Non a caso sono legate alla figura del servo i due piú noti suoi frammenti. Il primo, estratto da una commedia ignota, esalta l’amore per la libertà con un’insistita e martellante allitterazione in un contesto dall’intento programmatico:
Libera lingua loquemur ludis Liberalibus. Con libero linguaggio parleremo ai Ludi Liberali668.
Il secondo, della Tarentilla, nel quale un servo con intento parabatico si vanta degli straor-dinari successi ottenuti nelle sue imprese sceniche:
Quae ego in theatro hic meis probavi plausibus, Ea non audere quemquam regem rumpere: Quanto libertatem hanc hic superat servitus!
Quello che io qui in teatro ho fatto approvare con i miei applausi, nessun re osa distruggere. Di quanto qui la schiavitú è superiore a questa libertà669.
Compose drammi con titoli greci (Acontizomenos, Agrypnuntes, Colax, Glaucoma,
Gum-nasticus, Stalagmus, Stigmatias, Technicus) in uno stile vigoroso e con un’inventiva
lingui-stica, che preludevano al teatro di Plauto, come lasciano intendere i titoli di alcune com-medie (Carbonaria, Colax, Fretum, Nervolaria) attribuiti da alcuni antichi commentatori a entrambi670.
Però, rispetto agli originali della Mese e della Nea, in Nevio le oscenità verbali erano molto piú esplicite (Apella, Testicularia, Tribacelus, Triphallus) e le trovate farsesche piú evidenti, come si verifica in una scena del Triphallus, quando un personaggio minaccia un servo reticente di trascinarlo in un luogo dove non avrebbe potuto ritardare a rispondere:
si cumquam quicquam filium rescivero argentum amoris causa sumpse mutuum: extemplo illo te ducam, ubi non despuas.
Se mai scoprirò che mio figlio per qualche affare d’amore ha preso in prestito denaro, immedia-tamente ti condurrò laddove non puoi sputare671.
Nei frammenti superstiti non mancano riferimenti all’attualità politica, con attacchi perso-nali nei confronti di illustri persoperso-nalità del tempo, quali Publio Cornelio Scipione l’Africa-no e Quinto Cecilio Metello.
668 Naev. inc. fab. 113 CRF.
669 Naev. Tarentilla 72-74 CRF.
670 Cfr. la discussa interpretazione di Ter. Eun. 25: Colacem esse Naevi et Plauti veterem fabulam.
Quelle mordenti battute miravano soprattuto a irridere e schernire episodi di vita pri-vata, come si desume dai versi rivolti presumibilmente contro Scipione per una piccante vicenda amorosa attraverso un’arguta allusione letteraria:
Etiam qui res magnas manu saepe gessit gloriose
cuius facta viva nunc vigent, qui apud gentes solus praestat eum suus pater cum pallio uno ab amica abduxit.
Anche lui che gloriosamente compí grandi imprese, la cui opera è ancora valida e viva, se solo si eleva tra i popoli, proprio lui col solo mantello portò via suo padre dall’amica672.
Il duro contrasto con la famiglia dei Metelli lo avrebbe fatto finire in carcere per ordine dei triumviri. Durante la presunta prigionia compose due commedie (Hariolus, Leon) ritrat-tando i suoi eccessi verbali. L’aneddoto sostiene che fu liberato per intercessione dei tribuni della plebe e che andò in esilio a Utica, dove morí673.
A Nevio va il merito di aver stabilito forma e dizione della commedia romana. La mag-gior parte dei suoi personaggi riprendevano i tipi greci, come l’adulatore, il parassita, il sol-dato spaccone, il vecchio avaro, il figlio dissipatore, la giovane cortigiana, il servo marchiato, tuttavia nel repertorio si trovano accanto a costoro anche figure italiche come il vasaio, l’aruspice, l’auriga, la carbonaia, la fioraia, la donna mascherata, la sarta, la donna pugliese e la donna di Taranto.Oltre all’Hariolus e al Lampadio, si ricordano Agitatoria, Carbonaria,
Clamidaria, Corollaria, Dementes, Dolus, Nervolaria, Figulus, Nautae, Paelex, Personata, Pro-iectus, Quadrigemini, Tarentilla, Tunicularia.
Al di là delle caratteristiche comuni con gli altri commediografi (allitterazioni, asindeti, figure foniche) il suo stile rivela una preziosa ricerca di sintagmi insoliti e una sorvegliata inventiva lessicale, entro i limiti del vigile senso della forma; tale specificità fu evidenziata nell’epigramma funebre del poeta composto in età graccana:
inmortales mortales si foret fas flere, flerent divae Camenae Naevium poetam. itaque postquam est Orcho traditus thesauro, obliti sunt Romae loquier lingua Latina.
Se agli immortali fosse consentito di piangere i mortali le dee Camene piangerebbero il poeta Nevio. Dopo che è stato consegnato alla custodia d’Averno a Roma hanno dimenticato di come si parla in latino674.
672 Naev.inc. fab. 108-110 CRF. Da taluni studiosi l’identificazione è esclusa sulla base di Cic. De re publ.
IV 11: eos agi in scaena (Periclem) non plus decuit, quam si Plautus noster voluisset aut Naevius Publio et Gnaeo
Scipioni aut Caecilio Marco Catoni maledicere. L’allusione riguarda Bacchyl. fr. 19 Sn.-Maehl.: σὺ δὲ, σὺν χιτῶνι
μούνῳ | παρὰ τὴν φίλην γυναῖκα φεύγεις.
673 La notizia deriverebbe dall’errata intrepretazione di Plauto che allude all’anziano commediografo in
Mil. 211-212: nam os columnatum poetae esse indaudivi barbaro, | quoi bini custodes semper totis horis occubant.
Cfr. S. Monda, Palestrione e la tipologia del servus meditans in commedia, «Pan» n.s. 3, 2014, pp. 65-85.
Esempio eloquente risulta un verso del Gumnasticus, notevole per efficacia espressiva e asciuttezza:
Saxa silvas lapides montes disicis, dispulveras. Massi selve pietre monti spacchi, riduci in polvere.
Degno d’attenzione è pure un frammento della Tarentilla nel quale si descrive il civettuolo volteggiare della spregiudicata protagonista:
Quase in choro ludens datatim dat se et communem facit. alii adnutat, alii adnictat, alium amat, alium tenet. alibi manus est occupata, alii percellit pedem, anulum dat alii spectandum, a labris alium invocat, cum alio cantat, at tamen alii suo dat digito litteras.
Come se danzasse in un coro si concede a turno ed è di tutti. Fa cenni a uno, ammicca a un altro; amoreggia con uno, un altro stringe a sé; ha la mano occupata con uno, stuzzica il piede di un altro; mostra l’anello a uno, con le labbra invoca un altro; con uno canta, ma col dito manda messaggi a un altro675.
Il piú brillante poeta comico fu il sarsinate Tito Maccio Plauto (254-184 a.C.). Venne giovane a Roma, lavorando in una compagnia di attori. In un secondo tempo si diede al commercio senza successo tanto da essere costretto a far ruotare la macina di un mulino per vivere. In quel periodo iniziò la carriera di autore con tre commedie, che furono bene ac-colte dal pubblico, assicurandogli fama e fortuna676. Fu prolifico e versatile, tanto che dopo la sua morte circolavano oltre 130 fabulae, la maggior parte delle quali erano apocrife. Fu il grammatico Varrone a operare una rigida selezione677, riconoscendo la genuinità delle 21 commedie conservate dalla tradizione manoscritta.
Tranne la cronologia dello Stichus (Ludi Plebeii del 200 a.C.) e dello Pseudolus (Ludi
Megalenses del 191 a.C.) determinata dalle didascalie, la data delle rappresentazioni delle
altre opere rimane incerta: Menaechmi (215 a.C.), Asinaria (212 a.C.), Cistellaria (209-207 a.C.?), Miles gloriosus (205 a.C.), Persa (196 a.C.), Epidicus (195 a.C.?), Curculio (193 a.C.?), Truculentus (191 a.C.), Aulularia (ca. 190 a.C.), Amphitruo (ca. 190-185 a.C.),
Cap-675 Rispettivamente Naev. 57 e 75-79 CRF.
676 Si trattava del Saturio (Il satollo) dell’Addictus (Lo schiavo per debiti) e di un terzo dramma, di cui non è rimasto il titolo; cfr. Gell. N.A. III 3, 14. Secondo Simmaco (Epist. X 2, 1) l’impresario e capo-comico Tito Pu-blilio Pellione ebbe un ruolo notevole nel successo delle commedie plautine portandole in scena, in particolare l’Epidicus (Plaut. Bacch. 213-215; cfr. Men. 404); vd. K. Lennartz, True Plautus, False Plautus: I. Pellio restitutus, in J. Martínez, Fakes and Forgers of Classical Literature: Ergo decipiatur!, Leiden 2014, pp. 130-133.
677 Gell. N.A. III 3, 3. Varrone inoltre avrebbe considerato probabilmente genuine le seguenti 19 com-medie: Addictus, Artemo, Astraba, Boeotia, Cacistio, Commorientes, Condalium, Faeneratrix, Fretum, Frivolaria,
tivi (189 a.C.?), Poenulus (189-187 a.C.?), Trinummus (188-187 a.C.?), Bacchides (186
a.C.), Casina (184 a.C.), e inoltre Mostellaria, Mercator, Rudens, Vidularia.
Per Casina, Vidularia e Rudens Plauto si rifece ai Sorteggianti e alla Zattera di Difilo; per
Mercator, Trinummus e Mostellaria adattò Il mercante, Il tesoro e Il fantasma di Filemone; per Menaechmi tenne presente I gemelli di Posidippo; con Asinaria imitò l’Onagro di un certo
Demofilo; per Cistellaria, Stichus e Bacchides riprese liberamente le menandree Le donne al
pranzo comune, I Fratelli primi e Il doppio seduttore678; in Poenulus rifece l’originale di Alessi
(Il Cartaginese); infine ricavò il Miles gloriosus dall’anonimo autore del Millantatore.
Peculiarità inimitabili delle fabulae plautine sono la comicità immediata, scaturita da intrecci poco verisimili con palesi anacronismi drammatici, l’incongruenza dei dettagli, la-sciati consapevolmente indefiniti, l’accentuato gusto per l’inconsueto trasposto nella vita quotidiana, le trovate geniali, le inesauribili beffe, i travestimenti, gli scambi di persone, che nel finale consentono a giovani schiave e a trovatelli di essere riconosciuti come figli da parte di cittadini liberi e agiati grazie all’inventiva del servus callidus679.
In effetti il motore ideale delle azioni sceniche è proprio questo personaggio, che talora, assumendo il ruolo di servus poeta, rompe la finzione scenica per rivolgersi direttamente al pubblico:
Suspicio est mihi nunc vos suspicarier, me idcirco haec tanta facinora promittere, quo vos oblectem, hanc fabulam dum transigam, neque sim facturus quod facturum dixeram. non demutabo. atque etiam certum, quod sciam, quo id sim facturus pacto nil etiam scio,
nisi quia futurumst. nam qui in scaenam provenit, novo modo novom aliquid inventum adferre addecet; si id facere nequeat, det locum illi qui queat.
concedere aliquantisper hinc mi intro lubet, dum concenturio in corde sycophantias. <sed mox> exibo, non ero vobis morae; tibicen vos interibi hic delectaverit.
Mi viene il sospetto che ora voi (spettatori) sospettiate che abbia promesso tante bravate soltanto per divertirvi e per trovare un finale a questa commedia, senza avere alcuna intenzione di com-piere quello che avevo promesso di fare. Manterrò la parola e ne sono sicuro, lo so, anche se non so ancora in che modo realizzerò il mio piano, ma lo farò. Chi si presenta sulla scena deve sapere proporre qualche nuova trovata e, se non è in grado di farlo, deve cedere il posto a chi lo sappia
678 Cfr. P.Oxy. LXIV 4407; J.-M. Jacques, Le Disexapaton de Ménandre, modèle des Bacchides de Plaute, «REA» 106, 2004, pp. 23-47.
679 Cfr. Plaut. Bacch. 925-935; Miles 195-218; Persa 753-757. Isolate rimangono le critiche del classicista Orazio, secondo il quale Plauto, nonostante fosse paragonabile a Epicarmo (Epist. II 1, 58), avrebbe ricercato la comicità grossolana; inoltre sarebbe stato incompetente di metrica (Ars poetica 270-274) e avrebbe composto le sue opere mirando al guadagno (Epist. II 1, 170-176).
fare. Voglio ritirarmi e concedermi un po’ di tempo dietro le quinte per predisporre i miei intri-ghi, ma tornerò presto, senza farvi aspettare. Intanto una flautista vi intratterà piacevolmente680. Gli altri personaggi ricorrenti, in competizione o solidali nel perseguire gli incredibili in-tenti, sono l’amans ephebus, il durus pater, la bona matrona, la meretrix mala, la lena o il
leno avarus, poi l’amans senex, il lepidus senex, il pater pius, il servus astutus, il servus doctus, il servus currens, il servus nequam, il servus malus, la candida puella, la virgo modesta, la nutrix,
la servula meretrix, la meretricula, il parasitus, il miles gloriosus, ecc.
Da questi tratti ci rendiamo conto che Plauto consapevolmente prese le distanze dal naturalismo perseguito dai poeti della Nea, ai quali si ispirava con grande libertà avvalen-dosi della cosiddetta contaminatio, al fine di elaborare una comicità totalmente diversa, che rifuggiva dall’economia degli intrecci, sostanzialmente poco variati, dalla coerenza interna, dalla puntuale caratterizzazione dei ruoli, dal pathos e dall’ironia insiti negli originali greci.
I modelli sono disgregati da un inesauribile repertorio di trovate comiche, semplificati e liberamente reinterpretati, sono distorti nella struttura drammatica; in sostanza sono un pretesto per intensificare il farsesco a scapito del patetico e per far scaturire una comicità originale, le cui radici affondano nell’humus della tradizione indigena.
Lo stile, al tempo stesso concreto, caricaturale e grottesco, corrobora il fantasioso intrec-cio con metafore desunte dal mondo militare, con espressioni che richiamano concetti e formule giuridiche, con arguti enigmi collegati per asindeto, bizzarre identificazioni mito-logiche, fantastiche similitudini, paragoni iperbolici, esuberanti locuzioni affettive, figurate, parodiche, brillanti, colorite da un lessico spigliato e spumeggiante, con l’intrusione di grecismi, neoformazioni, termini talora licenziosi, giammai volgari681.
Nel suo epitaffio, conservato dalla tradizione, è espresso un penetrante giudizio sulla straordinaria polimetria dei cantica, frequentemente alternati ai recitativi in senari e sette-nari (deverbia):
Postquam est mortem aptus Plautus, comoedia luget scaena est deserta, dein risus, ludus iocusque
et numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt.
Dopo che Plauto è morto, piange la commedia, è deserta la scena, riso, gioco, scherzi e i metri innumerevoli tutti insieme piangono682.
680 Plaut. Pseud. 562-573a. Spesso la complicità e il coinvolgimento del pubblico sono ottenuti grazie all’impiego della recitazione di battute “a parte”. Vd. S. Monda, Lo sguardo nascosto nella commedia di Plauto e
Terenzio, «CEA» LI 2014, pp. 245-276.
681 Lusinghiero sotto questo aspetto sono i giudizi di Varrone (Sat. 399), Cicerone (De off. I 104), Quinti-liano (X 1, 99) e Frontone (Aur. Caes. IV 3, 3). Per una chiara descrizione della tecnica drammaturgica plautina vd. C. Gonzales Vasquez, “Veo, Veo” “¿Què ves?” Plauto y su Persa, «CEA» 51, 2014, pp. 223-244.
682 Gell. N.A. I 24, 3, 1. La duratura fortuna delle commedie è attestata per il III d.C. da Arnobio, il quale citando Alcmena allude molto probabilmente all’Amphitruo (Adv. Nat. VII, 33).
Ennio, attivo soprattutto come poeta tragico, scrisse anche una Caupuncula sive Tabernaria e un Pancratiastes, che gli fece ottenere il decimo e ultimo posto nel canone dei comici ela-borato da Volcacio Sedigito.
Il gallo insubro Cecilio Stazio (230-168 a.C. ca.) nacque a Milano e giunse schiavo di guerra a Roma dopo la sconfitta a Casteggio dei Galli Insubri per opera di Marco Claudio Marcello. Dopo essere stato affrancato intraprese l’attività di commediografo, legandosi amichevolmente a Ennio, con il quale coabitò per un certo periodo nel tempio di Minerva sull’Aventino. Seguí le orme di Nevio e di Plauto, scrivendo una quarantina di drammi, alcuni con titolo latino alla maniera antica (Demandati, Epistula, Exul, Fallacia, Maeretrix,
Portitor, Pugil, Triumphus), altri con doppio titolo greco e latino (Obolastes sive Faenerator, Hypobolimaeus sive Subditivos), altri ancora con titolo greco (Aethrio, Andria, Androgynos, Asotus, Chalcia, Chrysion, Dardanos, Davos, Ephesio, Epicleros, Epistathmos, Ex autou he-stos, Gamos, Harpazomene, Hymnis, Pausimachus, Philumena, Plocium, Polumeni, Progamos, Symbolum, Synaristosae, Synephebi, Titthae).
Della sua opera rimangono circa trecento versi, talora incompleti, e un frammento papi-raceo che originariamente conteneva 550 versi della commedia Obolastes sive Faenerator683. Dopo i primi fallimentari tentativi, ottenne duraturo successo grazie al decisivo aiuto dell’impresario e capocomico (dominus gregis) Lucio Ambivio Turpione684, dominando la scena nel periodo fra Plauto e Terenzio.
Volcacio Sedigito lo giudicava il piú divertente tra i poeti comici e Cicerone lo considerò il migliore, anche se non mancò di censurarne la purezza linguistica685. Si narra che Varrone lo apprezzasse sia per la passionalità che aveva saputo esprimere nei drammi sia per la scelta dei soggetti e per il trattamento degli argomenti, presi dal repertorio della Nea, che erano sviluppati secondo schemi drammatici sobri e privi di complicazioni superflue686.
È certo infatti che si serví del Senza patria di Filemone per l’Exsul e della Collana menan-drea per il Plocium; dal commediografo ateniese assunse anche i soggetti per la Fallacia, per la Hymnis e per i Synephebi, considerata da Cicerone la sua opera migliore687.
Riferendosi al Plocium nelle Noctes Atticae Aulo Gellio attesta che il commediografo ne trasformò una scena, originariamente in trimetri giambici, in un canticum polimetro, costi-tuito da anapesti e cretici688, dimostrando di possedere una tecnica compositiva assai scaltrita:
683 P.Herc. 78, su cui vd. K. Kleve, How to read an Illegible Papyrus. Towards an Edition of PHerc. 78,
Cae-cilius Statius, Obolostates sive Faenerator, «CronErc» 26, 1996, pp. 5-14. 684 Ter. Hec. 14 ss.
685 Volc. Poet. fr. 1, 5; Cic. Brut. 258; Att. VII 3, 10.
686 Varro Gramm. fr. 40: ἤθη ... nullis aliis servare convenit, quam Titinio Terentio Attae, πάθη vero Trabea
Atilius Caecilius facile moverunt; Men. 399 apud Non. 596 L.: In argumentis Caecilius poscit palmam, in ethesin Terentius, in sermonibus Plautus. Dal canto suo Orazio (Epist. II 1, 59) ne lodò la gravitas: Dicitur ... vincere Caecilius gravitate, Terentius arte.
687 Cic. Opt. gen. orat. 2.
is demum miser est, qui aerumnam suam nesciat occultare foris: ita me uxor forma et factis facit, si taceam, tamen indicium, quae nisi dotem omnia quae nolis habet: qui sapiet de me discet, qui quasi ad hostis captus liber servio salva urbe atque arce. dum eius mortem inhio, egomet inter vivos vivo mortuus.
quaen mihi quidquid placet eo privatum it me servatam <velim>? ea me clam se cum mea ancilla ait consuetum. id me arguit: ita plorando orando instando atque obiurgando me optudit, eam uti venderem. nunc credo inter suas
aequalis, cognatas sermonem serit: quis vostrarum fuit integra aetatula quae hoc idem a viro
impetrarit suo, quod ego anus modo effeci, paelice ut meum privarem virum?’
haec erunt concilia hocedie: differar sermone misere.
È proprio disgraziato chi non sappia nascondere il proprio tormento. Cosí mia moglie mi fa esempio con le sue fattezze e con le sue azioni, anche se sto zitto: tutto quello che al di fuori della dote non vorresti lo possiede. Impari da me chi abbia senno. Io, uomo libero, sono suo schiavo, come se fossi un prigioniero in mano a nemici, nonostante siano salve la città e la rocca. Mentre sospiro la sua morte, proprio io vivo da morto in mezzo ai vivi. Lei che mi priva di tutti i miei piaceri. Vuoi che io sia salvo? Quella sostiene che me la intendevo con una mia ancella di nascosto a lei, di questo mi accusa. Mi ha instupidito piangendo, pregando, insistendo e rimproverando, che io la vendessi; ora, credo, fa queste chiacchiere tra le sue coetanee e le parenti: «chi tra voi, an-cora nel fiore della giovinezza, ha ottenuto da suo marito la medesima cosa, che io ora da vecchia ho ottenuto, cioè di privare mio marito dell’amante?» Oggi saranno questi i loro pettegolezzi, ed io, disgraziato, sarò straziato dalle chiacchiere689.
In un’altra scena della medesima commedia il poeta trasformò l’originario monologo del marito scontento in un serrato dialogo con l’altro vecchio interlocutore, con l’omissione di taluni particolari briosi, sostituiti da battute farsesche:
A: sed tua morosane uxor quaeso est? B: va! rogas?
A: qui tandem? B: taedet mentionis, quae mihi ubi domum adveni, adsedi, extemplo savium Dat ieiuna anima. A: Nil peccat de savio: ut devomas volt quod foris potaveris.
A: Ma è tanto intrattabile tua moglie? Dimmi. B: E me lo chiedi?
A: Come mai?
689 Caecil. 142-157 CRF. Vd. C. Riedweg, Menander in Rom. Beobachtungen zu Caecilus Statius, Plocium
fr. 1 (136-53 Guardì), in N.W. Slater - B. Zimmermann (curr.), Intertextualität in der griechisch-römischen Komödie, Stuttgart 1993, pp. 133-159.
B: Mi viene il voltastomaco a parlarne. Quando torno a casa, mi sono appena seduto e all’istante mi dà un bacio quando sono ancora a digiuno.
A: Un bacio non fa male: vuole farti vomitare quello che hai bevuto fuori casa690.
Da un suo frammento possiamo intuire che la sua impostazione etica preludesse all’ideale scipionico dell’humanitas:
Homo homini deus est, si suum officium sciat. Un uomo è dio per gli altri uomini se conosce il proprio dovere691.
Nei Synephebi, attraverso le parole di un innamorato, affiorava la polemica contro i siste-mi educativi eccessivamente severi, anticipando tematiche che Terenzio avrebbe sviluppato nell’Heautontimorumenos e nell’Adelphoe. In maniera rovesciata rispetto alla tradizionale situazione che solitamente vede opposti al padre tirchio il figlio scapestrato e il servo furbo, suo complice, qui il giovane si lamenta che suo padre sia troppo comprensivo e generoso, il che lo priva della soddisfazione di sperperare il patrimonio ordendo inganni a suo danno:
In amore suave est summo summaque inopia parentem habere avarum inlepidum, in liberos difficilem, qui te nec amet nec studeat tui. aut tu illum furto fallas aut per litteras avertas aliquod nomen aut per servolum percutias pavidum, postremo a parco patre quod sumas quanto dissipes libentius!
***
quem neque quo pacto fallam nec quid inde auferam, nec quem dolum ad eum aut machinam commoliar scio quicquam: ita omnis meos dolos fallacias praestrigias praestrinxit commoditas patris.
Quando si è molto innamorati e molto poveri è piacevole avere un padre avaro, sgarbato, burbero con i figli, intrattabile, che non ti ami e non si curi di te. O lo inganni di nascosto o gli sottrai qualche credito con una lettera o con l’aiuto di un servo lo abbindoli dopo averlo spaurito. Infine