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LA COMPATIBILITA’ DELLA NORMA CON L’ORDINAMENTO COMUNITARIO E LA CONVENZIONE CONTRO DOPPIE IMPOSIZION

Tra le libertà fondamentali previste dall’ordinamento comunitario rientra la libertà di stabilimento delle imprese, che consente a tali entità di “collocare” la propria sede in uno degli Stati membri, in assenza di vincoli o misure restrittive che penalizzano lo spostamento della sede societaria.

La Commissione Europea aveva ritenuto che “nella misura in cui i commi 5-bis, ter e quater dell’art. 73 del TUIR applicano in via generale una presunzione di residenza in Italia nei confronti di società ed enti residenti nell’UE che si trovano in determinate situazioni oggettive ,non necessariamente indice di una direzione effettiva in Italia, obbligano le stesse ad un eccessivo carico di prova (contraria) ai fini di dimostrare un concreto radicamento della direzione effettiva nello Stato estero ,tali disposizioni potrebbero costituire un ostacolo all’esercizio delle libertà fondamentali di stabilimento, di circolazione dei lavoratori e dei movimenti di capitali nell’UE”.

In merito al principio di “libertà di stabilimento”, alla base degli artt. 43 e 48 del Trattato CE (ora artt. 49 e 54 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), occorre evidenziare che i confini tra le diverse norme antielusive volte ad evitare la sottrazione di materia imponibile in Italia, mediante l’utilizzo di artificiose realtà imprenditoriali all’estero, sono spesso molto labili e tali disposizioni si pongono in forte contrasto con detto principio.

È fuor di dubbio che la disposizione in argomento potrebbe apparire, almeno prima face, in contrasto con tale principio, poiché inserisce un “ostacolo” normativo o meglio “un onere” alle imprese che” migrano” la propria residenza, anche nell’ambito degli Stati dell’Unione.

Infatti, è stato osservato come” spostare” sul contribuente l’onere della prova contraria può rivelarsi particolarmente gravoso, soprattutto per particolari tipologie di enti societari.

A titolo esemplificativo, si pensi alle holding, la cui attività di impresa riguarda i c.d. “beni di secondo grado”, ovvero la gestione (generalmente in via prevalente) di partecipazioni. Proprio in funzione della tipologia dell’attività che svolgono, la localizzazione della loro sede è, in linea di massima, sensibile a due fondamentali variabili: il trattamento tributario delle passive income (principale fonte di reddito) ed il più favorevole network convenzionale con numerosi Paesi, diretto a regolamentare i flussi transnazionali di reddito.

La configurazione della residenza fiscale di una holding, alla luce del meccanismo presuntivo, pone non pochi problemi applicativi e interpretativi, in considerazione del fatto che, come detto, l’oggetto sociale, salvo che nel caso di holding miste, è la gestione di beni di secondo grado, caratterizzati dalla loro immaterialità, nonché assenza di fisicità, che è in contrapposizione con il concetto di radicamento con un luogo. Esse, pertanto, presentano un collegamento con il territorio poco marcato, dal momento che fisiologicamente non necessitano di particolari strutture utili all’esercizio della pertinente attività sociale. È evidente che, in un siffatto contesto, il quadro normativo in argomento pone delle “barriere” non facilmente superabili per il contribuente.

Sul punto, tuttavia, occorre rilevare che, secondo la Corte di Giustizia, gli Stati membri possono introdurre misure, anche presuntive, che comportino una restrizione della libertà di stabilimento, alla duplice condizione che dette misure:

 Siano dirette a contrastare costruzioni artificiose, finalizzate ad abusare di tale diritto, eludendo l’applicazione della legislazione nazionale;

 Siano tali da rispettare il principio di “proporzionalità”, ovvero il c.d. principio dell’utilità marginale: tutto ciò che non risponde al criterio di utilità marginale sfocia nell’eccesso rispetto a quanto necessario per ottenere il prefissato obbiettivo21 e, quindi, è censurabile in ambito

europeo.

In questa prospettiva, a parere della Commissione europea, l’inversione dell’onere della prova avrebbe potuto costituire una misura sproporzionata ed eccessiva rispetto al fine perseguito, in quanto confliggente con il “principio di proporzionalità” più volte affermato dalla Corte di Giustizia, secondo il quale, gli Stati membri devono ricorrere a mezzi che arrechino il minor pregiudizio possibile agli obbiettivi e ai principi stabiliti dalla normativa comunitaria.

Ciò detto l’Agenzia delle Entrate ha sostenuto, argomentandola, la coerenza della presunzione di residenza di cui trattasi con l’indirizzo della Corte di Giustizia.

In particolare, nella circolare in commento, l’Agenzia delle Entrate ha dapprima richiamato l’orientamento assunto dalla Corte di Giustizia in due, specifici contesti22, da cui si sarebbe evinto il principio secondo cui

gli Stati membri sono liberi di determinare il criterio di collegamento di una società con il territorio dello Stato. Inoltre, qualora fosse latente o potenziale il rischio di evasione fiscale, le autorità nazionali competenti non possono limitarsi ad applicare i criteri generali predeterminati, ma devono procedere caso per caso, ad un esame generale dell’operazione, e tale esame deve poter essere oggetto di sindacato giurisdizionale.

21 Il principio di proporzionalità può essere considerato immanente negli ordinamenti giuridici sia di common law che di civil law, tanto da poterlo definire come un” grande principio costituzionale di carattere generale” (cfr in tal senso, Vassalli G., “Diritto penale e giurisprudenza costituzionale “, Napoli, 2006 ).

Costituisce l’alveo nel quale si dipanano i pubblici poteri, tra i quali anche il diritto tributario, e costituisce- nella pratica normativa- un criterio per valutare se l’intervento statale è arbitrario e “parametrato” all’insieme dei diritti soggettivi. 22 Sentenze emesse nell’ambito della Causa C-81/87 e della Causa C-208/00.

Alla luce di ciò la stessa Amministrazione finanziaria ha affermato che la possibilità di fornire la prova contraria garantisce una valutazione case by case e, quindi, il pieno rispetto del principio di proporzionalità, necessario per mitigare, secondo la Suprema Corte, la portata generale delle disposizioni antielusive.

Per quanto riguarda la compatibilità della norma con le Convenzioni contro le doppie imposizioni, l’ Agenzia delle Entrate ha affermato la piena compatibilità della presunzione di residenza con il regime delle Convenzioni internazionali, richiamando il Commentario al Modello OCSE di Convezione , secondo cui, peraltro, al fine di individuare la sede di direzione effettiva, deve aversi riguardo anche al luogo di svolgimento dell’attività principale ,in linea con un’osservazione formulata in tal senso dall’Italia.

In quest’ambito, è stato sottolineato come le Convenzioni contro le doppie imposizioni non interferiscono con i differenti criteri di collegamento soggettivo che ciascuno Stato seleziona per stabilire la residenza di un soggetto sul proprio territorio, limitandosi a indicare quali elementi e circostanze devono essere, prioritariamente, valutati in ipotesi di doppia residenza.

In definitiva, la “struttura presuntiva” è tale in quanto ammette la prova contraria e, parlando di “struttura”, evidentemente nulla aggiunge ai criteri sostanziali utili ad individuare la sede dell’amministrazione, cui gli accordi internazionali ed il Modello OCSE fanno riferimento.

La norma, quindi, non incide su cosa debba intendersi per place of effective management, che coincide con quanto sancito dal Modello OCSE, bensì mira a “facilitare” l’attività ispettiva attraverso un’innovazione/integrazione procedurale.

II. CAPITOLO

IL FENOMENO DELL’ESTEROVESTIZIONE SOCIETARIA