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ANALISI DELL’EVOLUZIONE SOVRANAZIONALE IN TEMA DI TRASFERIMENTO DI RESIDENZA DELLE IMPRESE VERSO

3.2 La libertà di stabilimento nell’Unione Europea

Fin dalla nascita della Comunità Europea i Trattati istitutivi hanno fissato i propri obiettivi nella realizzazione di un mercato comune, accompagnato da un’unione monetaria ed economica. Fondamentali ai fini del raggiungimento di tali obiettivi erano i diritti di libera circolazione di merci, persone e capitali, i quali venivano sostenuti anche dalla libertà di stabilimento, ad oggi contenuta negli articoli 49 e 54 del T.F.U.E., la quale risulta di particolare interesse nell’ambito dell’analisi che si svolge nel presente lavoro.

L’attuale disciplina però rappresenta il risultato di una continua evoluzione.

Inizialmente la libertà di stabilimento veniva concepita alla stregua di un divieto di discriminazione, o principio di trattamento nazionale, sulla base del quale uno Stato membro non poteva riservare ai cittadini di altri Stati facenti parte della Comunità Europea un trattamento differente rispetto a quello applicato ai propri cittadini.

I soggetti erano destinatari del “diritto di stabilirsi in uno Stato membro diverso da quello di origine per svolgervi in modo stabile un’attività economica di natura non subordinata”, anche per il tramite della costituzione di agenzie, filiali o succursali, “alle stesse condizioni poste dalla legislazione dello Stato di stabilimento nei confronti dei propri cittadini”36.

36 MARGIOTTA, G., Op. cit., pag. 653; in tal senso anche GRAMMATICO, F., STESURI, A., Riforma fiscale: la nuova disciplina de trasferimento di sede e compatibilità con i

principi comunitari, in Fisco, 2005, n. 6, I, pag. 842; Corte giust. com. eur., 13

dicembre 1984, causa C-106/83, punto 28: “Va innanzitutto osservato che il principio

di non discriminazione […] che comprende il divieto di discriminazione in base alla nazionalità […] impone che situazioni analoghe non siano trattate in maniera differenziata e che situazioni diverse non siano trattate in maniera uguale a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato”.

In tal modo venivano vietate le discriminazioni37 sia dirette che

indirette.

Le prime, che si sostanziano quando il comportamento discriminatorio si basa sull’oggetto di tutela che la norma stessa individua come discriminante, hanno ad oggetto la nazionalità o la cittadinanza per le persone fisiche e la sede sociale per gli enti societari.

Le seconde invece, sottendono a regole o prassi teoricamente rivolte alla totalità dei soggetti ma che nella pratica, per il tramite del meccanismo di costruzione, sono destinate ad essere applicate ai soli cittadini.

Per meglio dire le disposizioni introducono una discriminazione sulla base di un elemento differente rispetto a quello oggetto di tutela. Anche in quest’ultimo caso, nonostante la norma non risulti costruita in maniera diretta sulla condizione discriminante, vengono ottenuti gli stessi effetti in termini di risultato di quelli che si configurano con una discriminazione diretta38.

Solo successivamente alla sentenza Kraus, causa C-19/92, al concetto di restrizione vennero associate misure che non rispondevano propriamente al principio di non discriminazione, ampliando perciò l’ambito di operatività a tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio della libertà di stabilimento.

37 Secondo l’elaborazione giurisprudenziale, per discriminazione deve intendersi ogni situazione in cui una fattispecie, anche se analoga ad una seconda, riceve un trattamento regolamentare differente rispetto a quest’ultima, o se, al contrario, quando a due fattispecie uguali viene applicata la medesima disciplina. Il tutto senza che sia possibile riscontrare una qualche prova idonea a giustificare il diverso o il medesimo trattamento a seconda del caso.

38 In ambito tributario la residenza fiscale costituisce l’elemento discriminante a cui la stessa Corte di Giustizia ha assegnato rilevanza in una serie di pronunce. Si vedano in proposito Corte giust. com. eur., 12 febbraio 1974, causa C-152/73; Corte giust. com. eur., 14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker.

Sempre all’interno del Trattato istitutivo della Comunità Europea vi era anche l’art. 293 (ex art. 220 T.F.U.E.) che si occupava della libertà di stabilimento nella specifica ipotesi di trasferimento di sede.

Esso impegnava gli Stati membri ad avviare negoziati intesi a garantire, nei confronti dei loro cittadini, “il reciproco riconoscimento delle società” ed “il mantenimento della personalità giuridica in caso di trasferimento della sede da un paese a un altro e la possibilità di fusione di società soggette a legislazioni nazionali diverse”.

L’articolo sollevava però un problema importante in quanto, dalla sua formulazione, sembrava trasparire che la materia del trasferimento di sede fosse sottratta dalle competenze comunitarie, in favore di una competenza individuale degli Stati membri.

Considerazione avvallata dal riferimento generico al concetto di sede che risultava al tempo regolato dal diritto societario proprio di ogni Stato, materia tuttora di competenza dei legislatori nazionali i quali conservano la facoltà di definire i criteri di collegamento e la facoltà, così come le modalità, di poter procedere con un trasferimento di sede.

Materia poi che ad oggi non risulta ancora armonizzata a livello comunitario e che affida ad iniziative legislative o pattizie la conciliazione delle molteplici discipline societarie.

Vero però che una tale interpretazione si sarebbe posta in contrasto con il principio di diretta applicabilità della libertà di stabilimento. Come affermato nella pronuncia della sentenza Überseering, l’esercizio della libertà di stabilimento non può condizionarsi alla concreta adozione di tali negoziati, in considerazione anche della presenza dell’inciso “per quanto occorra”.

Si tratta di una delle libertà fondamentali che, in quanto tale, deve continuare a godere di una diretta applicazione all’interno degli ordinamenti nazionali, in maniera incondizionata.

Nel concreto, nonostante esistesse una convenzione diretta a garantire lo spostamento di sede congiuntamente al mantenimento della personalità giuridica, essa non entrò mai in vigore a causa della mancata ratifica da parte dei Paesi Bassi e che, ad opera del Trattato di Lisbona, l’art. 293 T.c.e. fu successivamente abrogato.

Al giorno d’oggi la normativa concernente il diritto alla libertà di stabilimento è contenuta all’interno degli articoli 49 e 54 T.F.U.E., i quali estendono tale libertà anche nei confronti degli enti giuridici. Vi è quindi una espressa equiparazione tra le persone fisiche e “le società costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro e aventi la sede sociale, l'amministrazione centrale o il centro di attività principale all'interno dell'Unione”. La precedente formulazione non intende concludere in favore dell’applicazione del criterio dell’incorporazione, ma piuttosto esprime un generico riconoscimento delle entità giuridiche straniere attraverso l’equiparazione alle persone fisiche.

Per libertà di stabilimento deve intendersi il diritto di esercitare in modo effettivo un’attività economica di natura non subordinata, per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro, diritto che può essere fatto valere sia verso il Paese ospite quanto verso il Paese di origine, pur non garantendo la possibilità di cambiare contestualmente cittadinanza39.

Si prefigge perciò l’obiettivo di ostacolare sia le restrizioni definite “in entrata” così come quelle “in uscita”, le prime poste in essere dallo Stato nel quale la società ha intenzione di trasferire la sede principale o una propria sede secondaria e le seconde, invece, poste in essere dallo

39 Cass. penale, sezione III, 30 ottobre 2015, n. 43809, in Riv. Dir. trib., Supplemento online, pag. 56. Disponibile al sito: http://www.rivistadirittotributario.it/wp- content/uploads/2016/01/A_4-Supplemento-RDT.pdf; MUCCIARELLI, F., M., Op. cit., pag. 88.

Stato di costituzione, che non permette o impedisce lo spostamento della sede al di fuori dei confini territoriali nazionali.

La distinzione precedentemente evidenziata, circa lo spostamento della sede principale o della sede secondaria, non è di poca importanza in ragione del fatto che distingue la libertà di stabilimento primaria rispetto a quella secondaria.

Esistono due modi di esercitare il diritto allo stabilimento: da un lato costituendo nuove società conformemente alla legislazione di uno Stato membro o trasferendo la sede legale, la sede dell’amministrazione centrale o il centro d’attività principale - ossia spostando un centro di attività economica e professionale - e dall’altro avendo la possibilità di creare affiliate, succursali o agenzie per il tramite delle quali svolgere un’attività economica in un Paese differente40.

Le due casistiche sono differenziate anche da una distinzione geografica, che vede nell’esercizio della libertà di stabilimento primaria uno spostamento della localizzazione, ossia una vera e propria uscita da un Paese seguita dalla corrispondente entrata nel Paese di destinazione, mentre in quella secondaria viene mantenuto il collegamento con il Paese di origine e si procede con una delocalizzazione.

Da qui la nascita di numerose controversie circa l’inizio di una regolamentazione concorrente tra differenti ordinamenti giuridici, che

40 Conclusioni dell’avvocato generale Marco Darmon, 7 giugno 1988, causa Daily Mail

and General Trust; Conclusioni dell’avvocato generale Damaso Ruiz-Jarabo Colomer,

4 dicembre 2001, causa Überseering. Con altre parole, “oggetto di tutela è l’accesso e

lo svolgimento, con le stesse modalità stabilite dalle leggi dello Stato membro di stabilimento per i propri cittadini, di un’attività economica a carattere non subordinata, con autonomia gestionale e assunzione di rischio economico, […] e si estende alla costituzione di agenzie, di succursali o di affiliate da parte dei cittadini di uno Stato membro stabiliti nel territorio di un altro Stato membro”, così MIELE, L., «Exit tax» sul trasferimento della residenza fiscale all’estero, in Fisco, 2010, n. 6, pag.

hanno determinato l’insorgere di una serie di questioni pregiudiziali presentate alla Corte di Giustizia nel corso degli ultimi trent’anni.

In generale, in base alla disciplina contenuta nel Trattato viene assicurata una libertà di stabilimento incondizionata, salva l’applicazione, ai sensi dell’art. 52 T.F.U.E., “di disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime particolare […] e che siano giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica”.

In aggiunta a tali tipologie di restrizioni si devono necessariamente sommare tutte quelle nazionali che derivano dal non superamento del “Test Gebhard” (o clausola dell’interesse generale) che si sviluppa lungo quattro fasi e che permette di “gettare luce sul complesso intreccio di interessi coinvolti dall’attività sociale e sul ruolo della legge per determinare un punto di equilibrio tra di essi”41.

Consiste in un’attività di valutazione di ogni ragione giustificatrice che viene presentata a sostegno della correttezza di una norma sospettata di essere idonea ad introdurre una restrizione, al fine di comprendere se la misura risulta equilibrata.

Concretamente, i provvedimenti nazionali che ostacolano o scoraggiano l’esercizio del diritto al libero stabilimento devono contemporaneamente applicarsi in maniera non discriminatoria, devono configurare motivi imperativi di interesse generale, devono risultare idonei al conseguimento dello scopo prefissato ed, infine, non devono eccedere quanto necessario per il raggiungimento dello scopo. È lo schema argomentativo che viene seguito dalla Corte di Giustizia per valutare la proporzionalità, la coerenza e, più in generale, la compatibilità delle misure nazionali rispetto alla disciplina

sovrannazionale, non solo con riferimento alle norme di conflitto, ma estendendosi anche a quelle sostanziali, fiscali e societarie.

A conferma di quanto appena detto ricorre l’art. 54 T.F.U.E. il quale, per quanto non sia una norma di diritto nazionale privato e non richiami in maniera specifica le leggi degli Stati membri, rimette agli stessi il compito di creare enti giuridici condizionandolo al rispetto sia della disciplina interna, che di quella comunitaria42.

42 Ibidem, pag. 92.