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Il fine vita volontario in Italia visto da un olandese attento alle questioni bioetiche

Vorrei iniziare con una lezione molto breve di lingua olandese. La traduzione della parola “laico” è

leek, che significa anche “profano”, cioè una persona incompetente. Così mi considero, almeno in

quest’ambiente di studiosi ed esperti di etica. Quindi non aspettatevi da me una relazione tecnica. Per me la parola “etica” è sinonimo di deontologia professionale, cioè l’insieme di norme etico-sociali che disciplinano l’esercizio di una professione. Nella mia vita professionale come revisore contabile, l’etica professionale è stata uno dei principi fondamentali alla base del mio lavoro. Aggiungo che la mia prima esperienza lavorativa è stata nell’ufficio appalti del reparto Segnaletica delle ferrovie olandesi, dove il responsabile non ha mai accettato un solo regalo da un fornitore, Diceva: «si comincia con un caffè e non si sa mai dove si finisce». Un’ottima scuola.

Per quanto riguarda il tema fine vita, la discussione in Olanda è ripartita alla fine degli anni sessanta, cioè cinquanta anni fa, dopo la pubblicazione di un libro dello psichiatra Jan Hendrik van den Berg dal titolo Medische macht en medische ethiek (Potere medico ed etica medica), in cui difendeva l’intervento passivo e attivo per porre fine alla vita. Secondo l’autore il nuovo potere del medico, grazie alle tecniche chirurgiche, ai trapianti di organi, alla neurochirurgia e alla rianimazione, rende inevitabile una nuova etica. Un’etica dove il medico non deve più tenere in vita un paziente quando “è possibile”, ma quando “ha senso”.

Van den Berg si rende conto che l’eutanasia attiva sembra una crudeltà, una cosa sconveniente, ma è convinto che la vera crudeltà sia tenere in vita persone gravemente ammalate senza prospettive di guarigione, sofferenti da molto tempo.

Secondo la sua opinione il paziente ha il diritto di conoscere la propria condizione di salute e il medico ha il dovere di informarlo. Il medico deve agire per il paziente e per nessun altro.

Il libro è considerato un atto coraggioso, anche se non tutti condividono la posizione dell’autore riguardo all’eutanasia, da lui definita come un fine vita “stoico”.

Nello stesso periodo il teologo cattolico Paul Sporken, nel suo libro Voorlopige diagnose (Diagnosi

provvisorie), conclude che una condanna etica categorica dell’eutanasia, valevole in tutte le

circostanze, è insostenibile. Aggiunge: «Attenzione: il contegno interiore del rispetto per la vita e l’aiuto alla conservazione della vita non tollerano compromessi. Ma qui si tratta di rendere concreto il dovere di aiutare a morire, servendo il paziente specifico nella sua particolare situazione e nel modo più opportuno».

Sporken indica due restrizioni. L’eutanasia sistematica per malati incurabili, malati di mente oppure persone che sono un peso per la società è eticamente e assolutamente inaccettabile; lo stesso vale per l’eutanasia attiva senza il consenso del paziente.

Successivamente le discussioni si sviluppano nell’ambito medico sul senso del trattamento, considerando anche i progressi tecnologici e nel campo farmaceutico.

Comincia a prevalere la tesi che un trattamento ha senso fino a quando ha senso per il paziente e per il suo contesto ambientale. Man mano è accettato il coinvolgimento del paziente nelle decisioni che lo riguardano, anche se il ruolo del medico rimane di tipo paternalistico.

Non vorrei entrare nei dettagli per quanto riguarda le discussioni successive che ormai hanno coinvolto tutta la società civile. Ma si nota che sempre di più, seppur lentamente, l’eutanasia è accettata nei casi di sofferenze insopportabili e senza prospettive anche da parte di protestanti e cattolici. I sondaggi di allora indicano che oltre 60% è a favore della sua legislazione, percentuale in continua crescita. Contemporaneamente si viene a creare una giurisprudenza che stabilisce i criteri che il medico deve seguire per evitare di essere perseguito in caso di applicazione dell’eutanasia e del suicidio assistito. Di fatto dal 1989 in Olanda l’eutanasia è legalizzata.

Dopo alcuni blandi tentativi negli anni ottanta, finalmente all’inizio degli anni novanta la politica si inserisce seriamente nella discussione. Stabilisce che non sono le ideologie e le religioni a orientare legge ma la persona che soffre in modo insopportabile e senza prospettive di guarigione. Tramite il lavoro di commissioni incaricate si prende atto della situazione reale e una prima proposta di legge, che tiene conto delle raccomandazioni di queste commissioni, viene presentata. Tale iniziativa porta poi all’approvazione della legge sull’interruzione della vita su richiesta e sul suicidio assistito, in vigore dal primo gennaio 2002. Con il progredire delle conoscenze sulla sofferenza del malato, le discussioni si sono protratte fino a oggi su questioni come le malattie psichiatriche, la demenza, la vita compiuta, cioè la sofferenza esistenziale.

Finisco questa lunga introduzione con la conclusione che per valutare la situazione olandese è necessario conoscere la società, con le sue regole e tradizioni etiche e morali. In assenza di questa conoscenza sovente le valutazioni e le affermazioni da parte di non olandesi sono errate.

Vorrei spiegarmi meglio con alcuni esempi che a mio avviso sono anche una risposta alle critiche degli oppositori alla legislazione del fine vita volontario in Italia.

Sul caso di Noa Pothoven non ripeto le tante inesattezze scritte. La verità è che Noa era una ragazza che aveva la maturità, indipendentemente della sua età (17 anni), di decidere per se stessa e nonostante le cure di medici e l’affetto dei genitori ha voluto porre fine alla sua vita. Lei ha rifiutato altre cure dicendo “quando basta, basta”. L’equipe dei medici, convinta di questo suo desiderio e vista l’impossibilità di farle cambiare idea, non ha fatto altro che accompagnarla alla morte in modo che soffrisse il meno possibile. Sui giornali olandesi non sono apparsi articoli perché il codice deontologico dei giornalisti vieta di divulgare notizie sui suicidi.

Non sarebbe accettabile che il presidente di un organo professionale affermasse che le linee guida per i professionisti appartenenti a detto organismo sono al di sopra di qualsiasi legge. Ci sarebbe una rivolta e più di una denuncia.

In una società aperta, dove parlare del fine vita non è più un tabù, continuano le discussioni sulla natura della sofferenza non solo causata da una malattia somatica o psichica ma anche da un senso d’inutilità o solitudine, cioè la vita biografica terminata che causa una sofferenza esistenziale. È

eticamente accettabile che si critichi una tale società?

Sovente si parla del pendio scivoloso, confondendolo con il progresso nel campo medico per quanto riguarda la conoscenza del fenomeno “soffrire”. Detta conoscenza ha permesso l’ampliamento dell’applicazione dell’eutanasia, purché con la dovuta cautela, anche per malati psichici o non terminali come quelli affetti da disturbi multipli, tipici dell’anzianità, che pure possono causare sofferenze insopportabili e senza prospettive.

Lo stesso vale per l’aspetto economico, diretto e indiretto, che non è mai alla base della decisione per accogliere una richiesta di fine vita volontario. È vero però che il fine vita volontario avrà un beneficio economico per la società perché diminuiscono i costi delle cure sanitarie.

Le cure palliative e quelle terminali non sono un sostituto per il fine vita volontario, Nonostante l’alto livello delle cure e una copertura territoriale totale, come in Belgio e Olanda, rimangono i casi in cui non hanno effetto, oppure in cui il paziente le rifiuta, come lo dimostrano i dati. Indubbiamente le buone cure palliative, anche prima che il paziente entri nella fase terminale della sua vita, possono diminuire le richieste di fine vita volontario.

Grazie alla possibilità del fine vita volontario su richiesta diminuiscono i casi traumatici di suicidio e la ricerca affannosa di un medicinale letale. La pratica ha mostrato che il paziente, sapendo che c’è una via di uscita alle sue sofferenze, si sente più sereno e talvolta ritira la richiesta di fine vita volontario.

Una legislazione sull’eutanasia o sul suicidio assistito mette fine alla pratica dell’abusivismo forzato e del rischio di condanna dei medici che lo praticano.

È necessario un maggiore rispetto per le opinioni altrui. Per esempio l’opinione della Chiesa cattolica non deve essere promossa come la sola opinione che dovrebbe valere per tutti.

In base alla mia esperienza e la conoscenza della realtà italiana e internazionale, vorrei proporre alcuni suggerimenti.

È auspicabile l’istituzione di una commissione d’inchiesta che studi in profondità la situazione italiana per quanto riguarda il fine vita, prendendo come esempio le ricerche effettuate in altri paesi come l’Olanda, il Belgio e il Canada prima di legalizzare il fine vita volontario. Sarebbe opportuno coinvolgere rappresentanti di associazioni, esponenti del mondo politico e responsabili di istituzioni di controllo sulla corretta applicazione della legge in altri paesi per uno scambio reciproco di esperienze. La commissione dovrebbe anche esprimersi su temi che potrebbero presentarsi in futuro, come la vita compiuta, malati non terminali e minori.

Occorre aggiornare le proposte di legge, che giacciono in Parlamento, in base ai risultati della suddetta indagine. Cito per esempio il controllo della corretta applicazione della legge.

In seguito all’approvazione di una legge che legalizzi il suicidio assistito serve una campagna di sensibilizzazione per fare conoscere ai cittadini gli aspetti pratici.

Concludo osservando che chi sarà coinvolto nella stesura della proposta di legge dovrebbe riflettere sulla realtà olandese. L’80% dei decessi in seguito a eutanasia e suicidio assistito avviene a casa del paziente, mentre il 90% preferisce l’eutanasia. In Belgio il quadro non è significativamente diverso. Grazie per la vostra attenzione.