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Compito del medico e suicidio medicalmente assistito dal punto di vista medico- medico-legale

Ammettiamo di essere in un’Italia ideale. Dove le cure palliative siano assicurate in modo diffuso su tutto il territorio ai più alti livelli. Ammettiamo che i medici abbiano ricevuto un’adeguata formazione su come comunicare e relazionarsi con un paziente afflitto da sofferenze intollerabili. Ammettiamo che la popolazione abbia ricevuto adeguata e capillare informazione sull’esistenza delle cure palliative e di tutte le possibilità a cui possono ricorrere a fronte di una condizione soggettiva di sofferenza intollerabile. Ammettiamo tutto questo. Ed ora confrontiamoci con un uomo che ha avuto grandi soddisfazioni come atleta, che da otto anni combatte con l’Aids ed oggi pesa 37 Kg, che sta perdendo la memoria e la capacità di ragionare ed è terrorizzato dalla demenza da Aids. Oppure una donna madre di sette figli, costretta a letto da una grave stanchezza cronica, portatrice di una ferita aperta e maleodorante nell’addome, che non può più mangiare ed è stanca di combattere contro un cancro all’ovaio. Oppure un operaio pensionato, ferocemente indipendente, reso quadriplegico da una Sla, che non sopporta più di vivere in uno stato di totale dipendenza e vive sperando nel giorno della propria morte. Oppure uno scrittore, afflitto da metastasi ossee da cancro del polmone, non più responsivo alle terapie, che non vuole più dover decidere quotidianamente tra la sedazione e la percezione del dolore insopportabile. Oppure il medico sofferente di fibrosi polmonare che non vuole più rimanere attaccato al ventilatore ma è terrorizzato dalla sensazione di soffocamento. Ecco questi sono esempi reali, riportati nel New England Journal of Medicine già nel 1992, di fronte ai quali appare giusto porsi la domanda se queste persone possano avere il diritto di accorciare il tempo di agonia in cui vivono quotidianamente per 86.400 secondi o se vogliamo 1.440 minuti al giorno. Sì, perché si tratta di sofferenze che non abbandonano mai chi le vive. Mi si risponderà che più di un caso a cui ho fatto riferimento possa oggi essere risolto o comunque aiutato dalle cure palliative ed è vero, ma ci sarà sempre quel caso residuale, il quale non potrà trovare giovamento dalle cure disponibili nel momento storico in cui si svolge.

È di fronte a quei casi residuali che ci si deve porre la domanda come medici su quale sia il migliore dei comportamenti possibili.

L’evoluzione della cultura deontologica dei medici e dei professionisti sanitari italiani, a cui si è aggiunta di recente la legge 219/2017, consente di poter sostenere che ormai in Italia si sia affermato il principio del diritto prima di tutto della dignità della vita piuttosto che della quantità dell’esistenza. E in nome di questa dignità, che è un diritto personalissimo sul quale quindi nessuno può esercitare alcuna decisione se non il singolo individuo, i medici sono chiamati dal codice deontologico ad un confronto sempre più personalistico con il paziente, sino a giungere ad una terapia che, grazie alla programmazione nel tempo delle cure, viene adattata in modo “sartoriale” a ciascun malato.

di dare tempo a se stesso e al paziente per comprendere, assieme, cosa sia meglio per il paziente stesso.

L’insieme delle norme deontologiche e legislative consente oggi al medico di incontrare il paziente, comunicare con lui per il tempo necessario, informarlo della diagnosi e della prognosi, prospettargli nei modi comunicativi più consoni il destino che lo attende, ciò che le strutture sanitarie possono offrirgli come supporto terapeutico anche domiciliare, in particolare come cure palliative, mettergli a disposizione l’assistenza psicologica e, se del caso psichiatrica, necessaria. Tuttavia, a fronte di un rifiuto, nonostante tutto, delle terapie, il medico oggi è tenuto a fermarsi. Nel fermarsi potrà trovarsi di fronte ad un paziente sofferente e sarà deontologicamente legato al dovere di lenire le sofferenze di quel paziente. Che siano fisiche o psicologiche. Ed è in quel momento che si gioca il ruolo unico e insostituibile del medico: come poter lenire il dolore intollerabile di un paziente che rifiuta persino le cure palliative, o per il quale anche la stessa sedazione palliativa non sia risolutiva dato che magari non è in fase terminale? In cosa consiste in questi casi il dovere del medico di prestare cure al paziente?

Bisogna prendere atto, come d’altronde anche sottolineato dal Comitato nazionale per la bioetica nel suo recente parere sul Suicidio medicalmente assistito, che la sensibilità sociale nei confronti della sofferenza è cambiata e induce a complesse riflessioni etiche, giuridiche, sociali ed economiche sul tema del morire. E che, inoltre, si tratta di una questione che nasce e si sviluppa solo nelle società contemporanee tecnologicamente avanzate dato che in quelle non avanzate il processo del morire segue il suo naturale corso temporale.

La Consulta deontologica nazionale (Cdn), nel documento del 14 marzo 2019 ribadisce la posizione della Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri per la quale al medico non possa essere richiesto di favorire in alcun modo la morte del paziente. Tuttavia, a fronte di una possibile legislazione in tema di suicidio assistito, indica alla Corte costituzionale di affidare ai medici la sola competenza di stabilire le condizioni cliniche del paziente che configurino il suo diritto a richiedere ed ottenere il suicidio assistito.

Orbene esistono numerosi esempi nel mondo di paesi e stati che hanno legiferato sul tema e numerose sono le linee guida, i protocolli, tutti connotati da forte rigidità nei parametri considerati, che possono aiutare l’Italia nella formulazione di linee guida nazionali, elaborate secondo i dettami della legge 24/2017, meglio conosciuta come “legge Gelli” sulla responsabilità professionale dei medici, e che potrebbero costituire la piattaforma sulla quale i medici chiamati a valutare le condizioni cliniche idonee alla richiesta di suicidio medicalmente assistito potrebbero muoversi. E come la legge 24/2017 indica all’articolo 5, l’applicazione della linea guida andrebbe verificata rispetto al singolo caso e, qualora fosse ritenuta non adeguata, ci si potrebbe discostare e non applicarla. È in questo senso che potrebbe essere considerata l’obiezione di coscienza che non varrebbe come obiezione verso tutti i casi, bensì verso il singolo caso. Obiezione che andrebbe documentata nel suo iter logico, in cartella clinica, e dovrebbe basarsi strettamente su circostanze medico-sanitarie. Il medico che, invece, volesse sollevare obiezione di coscienza per tutti i casi per motivi morali personali, non ha motivo di farlo, basta che non accolga l’invito del paziente a discutere con lui della

sua volontà di richiedere il suicidio assistito. Dovere deontologico del medico in questi casi, come in tutti i casi in cui il medico non essendo d’accordo con le decisioni del paziente esercita la propria autonomia professionale interrompendo il rapporto di fiducia, sarebbe indicare al paziente un altro collega a cui rivolgersi, al fine di non lasciarlo privo di assistenza.

La Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri indica chiaramente che l’eventuale diritto riconosciuto per legge alla richiesta di suicidio assistito dovrebbe essere affidato ad un team di clinici e medici legali. Va da sé che si tratterà di specialisti del settore, formati ad affrontare temi legati al fine vita e al morire con dignità, che abbiano competenza nella comunicazione con il malato grave, disabile, cronico, terminale. Soltanto colleghi preparati in questo settore possono prendersi carico dei malati che richiedono un aiuto al suicidio in quanto saranno gli unici in grado di poter analizzare in modo corretto, che tenga conto di tutti i valori in gioco, le istanze del malato e verificarne l’applicabilità alla legge. Lo stesso medico legale dovrà avere competenza ed esperienza nelle questioni riguardanti il fine vita e le patologie che pongono problemi di dignità del vivere e del morire.

Le linee guida dovrebbero prevedere: il dovere di una corretta informazione, di un confronto dialogico in cui tutte le possibili cure e alternative vengano considerate e discusse a fondo col malato, la capacità del paziente di argomentare le proprie scelte di suicidio e di sostenerle a fronte di tutte le obiezioni poste, la presenza di una patologia che oggettivamente determini le condizioni che il paziente riferisce ed argomenta e la ferma persistenza nel desiderio di non prolungare ulteriormente la propria esistenza non percepita più come vita. Una tale sequenza di passaggi può certamente orientare l’equipe di medici chiamati a valutare la richiesta di suicidio assistito.

La Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri non chiarisce cosa debba accadere a fronte del possibile accoglimento del diritto di un paziente ad ottenere il suicidio assistito, dato che pone ai medici il solo compito di definire l’idoneità delle condizioni cliniche del paziente. I paesi che hanno maturato esperienza in questo campo documentano diversi modi per aiutare il paziente a suicidarsi, tra cui anche farmaci che il malato può assumere in piena autonomia nel momento in cui decide di farlo. Va da sé che, pur mantenendo fermo il princìpio per cui sia il malato a somministrarsi il mezzo letale in piena autonomia decisionale ed attuativa, nel momento in cui la decisione riguardo il momento in cui farlo venga condivisa con il medico, è inimmaginabile che il curante stesso non si senta impegnato con il proprio paziente – col quale ha condiviso tutti i dolorosi passaggi che lo hanno portato alla decisione finale – nel dovergli assicurare l’eventuale assistenza – anche solo di vicinanza – che si dovesse rendere necessaria. Ciò al fine di non abbandonare il paziente assicurandogli di morire con dignità assistito non solo dagli affetti ma anche dal medico a cui si è affidato. Anche perché solo il medico è in grado di proporre metodi di suicidio efficaci e non traumatizzanti o dolorosi.

Va da sé, e lo ribadisco, che non tutti i medici potranno assumere questo ruolo, ma soltanto coloro in grado, per formazione ed esperienza, di dialogare sul bene vita e sulla morte con pazienti in condizioni di estrema difficoltà esistenziale. Ed essendo ormai palese che in futuro vi saranno sempre più pazienti che, per l’età avanzata raggiunta con le relative patologie associate o per la possibilità di

ritardare il momento della morte grazie alle tecnologie avanzate a disposizione, potranno chiedere aiuto per ovviare ad esistenze divenute intollerabili, non appare più procrastinabile l’istituzione presso i corsi di laurea in medicina e chirurgia e nelle professioni sanitarie di corsi di insegnamento in comunicazione medico-paziente al fine dello sviluppo di una formazione culturale e universitaria sul rapporto medico-malato, medico-morte come, peraltro, richiesto anche dal Consiglio d’Europa già nel 1999.