quel personaggio che era stato escluso dal lieto finale è fornito nel quinto atto, che pertanto, pur procedendo con toni farseschi, non si trasforma in con-tenitore di variazioni comiche dell’atto precedente: cosí, per esempio, succede a Smicrine nell’Arbitrato oppure a Polemone nella Ragazza tosata di Menandro.
Altre volte un personaggio, che si era posto ai margini per propria scelta, è reintegrato nel rappacificamento generale grazie al favore disinteressato (χάρις) degli altri coinvolti nella vicenda; la lieta riconciliazione nel finale si sostanzia spesso in una festa e nell’inevitabile matrimonio tra i bene educati giovani protagonisti, portatori dei saldi valori morali (αἰ-δώς e φιλανθρωπία) secondo l’insegnamento aristotelico. Cosí, per esempio, si verifica nella
Donna di Samo per Moschione, nello Scudo per Smicrine e soprattutto nell’Intrattabile per
562 Plut. De gloria Atheniensium 347f.
563 Sulla scelta dei temi, l’elaborazione delle trame in una determinata situazione di luogo e di tempo, la stesura dei canovacci secondo precise convenzioni (il rispetto dei criteri di verisimiglianza, misura e unità), la distribuzione dei ruoli e l’allestimento scenico, infine per le considerazioni relative agli influssi delle teorie peripatetiche sulla drammaturgia di Menandro vd. C. Corbato, Sulla poetica menandrea, in Scritti di letteratura
greca, Trieste 1991, pp. 65-76; Id., Il Dyskolos di Menandro: un saggio, in Scritti di letteratura greca, cit., pp.
107-122, in particolare pp. 110 ss.
564 C. Corbato, Dopo la pubblicazione del Papiro Bodmer XXVI, in Scritti di letteratura greca, cit., pp. 177-188; in particolare pp. 182 ss.
565 Marc. Aurel. XII 36, 1.
566 Arist. Poet. XVIII 1455b 24-29, che porta come esempio paradigmatico la peripezia del Linceo di Teo-dette. Vd. I. Karamanou, The Lysis in Theodectes’ Linceus: Remarks on Arist. Poet. 11, 1452a 27-29 and 8, 1544b
Cnemone567. Comunque le vicende mirano a dare valore assoluto all’assennatezza, alla mo-derazione e all’equilibrio (σωφροσύνη, μετριότης, κοσμιότης); grazie a queste qualità i perso-naggi, sul piano personale e privato, riescono a venire a capo di situazioni, che la legislazione contemporanea non era capace di risolvere.
567 Si tratta di una commedia giovanile, che ha ancora una struttura con episodi configurati in modo autonomo, senza i prevedibili serrati legami di causa-effetto. L’intento è quello di fare risaltare il carattere del protagonista Cnemone attraverso alcune scene digressive, la cui comicità risente ancora dei meccanismi comici elementari, legati alla farsa (M. Fantuzzi - R. Hunter, Muse e modelli, cit., pp. 495-496).
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Menandro
Il poeta che gli antichi considerarono il piú rappresentativo della nuova fase del genere co-mico fu Menandro. Figlio di Diopite, nacque nel demo di Cefisia in Atene nel 342-341 a.C. e fu efebo insieme al coetaneo Epicuro nel 323, l’anno in cui Aristotele si rifugiò a Calcide per non essere coinvolto nella rivolta scoppiata in città contro i mercenari di Leostene per la riconquista della libertà e dell’autonomia. Frequentò la scuola di Teofrasto e intrattenne amichevoli rapporti con il gruppo di intellettuali vicini a Demetrio Falereo, che governò la città in nome di Cassandro per un decennio a partire dal 317 a.C. In questo periodo il poeta si affermò nella carriera teatrale, iniziata in giovane età, avendo appreso i rudimenti dell’arte da Alessi. Nel 307 a.C. Demetrio I Poliorcete, figlio del generale macedone Antigono Mo-noftalmo, conquistò Atene, dove fu accolto in maniera calorosa. In quella circostanza Me-nandro rischiò di essere processato perché apparteneva all’entourage artistico-letterario del Falereo, che nel frattempo si era rifugiato in Beozia prima di approdare definitivamente in Alessandria presso Tolomeo I Sotèr. Si salvò grazie all’intervento di un certo Telesforo, cugi-no del Poliorcete. Successivamente nel 302 a.C. con la presa del potere da parte del tirancugi-no Lacare gli fu impedita la messa in scena degli Imbrii. Menandrò rifiutò l’allettante invito a recarsi alla corte egiziana e preferí risiedere sempre nella sua amata Atene. Morí nel 291 a.C. all’età di 52 anni, secondo un’incerta tradizione, mentre nuotava nel porto del Pireo568.
Menandro esordí giovanissimo nel 322/321 con l’Ira, all’indomani delle sconfitte subìte dalla coalizione antimacedone capitanata da Atene e della resa della città ad Antipatro. Nel 316, dopo che il Falereo aveva appena preso il potere nella città di Atene, ottenne la vittoria alle Lenee con L’intrattabile ovvero il misantropo, come attesta correttamente l’hypothesis;
568 I.G. XIV 1184 = I.G.U.R. IV 1527, vd. H. De Marcellus, IG XIV 1184 and the Ephebic Service of
Me-nander, «ZPE» 110, 1996, pp. 69-76; Prolegomena de Comoedia I 57 ss. Koster; Ov. Ibis 591 e relativo schol. ad loc.; Suda μ 589 Adler; Diog. Laert. V 36. Sulla censura degli Imbrii vd. P.Oxy. X 1235. Sul periodo storico in
cui visse il poeta vd. da ultimo F. Montana, Menandro ‘politico’ Kolax 85-119 Sandbach (C190-D224 Arnott), «RFIC» 137, 2009, pp. 302-338.
probabilmente intorno al 314 a.C. presentò la Ragazza tosata e finí ultimo alle Dionisie del 312 a.C. con l’Auriga569. In trent’anni di intensa attività compose tra 105 e 109 commedie, imperniate su vicende della quotidianità a sfondo sentimentale e a lieto fine. In tutta la sua vita riuscí a conquistare soltanto 6 vittore ai concorsi drammatici delle Dionisie e 2 a quelli delle Lenee, perché i contemporanei gli preferivano il piú anziano Filemone570. Dopo la morte gli Ateniesi lo riabilitarono erigendogli nel teatro di Dioniso una statua di marmo, opera degli scultori Cefisodoto e Timarco, figli di Prassitele571.
Nonostante la rivalutazione operata dai posteri572 e l’assunzione tra i classici compiuta dai grammatici alessandrini, le opere di Menandro furono conservate soltanto fino all’VIII sec. Però, i fortunosi ritrovamenti papiracei, avvenuti a partire dalla metà del XIX secolo, ci consentono di leggere quasi per intero il giovanile L’intrattabile ovvero il misantropo, par-zialmente L’arbitrato, La ragazza tosata, La donna di Samo, Lo scudo, I Sicionii e porzioni meno cospicue di altre opere (Il contadino, Il doppio seduttore, L’eroe, L’invasata dalla dea, Il
Cartaginese, Il suonatore di cetra, L’adulatore, L’odiato, La donna di Perinto, L’apparizione, Le
bevitrici di cicuta), senza contare i numerosi frammenti di tradizione indiretta573.
Per illustrare sulle scene la nuova realtà sociale e culturale, il poeta scelse personaggi co-muni, dando loro sostanza realistica e spessore psicologico, affinché gli spettatori potessero agevolmente riconoscersi in loro e popolò le commedie di un’umanità connotata ideologi-camente, preoccupata di tutelare patrimoni, beni immobili, relazioni interpersonali, come condizione necessaria per mantenere il prestigio sociale.
569 I.G. II2 2323, 38. Diversa è la ricostruzione sostenuta da P.A. Iversen, Menander‘s Thaïs: Hac primum iuvenum lascivos lusit amores, «CQ» 61, 2011, pp. 186-191, secondo il quale la prima commedia rappresentata nel 321 a.C. sarebbe stata Taide, invece l’Ira sarebbe andata in scena nel 315 a.C. agli agoni dionisiaci ottenendo la vittoria.
570 I.G. II2 2325, IV, 160; Apollodor. 244 FGrHist fr. 43; Gell. N.A. XVII 4, 4-6. Vd. A. Blanchard, Destins
de Ménandre, «Ktema» 22, 1997, pp. 213-225. Cfr. Mart. V 10: Raro coronato plausere theatra Menandro. Vd.
L. Pini, Omero, Menandro e i classici latini negli Apohoreta di Marziale, «RFIC» 134, 2006, pp. 443-478.
571 Paus. I 21, 1; cfr. I.G. II2 3777.
572 Dio Chrys. Or. XVIII 7; Dion. Hal. De imit. fr. 31, 2, 11; Plut. Comp. Aristoph. et Men. 853a; Manil.
Astr. V 470-476; Quint. III 7, 18; cfr. A. Garzya, Menandro nel giudizio dei tre retori del primo impero, «RFIC»
87, 1959, pp. 237-252. La popolarità di Menandro inizia abbastanza presto, già dagli inizi del III a.C., come si evince dalla documentazione iconografica; cfr. E. Simon, Menander in Centuripe, Stuttgart 1989. È databile all’ultimo quarto del II a.C. il “Fregio degli attori” nella “Casa dei Commedianti” a Delo con le scene dipinte tratte da commedie menandree (Περινθία, Περικειρομένη, Ἀσπίς) e dall’Edipo a Colono di Sofocle; cfr. V.J. Bruno,
Hellenistic Painting Techniques. The Evidence of the Delos Fragments, Leiden 1985, pp. 22-30.
573 A. Martina, Menandrea. Elementi e strutture della commedia di Menandro. I, Pisa-Roma 2016. Rimane inedito un frammento palinsesto ascrivibile agli inizi del IV d.C., riusato nell’anno 886 per scrivere un testo teologico siriaco e scoperto nel 2003: si tratta di un paio di bifogli con quasi 200 versi dell’Intrattabile ovvero
Il misantropo (Men. Dysc. 305-500) e circa 400 versi di una commedia menandrea senza titolo, appartenenti
probabilmente alla Nutrice (Vat. Sir. 623). Nel brano superstite si riconosce una vicenda in cui sono coinvolti una νύμφη, un παιδίον e una γραῦς; si fa riferimento al parto, probabile esito di una violenza. Vd. L. Perria, Tra
Di solito i drammi superstiti partono da situazioni in cui la stabilità familiare è minac-ciata da qualche evento imprevisto (ἀτύχημα) o dai limiti dell’agire umano (ἁμάρτημα), mai da un deliberato atto di ingiustizia (ἀδίκημα)574.
Una pluralità di personaggi concorre allo svolgimento dell’azione, che attraverso una serrata sequenza di equivoci, impedimenti, incomprensioni, intrighi e sorprese di ogni tipo evolve verso il lieto finale. La trama solitamente è pervasa da sorrisi melanconici, scaturiti da una certa indulgenza per le disavventure derivate da atti improvvidi o dalla solidarietà per le sofferenze patite. I protagonisti oltretutto hanno sempre una cieca fiducia nella ragio-ne, che in genere si identifica con il buon senso comune e nella serena rassegnazione degli avvenimenti causati da Tyche, la nuova divinità che aveva relegato fuori dal mondo umano gli dèi Olimpî575.
Comunque è Tyche a determinare l’immancabile lieto finale, nel quale sono contenuti gli inviti a portare fiaccole e corone, preannuncio di un imminente matrimonio, e all’applauso, con l’invocazione conclusiva rivolta alla Vittoria in favore degli attori576.
Operando in una società, che in modo consapevole favoriva il controllo della natalità, con la forte limitazione delle nascite e con la prassi dell’esposizione dei neonati, Menandro sviluppò peripezie di figli abbandonati e di giovani tardivamente riconosciuti dai genitori naturali, intrecciate con peripezie amorose, ignote ai poeti dell’Archaia. A quella realtà fa riferimento l’Arbitrato, che appartiene alla piena maturità (304 ca.) e che Terenzio avrebbe sfruttato nell’Hecyra.
Il dramma scaturisce dalla giovane Panfila, che dopo aver partorito clandestinamente durante una lunga assenza del marito Carisio, ha esposto il neonato con i relativi segni di riconoscimento (ἀναγνωρίσματα), spinta dal timore che il neonato sia frutto di una relazio-ne adulterina. Anche relazio-nella Ragazza tosata577 la vicenda trae origine dall’esposizione di due gemelli abbandonati da genitori costretti a vivere nell’indigenza.
Le trame, fatte salve alcune differenze marginali, sono costituite da situazioni stereo-tipate, come per esempio, il rapimento di una bambina venduta schiava, che alla fine è
574 Vd. Men. fr. 688 PCG: ἀτύχημα κἀδίκημα διαφορὰν ἔχει | τὸ μὲν διὰ τύχην γίνεται, τὸ δ᾿ αἱρέσει, dove è evidente il richiamo a categorie aristoteliche (Arist. Rhet. I 13, 1374b 5 ss.).
575 Vd. Men. fr. 197 (La canefora) : ἀλογίστου τρόπου | ἀτύχημα φεύγειν ἐστὶν οὐκ αὐθαίρετον; cfr. fr. 709
PCG. Vd. inoltre W.G. Arnott, Moral Values in Menander, «Philologus» 125, 1981, pp. 215-217, G.B. Giglioni, Menandro o la politica della convivenza, Como 1984, pp. 29-33.
576 Sul lieto finale coronato dal trionfo di amori contrastati vd. Ov. Trist. II 1, 369: Fabula iucunda nullast
sine amore Menandri. Sulla topicità della scena conclusiva e della formula di commiato vd. C. Corbato, Il Papiro d’Ossirinco 1239, Menandro e Plauto, in Scritti di letteratura greca, cit., pp. 123-157.
577 La commedia è datata a dopo il 314 a.C. per l’allusione all’assassinio di Alessandro, figlio di Poliper-conte, successore di Antipatro come reggente nella città di Atene (Men. Periceir. 279-281); vd. M.V. Tozzi, La
riconosciuta come libera cittadina: cosí inizia la vicenda dei Sicionii, in cui si susseguono numerosi eventi a sorpresa578.
A causa degli intrecci solitamente complessi, che seguono una vera e propria sequenza narrativa, secondo lo schema inventato da Euripide nell’Ifigenia fra i Tauri o nell’Elena e fatto proprio dai tragici del secolo successivo, le pièces hanno bisogno del prologo espositivo, una scena chiarificatrice, nella quale sono raccontati gli antefatti ed è preannunciata la con-clusione, per consentire al pubblico di appuntare l’attenzione su come si sarebbe svolta l’a-zione, piuttosto che su quello che sarebbe accaduto; al tempo stesso affidandogli la funzione di riordinare e discriminare con il dovuto distacco le informazioni date dai personaggi.
Nel prologo, unico momento in cui si rompe la finzione scenica, di solito sono impie-gati soltanto nomi comuni (ancella, amata, acquirente), cioè esso è costruito con la tecnica espositiva dell’indeterminatezza dei personaggi, secondo il noto principio sancito nella
Po-etica aristotelica. Per renderlo maggiormente funzionale allo spettacolo e per dare vivacità
alla parte iniziale, a volte l'esposizione degli antefatti è ritardata, capovolgendo lo schema sperimentato da Euripide, consistente nel far precedere il racconto da un paio di scene monologiche-dialogiche. Ciò si verifica nei Sicionii, dove Elenchos rivela agli spettatori alcu-ni decisivi particolari, ignoti ai personaggi umaalcu-ni della vicenda579.
L’espediente è impiegato anche nello Scudo, dove la narrazione postecipata degli ante-fatti e l’anticipazione del felice esito, oltre a dare credibilità al tragico compianto funebre, gli conferiscono maggiore pathos580. L’intervento divino, pertanto, rassicura il pubblico, chiarendo che lo spettacolo a cui sta assistendo non è una tragedia, ma una gradevole commedia581.
Il racconto di Davo e la successiva rettifica della divinità582, inoltre, risultano struttural-mente complementari, in quanto entrambi sono indispensabili allo sviluppo della vicenda e la condizionano sino alla conclusione. Se da un lato la notizia della presunta morte di Cle-ostrato desta la cupidigia di Smicrine che, per fare proprio il patrimonio del nipote, vuole far valere il suo diritto di sposarne la sorella, d’altro canto l’intervento divino preannuncia la frustrazione dell’intento, anticipando, però, un solo dato fondamentale dello svolgimento futuro: il giovane è vivo, ma prigioniero dei nemici, e sarebbe tornato presto a casa.
578 Vd. Menandro, Sicioni, con introduzione, testo e commento di A.M. Belardinelli, Bari 1994.
579 Luc. Pseudol. 4. Sull’ipotesi vd. C. Corbato, Studi menandrei, Trieste 1965, pp. 52-54 e 72-74.
580 Non sarebbe corretto definire quest’intervento divino un prologo posticipato, poiché anche le scene che lo precedono fanno parte integrante del prologo. Vd. F. Sisti, Sul prologo della Nea, in Filologia e forme letterarie.
Studi offerti a Francesco Della Corte, I, Urbino, 1987, pp. 306 ss.
581 G. Raina, L’ Aspis di Menandro: teatro e metateatro, in Studi offerti ad Anna Maria Quartiroli e Domenico
Magnino, Pavia 1987, p. 23. In generale vd. A. Martina, Menandrea. Elementi e strutture della commedia di Me-nandro. II, Pisa-Roma, 2016.
582 La giustificazione data da Tyche nell’intervento posticipato allude al fatto, ribadito piú volte nei testi tragici, che la divinità non può essere contaminata dalla presenza della morte (Eur. Alc. 22-23; Eur. Hipp. 1437 ss.; cfr. Aesch. Sept. 217-218; Eur. Tro. 25 ss.).
Per quanto riguarda specificamente la drammaturgia di Menandro è riconoscibile uno sviluppo partendo da una fase, in cui le commedie hanno scene accessorie finalizzate all’ef-fetto comico, fino alla maturità, quando le opere acquisiscono una struttura compatta, e