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Da una vicenda personale alla questione civile e politica del diritto al suicidio medicalmente assistito

«Voglio cercare se, nell’ordine civile, può esservi qualche regola di amministrazione legittima e sicura, prendendo gli uomini come sono e le leggi come possono essere. Tenterò di associare sempre in questa ricerca ciò che il diritto permette con ciò che l’interesse prescrive, perché la giustizia e l’utilità non si trovino ad essere separate».

Ho voluto partire da questo passo perché queste parole mi tornano in mente sempre quando mi trovo ad affrontare la questione della legislazione sul fine vita. Mi viene in mente questo passo perché queste parole avrei voluto trovarle io. Le sento mie, poiché esprimono in maniera sintetica, ma chiara e distinta, convinzioni che ho maturato da tempo nel corso della mia esistenza, riguardo al compito del legislatore in generale in tutti i campi che gli competono e in particolare riguardo al fine vita, questione che mi coinvolge particolarmente per un’esperienza personale che molti dei presenti certo conoscono.

Ho maturato la convinzione che, affinché una società sia ben governata, ben amministrata, coloro che formulano le regole, il legislatore, devono considerare gli uomini per «come sono» per poi formulare le leggi «come possono essere». Ciò che il diritto permette non può essere dissociato dalle esigenze di chi quel diritto lo deve osservare, ovvero i cittadini. Ma Rousseau lo dice molto meglio di me: «ciò che l’interesse prescrive». Perché certe esigenze dei cittadini non sono ignorabili, sono proprio prescrittive. E solo così giustizia e utilità dei cittadini non si trovano ad essere separate. Per quella che è la mia esperienza, nell’affrontare il tema dell’opportunità o meno e in quali termini di una legislazione sul fine vita, il dibattito è sempre complesso ed è giusto che sia così, perché è un tema delicato, un tema “sensibile”, che implica tanti aspetti e campi diversi: l’etica innanzitutto, per l’esigenza di individuare quali sono i principi e i valori ottimali per il singolo e per la collettività; il diritto che non può non tener conto dei principi e dei valori della società cui esso si rivolge; la medicina, perché c’è in questione l’identificazione del ruolo del medico, di come debba comportarsi per portare a termine la sua missione, che è quella di occuparsi del benessere delle persone.

Per quel che è la mia esperienza, ho constatato che tutti questi punti di vista sono ben rappresentati nei dibattiti e negli scritti sul tema, ma secondo me non è abbastanza rappresentato, in alcuni casi proprio per niente, il punto di vista di chi è protagonista di ciò di cui si parla. Se il legislatore deve considerare «gli uomini come sono» per formulare le leggi, nel caso del fine vita chi sono gli uomini di cui il legislatore si dovrebbe innanzitutto preoccupare? Sono i malati terminali, e non tutti i malati terminali, quei malati terminali che chiedono di essere aiutati a morire. Di loro si parla certo molto, in riferimento a quale può essere il loro bene, ma ho l’impressione che si parli poco con loro. Soprattutto ho l’impressione che si pensi da parte di molti che il malato è la sua malattia e quindi nel momento in cui una persona è malata la sua capacità di intendere e di volere è inficiata, non è più in grado di autodeterminarsi e dunque deve essere considerato, come qualcuno ha detto, regredito

all’età infantile e bisognoso di essere guidato.

Ma io penso che se la malattia non ha intaccato le cellule cerebrali, il malato, nonostante le sue sofferenze, conserva la capacità di intendere e di volere. Qualcuno dice: “ma è condizionato dalla sua malattia”. Certamente i nostri ragionamenti, le nostre esigenze, i nostri obiettivi, il nostro progetto di vita sono sempre legati a ciò che noi viviamo e certamente un giovane di vent’anni in piena salute non si metterà a ragionare, né vorrà convincere circa la necessità di essere aiutato a morire. Mentre chi si trova in altre condizioni ha delle ragioni che vanno ascoltate, sono ragioni espresse con pieno raziocinio.

Lo posso dire con nozione di causa perché ho avuto una diretta esperienza personale: ho avuto in sorte di trovarmi al fianco di Walter Piludu, che era mio marito, per tutti gli anni della sua malattia, fino al momento ultimo. Mio marito era malato di Sla. Tutto quello che sto per dire di lui non è una mia interpretazione, se ne può trovare riscontro nei suoi scritti.

Devo innanzitutto sottolineare una cosa: Walter ha avuto una assistenza medica e infermieristica molto buona. Da questo punto di vista non riteneva di aver niente da lamentare. È stato circondato dall’affetto dei suoi cari e i suoi familiari lo hanno supportato in ogni momento della sua malattia. Aveva anche un’assistenza privata, perché i familiari ci tenevano a che non fosse lasciato niente al caso nell’accudimento richiesto dalla sua condizione.

Walter, come lui stesso diceva, non aveva voglia di morire, non se ne voleva andare dalla vita, le sue esatte parole erano queste: «non sono afflitto da fisime suicidarie». Era riuscito a trovare un senso alla sua esistenza anche in quella condizione. Non aveva sofferenze strazianti a causa della sua malattia, ma c’era il fatto, di non secondaria importanza, che la malattia fin da subito lo aveva paralizzato dalla testa in giù e gli aveva tolto la parola, lasciandogli solo la possibilità di muovere gli occhi e di poter comunicare per mezzo di un computer a comandi oculari.

Walter sapeva che anche la motilità oculare, se non fosse morto prima per qualche altra cosa, sarebbe venuta meno. E tuttavia Walter aveva comunque trovato un senso alla sua esistenza, l’aveva trovato, come diceva lui, «nella possibilità» – che ancora gli restava – «di pensare e di amare» e nella possibilità di poter trasmettere i suoi affetti e i suoi pensieri grazie al computer. Ma si chiedeva: fino a quando? Dunque Walter non soffriva dolori fisici insopportabili, ma aveva, secondo le sue stesse parole, una «grande angoscia». Non era l’angoscia per il presente, era angoscia per l’avvenire, angoscia per il futuro, angoscia per le possibilità che lo aspettavano e che conosceva benissimo. Sapeva come sarebbe andata a finire: se non fosse morto prima per qualche altro malanno, avrebbe perso anche la motilità oculare e sarebbe rimasto chiuso nel suo corpo come in un bozzolo, con la mente lucida – perché la sua mente era lucida – senza poter mai più comunicare con l’esterno. Questa era la sua angoscia, la sua maggior sofferenza, cui voleva porre

fine senza vani rimandi e attese, dato che il suo destino era ormai segnato in modo irreversibile. Per questo Walter ha fatto una battaglia pubblica – coerentemente con i principi e i valori in cui da sempre credeva – una battaglia per ottenere non il diritto per sé di potersene andare (la rivendicazione per sé l’ha fatta con una procedura legale presentando un’istanza al giudice tutelare attraverso un avvocato) ma per ottenere una buona legge sul fine vita, cui chiunque potesse appellarsi, senza dover

percorrere un iter giudiziario dall’esito non sempre certo, come dimostrano i casi Welby, Nuvoli, Englaro.

Walter non chiedeva soltanto una legge sul biotestamento, chiedeva una legge sull’eutanasia. Non aveva paura della parola eutanasia: aveva chiesto più volte a esponenti della cultura e della religione: «che differenza c’è tra l’atto del medico che stacca le macchine che mi tengono artificialmente in vita e l’atto del medico che mi dà una pozione letale che abbrevia il mio morire che è già iniziato? Che differenza c’è se sono io che lo chiedo? Nel momento in cui la volontà del soggetto è chiara e rilevabile e sono rilevabili anche le condizioni che lo portano ad esprimere quella volontà, che differenza c’è?».

Chiudo con un’altra citazione, spero mi perdonerete per questo. La citazione è dal Vangelo di

Giovanni e si riferisce all’Ultima cena, quando, come tutti sappiamo, Gesù fa capire chi lo tradirà

e rivolgendosi a Giuda dice «quel che devi fare, fallo al più presto»( altre fonti dicono «affrettati a farlo»). Spero di non essere blasfema e credo di non esserlo, se dico che ciò che chiede Gesù – che sapeva qual era il suo destino e lo aveva accettato, ma era angosciato dal non sapere come si sarebbe realizzato, in quali tempi, in quali modi, e dice a Giuda, che sapeva essere il tramite di realizzazione del suo destino: «affrettati» – è la stessa cosa che alcuni malati terminali chiedono al loro medico: “so qual è il mio destino, so che tu mi puoi aiutare ad arrivare alla fine, affrettati ad aiutarmi”. Grazie dell’attenzione.