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I TEMI LEGATI ALLA VICENDA: LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA E LE CONSEGUENZE SOTTESE ALL’ASSOLUZIONE

IV CAPITOLO IL CASO DOLCE E GABBANA

4.11 I TEMI LEGATI ALLA VICENDA: LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA E LE CONSEGUENZE SOTTESE ALL’ASSOLUZIONE

L’importanza della sentenza n. 43809 del 2015 sta proprio nelle motivazioni con le quali si è spiegata l’assoluzione dei due stilisti, basata sull’assunto per il quale, non essendovi esterovestizione di Gado, non potesse configurarsi alcun reato di omessa dichiarazione. Ci preme in questa sede evidenziare i quattro concetti fondamentali che derivano dal dispositivo della sentenza medesima, ritenuti riferimenti imprescindibili per tutti i casi futuri attinenti operazioni di riorganizzazione societaria e, più in generale, possibili fattispecie di abuso del diritto.

I punti evidenziati a seguire, infatti, indissolubilmente legati tra loro, aprono altrettante questioni di riflessione ed approfondimento, sulle quali ci si concentrerà nel capitolo successivo, con l’idea di delineare, in maniera quanto più nitida possibile, i caratteri del rapporto tra abuso del diritto (nell’esterovestizione) e reato di omessa dichiarazione:

1) L’esterovestizione può sottendere il reato di omessa dichiarazione, ma va provata. Solo ove si dimostri, infatti, che una data società sia artificiosamente creata e, di fatto residente in Italia, potrebbe scattare il reato di cui all’art. 5 del Dlgs. 74/2000, dato che la società medesima verrebbe ricollocata in Italia.

La sola sussistenza di elementi fisiologici tipici dei rapporti, quali l’eterodirezione tra controllante e controllate o la libertà del diritto di stabilimento, infatti, non sono sufficienti a dimostrare che vi sia esterovestizione, con conseguente perseguibilità per il reato di cui sopra.

2) L’esterovestizione, ove intesa come abuso del diritto, non comporta responsabilità penale (per omessa dichiarazione).

Le motivazioni della sentenza ci consentono di evidenziare il punto centrale dell’intera materia, sancendo come, anche ove la società estera non esistesse e si trattasse di un caso concreto di abuso del diritto di stabilimento e sussistesse, perciò l’esterovestizione della società, ciò non comporterebbe in automatico la responsabilità penale per chi agisce ex art. 5 del Dlgs. 74/200.

Questo perché il reato di omessa dichiarazione è di tipo omissivo proprio, a dolo specifico ed è perciò necessario, al fine della sua configurabilità, che sia presente anche l’elemento soggettivo, ovvero l’intento di evadere l’imposta e non solo di porre in essere un’operazione elusiva.

In altri termini ove si intenda l’esterovestizione come forma di abuso del diritto, sussistendo il solo dolo generico, non potrebbe mai configurarsi un illecito penale, come quello di omessa dichiarazione; 3) Abuso del diritto non equivale ad evasione.

Il dispositivo della famosa sentenza del 2015, nel sancire l’assoluzione dei due stilisti, ha dettagliatamente evidenziato come non vi fossero gli elementi tipici dell’esterovestizione, avendo il gruppo posto in essere un’operazione del tutto lecita, con finalità prettamente strategiche ed operative.

Ove anche si fosse configurato, però, abuso del diritto di stabilimento, sostengono i giudici di Cassazione, ciò non sarebbe stato sufficiente a configurare il reato di omessa dichiarazione, essendo necessaria, a tal fine, l’esistenza del dolo specifico di evasione, presupposto imprescindibile dell’illecito penale.

Per tale ragione diventa fondamentale individuare il discriminante tra abuso del diritto ed elusione fiscale, rispetto ad evasione, proprio per la diversità delle conseguenze sanzionatorie che ne derivano.

Occorre chiedersi, in altri termini, quali siano i confini dell’abuso del diritto e cercare di tracciarli in maniera quanto più trasparente possibile, confinandoli a casi ben definiti di applicazione, per i quali saranno previste sole sanzioni amministrative;

4) La diversa funzione del sistema sanzionatorio tra illeciti amministrativi e penali: Altra questione di indiscutibile rilevanza, evidenziata dalla sentenza n. 43809 del 2015 attiene alla diversa natura delle sanzioni penali e tributarie, ispirate da logiche di fondo ben diverse, che non si possono ignorare nell’analizzare i comportamenti posti in essere dal contribuente, al fine di classificarli rettamente. La violazione penalmente perseguibile, si diceva, è la sola in grado di ingenerare i reati previsti dal D.lgs n. 74/2000, tra i quali è ricompreso quello di omessa dichiarazione di nostro interesse, e richiede la presenza di un intento specifico di evasione, da sanzionare al fine di rieducare i trasgressori, riabilitando l’autore dell’illecito.

Differente è invece lo scopo delle sanzioni amministrative, legate alle violazioni tributarie, che mirano al recupero del gettito fiscale, da riscuotere per conto dell’Amministrazione Finanziaria.

Al di là dei profili di legittimità attinenti all’impossibilità di essere giudicati due volte per la medesima azione (“ne bis in idem”), si aggiunge un altro elemento fondamentale nella descrizione del rapporto tra esterovestizione e reato di omessa dichiarazione.

Nell’individuare i rapporti penalmente perseguibili, infatti, occorre tenere conto anche delle conseguenze che derivano dalla classificazione di un certo comportamento come illecito penale o tributario, giacché la finalità dei rispettivi sistemi sanzionatori è profondamente differente.

C

ONCLUSIONE

A partire dagli anni Novanta si è assistito ad una crescente pervasività del diritto dell’Unione Europea in fattispecie considerate di stampo prettamente statale, tra tutte le questioni che possono essere interessate da una tale ingerenza, vi è la definizione dei criteri di collegamento medianti i quali gli Stati attribuiscono lo status di residente ad un soggetto.

La mancanza di una regola europea che definisca

il collegamento necessario per attribuire lo status di residente ad una società genera il rischio per il soggetto di incorporare, in due o più Stati, il collegamento che i

rispettivi Stati ritengono sufficiente al fine di assoggettare a tassazione il soggetto, generando fenomeno di doppia imposizione.

La scelta di adottare una regola comune non sarebbe priva di effetti che è opportuno soppesare: si tratterrebbe di

ridimensionare la potestà interna degli Stati per avvicinarsi sempre più alla realizzazione di quello Spazio comune non ancora pienamente realizzato, finalità che gli stessi Stati comprenderebbero e condividerebbero solo se fossero disposti a porsi in un’ottica che superi la dimensione statale per elevarsi ad una dimensione comunitaria.

Anche se un intervento di tale portata pare per nulla prospettabile, per lo meno non in tempi recenti, la scelta avrebbe comunque dei risvolti positivi in termini di riconoscimento delle società da parte degli ordinamenti di Stati diversi rispetto a quello di originaria incorporazione, il che è un passo importante se si considera, come abbiamo visto, che la libertà di circolazione delle imprese è proprio intaccata e disincentivata da quelle normative fiscali che non permettono alla società di operare nello Stato di arrivo, in quanto in quest’ ultima non riconosciuta come ente di diritto, se non previo

scioglimento e liquidazione dallo Stato di origine e ricostituzione presso di esso.

Abbiamo visto come oggi il c.d. global outsourcing sia sempre più utilizzato dalle imprese colpite dalla crisi economica come leva per superare la congiuntura del mercato globale e come la conseguenza di una tale scelta sia una crescente mobilità societaria con le conseguenze fiscali che si sono illustrate.

Se da una parte un tale fenomeno ha certamente dei risvolti positivi in termini economici per le singole imprese, dall’altro fa maturare negli Stati un atteggiamento sempre più attento a formulare normative ad hoc per evitare che sfugga alla tassazione qualsiasi plusvalore che, qualora tale trasferimento non fosse intervenuto, sarebbe stato ivi tassato.

Di qui l’intensa contesa tra normative interne volte a combattere la potenziale riduzione di entrate fiscali degli Stati e l’attenzione ad un rispetto sempre più vigile delle libertà comunitarie.

L’orientamento della Corte di giustizia è oramai assodato, ma ha subito nel tempo diverse configurazioni; un’evoluzione che si può ritenere più o meno coerente e che muove da approcci definitivamente superati dalle più recenti sentenze.

Se in un primo momento, infatti, la negazione completa di una rilevanza dei principi comunitari in merito alla risoluzione di questione legate alle imposizioni in uscita aveva portato la Corte a non affrontare proprio la questione, mancando i presupposti, a sentire dello stesso organo, per porre al vaglio di legittimità una tale disciplina, essendo piuttosto una questione che doveva essere risolta internamente dagli Stati; nel tempo la Corte ha assunto la consapevolezza che la tutela della libera mobilità della società all’interno dello spazio comunitario fosse compito che ella stessa, mediante le sue pronunce, doveva perseguire. Spettava, pertanto, alla Corte eliminare tutti quegli ostacoli che non permettevano un godimento pieno di tale libertà, non solo eliminando le restrizioni poste dallo Stato di origine all’atto dell’uscita, ma anche

quelle eventuali restrizioni che si ponevano all’entrata della società nello Stato in cui intendeva trasferirsi non permettendo alla stessa di operare nello Stato di arrivo, previo scioglimento e liquidazione in quello di originaria incorporazione.

Il percorso verso il riconoscimento della fattispecie restrittive iniziò proprio dalla prospettiva dello Stato di origine, dichiarando contraria alla libertà di stabilimento la scelta dell’autorità danese di rifiutare la registrazione di una succursale di una società incorporata in un altro Stato. Seppure non sia una negazione diretta al trasferimento di sede, la mancata registrazione nello Stato di arrivo si traduce in un ostacolo indiretto all’esercizio di una tale libertà, che doveva essere denunciata e che segnò l’inizio di un’elencazione di tutte le situazioni che la Corte riteneva non conformi al diritto comunitario.

A questo primo approccio, ne segurino altri, sia nella stessa prospettiva, a conferma di una ferma e convinta evoluzione effettuata in tal senso, sia, con un qualche ritardo in realtà, anche con riferimento alla situazione speculare, limitando tale approccio in un primo momento alle sole persone fisiche, tardando invece il riconoscimento per le società.

Successivamente alle denunce riferite ai casi inbound ne sono seguite con riferimento ai casi di tipo outbound (il riferimento è al caso Cartesio) nel quale però si ha una sorta di “ritorno al passato” da parte della Corte, con esplicito richiamo dei principi contenuti in Daily Mail. Il vero completamento di un’evoluzione iniziata più di dieci anni prima, avvenne con la sentenza National Grid Indus BV.

Dalle situazioni “inbound” a quelle “outbound”, in un primo momento con protagoniste le sole persone fisiche per poi estendersi anche agli enti societari, si delineò nel tempo il quadro completo delle situazioni e dei soggetti destinatari dell’assoluta e completa tutela della libertà di stabilimento.

Se da un lato Daily Mail è la prima pronuncia avente ad oggetto un exit tax societaria, seppure in tal caso la Corte non entrò nel merito della questione, la National Grid Indus BV è la prima sentenza con la quale la Corte si pronuncia su una exit tax societaria.

La posizione della Corte in quest’ultimo caso è piuttosto chiara: non nega a priori la possibilità per gli Stati di riscuotere un’imposta sulle plusvalenze maturate nello Stato, non è una tale pretesa a generare contrasto con i fondamenti comunitari, ma le caratteristiche che, di volta in volta, assumono le diverse normative, la Corte precisa che lo Stato non può pretendere una riscossione immediata, ma deve obbligatoriamente concedere la possibilità al soggetto di scegliere la modalità di pagamento che risulti lui può agevole, ossia deve garantire la possibilità di differire il pagamento al momento dell’effettivo realizzo della plusvalenza qualora ne sia fatta richiesta; a tutela di ciò la Corte ha previsto per gli Stati la facoltà di richiedere garanzie bancarie, nonché il pagamento degli interessi sugli importi per cui è stata richiesta la dilazione.

L’obiettivo della Corte è stato quello di bilanciare, per quanto possibile gli interessi dei diversi attori, il tutto all’interno di un quadro che garantisca comunque il rispetto delle libertà enunciate a livello sovranazionale; confermando e sottolineando la supremazia del diritto comunitario rispetto alla fattispecie interne.

Questo però, correttamente sembra dire la Corte, non può prescindere dal trascurare le esigenze dei singoli Stati.

Questa volontà di bilanciare i diversi interessi conferma il carattere di organo super partes attribuito alla Corte di giustizia nel realizzare obiettivi che difficilmente sarebbero perseguibili univocamente dai singoli Stati membri.

La risposta della Corte, per quanto chiara e precisa, non assume i connotati per porsi come regola standard da applicarsi per dichiarare o meno la compatibilità comunitaria, essa prescinde infatti da un’analisi

della normativa interna, il che rende impossibile dare una risposta univoca al quesito, posta la diversa conformazione che caratterizza le differenti normative interne e le diverse ragioni che gli Stati richiamano per giustificare l’adozione delle normative stesse.

Un altro aspetto che merita di essere ancora una volta sottolineato è l’affermazione, da parte dell’organo comunitario, di una valenza assoluta della libertà di stabilimento, tanto nei confronti delle decisioni di stabilimento primario, tanto di stabilimento secondario; difatti, dichiararne la valenza limitatamente ad una delle due tipologie è come negare la valenza stessa della libertà.

D’altro canto, occorre considerare come la Corte non si stanchi di sottolineare che i criteri di collegamento, in seguito di una mancata armonizzazione, siano determinati dai singoli ordinamenti, ma come questi ultimi, debbano comunque esercitare tale potere nel rispetto del diritto comunitario.

Ciò significherebbe che seppure gli Stati abbiano la libertà nella determinazione di questi ultimi e nelle regole da applicare al trasferimento di residenza, la scelta dell’uno o dell’altro criterio, piuttosto che la necessità di passare per tramite della liquidazione o meno in seguito al trasferimento, non può essere esercitata in modo pieno: norme che prevedono una liquidazione della società all’atto del trasferimento negano la possibilità di far valere quei principi definiti a livello comunitario e per tale ragione dovrebbero ritenersi a priori non valide.

In definitiva, quindi, nelle pronunce della Corte non è la presenza in sé di un exit tax ad essere punita, la Corte è consapevole dell’esigenza degli Stati, ma ad essere sanzionata è unicamente la sproporzione della stessa in ragione dell’obiettivo perseguito, la portata troppo ampia, l’inesistenza alla base di quei motivi di ordine generale che giustificherebbero la presenza stessa dell’exit tax.

Questa è la ragione per cui, se si osservano le pronunce, la Corte non sembra imporre l’abrogazione della normativa dichiarata incompatibile, ma suggerirne una sua riformulazione al fine di renderla ammissibile. Ed è effettivamente questa la modalità più opportuna e temperata con la quale la Corte riesce ad adeguare tutte le normative interne che ritiene incompatibili.

Si può concludere che l’approccio quanto mai consapevole della Corte permette oggi agli Stati di salvaguardare comunque i propri interessi fiscali, non permettendo al tempo stesso che questo diritto sia esercitato in modo tale da ostacolare le libertà di circolazione previste dal trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, in particolare libertà di stabilimento.

D’altra parte, i singoli Stati devono comprendere il fatto di operare all’interno di un grande Spazio comune e che in quanto tale, per usufruire appieno dei vantaggi da questo offerti, è necessario talvolta sacrificare una parte dei loro interessi per un migliore funzionamento del sistema, non percependo i principi comunitari come dei limiti, ma come sacrifici superabili per la realizzazione di obbiettivo di più ampio spettro.

Si auspica la possibilità di realizzare realmente, in un futuro quanto mai prossimo, un’omogeneizzazione, anche di tipo fiscale, tra gli Stati aderenti allo Spazio comunitario, consapevoli che questa prospettiva comporterebbe un venir meno delle contraddittorietà tra gli Stati, tal volta generate dalla famosa mancata omogeneizzazione dei criteri. vi sarebbero normative interne plasmate o costruite sulla base delle disposizioni contenute nel TFUE in modo da renderle intrinseche di quei principi percepiti ora come dei limiti.

Tale obiettivo non risulta per nulla agevole e le difficoltà incontrabili muovono da un aspetto meramente fiscale, ma essendo un obbiettivo perseguito sin dal primo trattato, si augura nel tempo questo incontri una consapevolezza sempre maggiore in capo ai singoli Stati, i quali per

primi, avendo compreso i vantaggi di una tale Unione, lavorerebbero per la piena realizzazione della Stessa.

Bibliografia essenziale

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- ” L’Esterovestizione della residenza fiscale”, in Fisco Oggi- Rivista telematica dell’agenzia delle Entrate del 7 luglio 2003;

- A. Lanzi- P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit. p285; - A. Lanzi- P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., p.283; G.L. Soana, I reati tributari, cit. p 203;

- A. Perini, voce Reati Tributari, cit., 521;

- A. traversi, la difesa del contribuente, cit. p.296.

- Carlo Nocerino e Stefano Putinati “La riforma dei reati tributari”, Giappichelli;

- Cfr. A. Cadoppi, Commento all’art. 5, in I.ARACCIOLI-A. GIARDA- A.LANZI, diritto e procedura penale tributaria, Padova,2001, P.220s - Così A. Martini, Reati in materia di finanze e tributi, cit., p.424; - Cottino G. (op. cit., p 786) rileva come non esista “l’ente o persona giuridica gruppo”;

- Dottrina si veda Capriglione F.” Poteri della controllante e organizzazione interna del gruppo”, in Impresa, 15/1990 p.2083;

- E. Musco-Ardito, Diritto penale tributario, cit. p.200;

- Galgano F.” Direzione e coordinamento delle società”, in Commentario del Codice civile Scialoja Branca, Zanichelli Editore, 2005, p. 57ss;

- In dottrina Capriglione F.” Poteri della controllante e organizzazione interna del gruppo”, in Impresa, 15/1990 p.2083;

- Riv. Dir. Trib. 2012 n.3, Parte III, p. 61, con nota di Caraccioli,” Imposta elusa” e reati tributari di “evasione” nell’impostazione della Cassazione”;

- Schiano di Pepe G., “Il gruppo di imprese, Giuffrè”,1990, p.13; - Vassalli G.,” Diritto penale e giurisprudenza costituzionale”, Napoli, 2006, XII;

Riferimenti

Legislativi

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Controlled Foreign Companies;

 Commissione Tributaria di Firenze, sez. I, 24 settembre 2007, n.75;

Assonime nelle Circolare 31/10/2007, n°67; Circolare Assonime 31 ottobre 2007, n°67, 2.2;

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Comm. Trib Reg. della Toscana, Sez., XXV, 18 gennaio 2008; Comm. Trib. Prov. Belluno, Sez. I, 3 dicembre 2007, in Rivista di diritto tributario, n.7/8, parte terza,2008,89;

 Art. 39,co 1, lett. d), d.p.r. 600/1973;

 Cfr. Circolare Guardia di Finanza n. 1/2008 del 29 dicembre 2009;

Cassazione

- C. Cass. 3604/1984; - C.Cass.10243/2000;

- Trib. Genova R.G. n14554/2004;

- Corte di Giustizia sentenza 12 settembre 2006, causa C-196/04 “sentenza Cadbury Schweppes”;

- Cass. 13/06/1986 n°3945; - Cass. 8/05/1991 n° 5123;

- Cass.2 dicembre 1982 n.6560 (in Giust. Civ. Mass,12/1982); - Cass. 5 aprile 1990 n.2834 (in Giust. Civ.1991, I, p.2777); - Cass. 9 dicembre 1991 n.13226 (in Giur. it.1992, I,1, p.1952); - Cass.27 giugno 1986 n 4283 (in Giust. Civ. Mass., 6/1986); - Cass.26 febbraio 1990, n.1439 e 11 marzo 1996, n 2001; - Cass. 19 gennaio 1991 n° 505;

- Corte di Cassazione penale si è pronunciata (Cass. 22.11.2011- 28.2.2012 n 7739);

- Cass. Pen. Sez. III, 06-03-2013, n 16001; - Cass. Pen. Sez. III, 21-02-2013, n 32091; - Cass. Pen. Sez IV, 16 aprile 2015, n°24650; - Cass. Pen.Sez III,5 luglio 2012, n 33385; - Cass. Pen. Sez III,27 marzo 2013;

- Cass. Pen. Sez III,13 gennaio 2011, n 656; - Cass. Pen., sez. III, 2dicembre 2011, n 5640; Cass. Pen. Sez III ,20 gennaio 2015, n. 17120;