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Suicidio medicalmente assistito: la cultura della vita e il senso delle parole

Innanzitutto grazie agli organizzatori, la Consulta di bioetica e Uaar, chi ha permesso la nostra presenza in questa sala. Mi scuso di essere arrivato soltanto nel pomeriggio, purtroppo questa mattina non mi è stato possibile essere presente.

Sicuramente intervenire dopo al professor Lecaldano è particolarmente impegnativo anche perché sul mio intervento – quando mi hanno proposto sia a livello di associazione il patrocinio che non abbiamo esitato, con estremo piacere, a dare a questa iniziativa, sia la possibilità di intervenire – ho dovuto rifletterci. Perché mi sono chiesto che cosa potesse dire una persona come me che nella vita fa tutto un altro mestiere, il commercialista, che presiede una associazione di cultura e politica che ha cinque parole chiave nella propria mission, che sono etica, politica, trasparenza, innovazione e cultura. Ed è proprio l’aggancio con la parola “cultura” che mi ha fatto riflettere: questo convegno, questo tema, quello che attendiamo il 24 settembre nei fatti è una delle rappresentazioni della cultura. Ho pensato che potesse essere significativo un brevissimo contributo di una persona che vive la vita tutti i giorni, di una persona che non è un medico, un filosofo, uno scienziato, ma una persona come me che si è avvicinata con molta prudenza, con molto riserbo, a certe materie. Alle materie che riguardano i diritti fondamentali dell’individuo sia nell’inizio della vita – penso ad alcune occasioni di incontro che abbiamo avuto parlando di fecondazione assistita – sia in tema di diritti civili: mi ricordo la battaglia sulle unioni civili, mi ha fatto molto piacere salutare Monica Cirinnà.

Abbiamo già avuto altre circostanze di incontro anche in Senato sui temi del fine vita: ora certamente questa del suicidio medicalmente assistito richiede secondo me una riflessione in più. Non vi parlerò di argomenti scientifici o medici o filosofici perché non ne ho le competenze, ma vorrei farvi riflettere su alcuni aspetti pratici della vita che ci capitano tutti i giorni, quando ci alziamo la mattina fino a quando andiamo a dormire. Pensiamo ad esempio ad una frase che sentiamo ripetere molto spesso, sia dalle persone ancora coscienti afflitte da malattie sia da quelle persone che accudiscono, assistono, affiancano gli ammalati che non hanno più la possibilità di esprimersi. Ed è una frase che sentiamo dire spessissime volte. La frase è: “non è più vita”. Sentirci dire “non è più vita” ci fa riflettere sul concetto stesso di vita. Che cosa dobbiamo intendere per vita? È vita quella in cui un individuo non ha più la cognizione di se stesso? È vita quella in cui un individuo, in base a come noi lo conosciamo, è costretto a rimanere in vita perché legato a delle macchine? Magari contro la propria volontà, magari anche espressa. E se questa è vita, che cos’è la vita? È un concetto evidentemente giuridico, se la mettiamo su questi termini. O è un qualche cosa, come abbiamo sentito dire anche poco fa, che deve essere strettamente legata all’individuo, su cui l’individuo deve mantenere il controllo, su cui l’individuo ha il diritto decidere come diritto inalienabile di se stesso? Accanto a questa suggestione che ho pensato di proporvi se ne affianca un’altra, che va in parallelo e in certi momenti si sovrappone alla prima: è una riflessione legata all’uso delle parole. Viviamo in un’epoca in cui l’uso delle parole è spesso completamente difforme dal senso che le parole hanno.

Siamo soliti attribuire o sentir attribuire alle parole dei significati per iperbole. Si parla per iperbole, si trasmettono messaggi per iperbole con lo scopo di andare a toccare delle corde che spesso non sono assolutamente suffragate da elementi scientifici, medici, ma che vogliono solleticarci istinti non positivi.

Un uso sapiente delle parole, tornare a un uso sapiente delle parole, su un argomento come questo è indubbiamente una giusta la discussione, e penso che sia altrettanto indubbiamente giusto il rispetto per le posizioni di ciascuno. A patto che coloro i quali avversano la posizione – quella posizione che auspichiamo tutti che il 24 settembre dalla Corte costituzionale, in assenza di provvedimenti parlamentari, si appresterà a prendere – a patto che le persone che avversano queste teorie non usino degli strumenti davvero assimilabili a delle fake news.

L’uso della parola come grimaldello emotivo è un qualche cosa che deve cessare. Non soltanto dal punto di vista medico, non soltanto dal punto di vista scientifico e dal punto di vista filosofico, ma per rasserenare la discussione all’interno di uno stato che ne ha davvero bisogno. Rasserenare la discussione, togliere quelle che oggi sono in gergo chiamate fake news per sintetizzare un qualche cosa che che tutti conosciamo.

Il rispetto della libertà dell’individuo credo passi anche per l’accettazione di posizioni contrapposte tra di loro e che però non vadano – come dicevo un attimo fa – a toccare sensibilità sbagliate. Faccio riferimento a una campagna pubblicitaria che mi pare qui a Roma in questi ultimi giorni abbia avuto particolare enfasi, che ho avuto modo di guardare. Vedete, sono abituato a confrontarmi, ad accettare discussioni più o meno con tutti: però su questi temi credo che le discussioni strumentali e deviate, nel momento in cui si pongono dei manifesti che nulla hanno a che fare con il tema che si tratta, siano davvero fastidiose. Ho visto dei manifesti, immagino li abbiate visti anche voi: ne cito due. Il primo, dove c’è una signora di una certa età ma sicuramente non molto anziana: «Maria, 70 anni, ha un tumore. Potrà farsi uccidere. E se fosse tua nonna? No eutanasia». Nella foto c’è una signora che potrebbe davvero essere la nonna di tutti noi, può essere stata la nonna di tutti noi. Peccato che questa signora non è nella condizione di ciò di cui si parla. Ciascuno di noi che abbia avuto una nonna in queste condizioni sicuramente non pensa all’eutanasia. Perché non facciamo vedere la signora Maria purtroppo malata di tumore in fase terminale? Perché non facciamo vedere come sarebbe l’immagine di questa persona? Perché non utilizziamo – mi rivolgo a questi signori che fanno queste campagne – la stessa campagna che viene utilizzata ad esempio sui pacchetti di sigarette? Vogliamo dare un messaggio chiaro: diamo questo messaggio chiaro.

C’è poi un’altra immagine con lo slogan: «Lucia, 45 anni, disabile. Potrà farsi uccidere. E se fosse tua mamma? No eutanasia». Qui andiamo a solleticare altri temi, che sono i temi della disabilità. Andiamo ad avvicinare due mondi che sono completamente diversi: la disabilità di per sé è la più varia, ma la disabilità non comporta necessariamente una assenza della possibilità per le persone di vivere. E torniamo al concetto di vita. Un altro messaggio come questo che ho appena letto è evidentemente un messaggio fuorviante: qui torna il senso delle parole. E permettetemi il gioco di parole, adesso mio: il dissenso sulle parole.

Vorrei concludere questo mio intervento con due riflessioni che ho letto e che sottopongo a voi, che sono state scritte in questi giorni proprio riguardo a queste due fotografie con questi messaggi. Sono tutte e due di persone che hanno perso rispettivamente le mamme in età molto giovane. La prima persona dice: «In questi giorni l’associazione CitizenGo», quella vicina al senatore Simone Pillon, «ha tappezzato i muri di Roma con dei manifesti come quelli che vedete in foto qui sotto» ed era la famosa nonna Maria di cui parlavo prima. «E se fosse tua nonna? E se fosse tua madre? Io lo sapevo cosa fare se fosse stata mia madre. Mia madre è sempre stata chiarissima sul suo fine vita. Mia madre se ne voleva andare col cervello integro e la capacità di intendere e di volere. E invece per colpa di voi se n’è andata che pesava trentadue chili, seduta su una barella, senza riconoscermi con una dose di morfina in corpo che avrebbe ammazzato una coppia di elefanti in calore. Voi mi avete impedito di fare quello che voleva mia madre, altrimenti io adesso sarei in galera per omicidio. E parliamoci chiaro. Per me quelli che devono stare in galera siete voi, gente che condanna i propri parenti in virtù della propria coscienza. Gente che condanna i propri parenti alla sofferenza sbattendosene delle loro volontà. Io lo sapevo cosa fare quando è toccato a mia madre, ma me lo avete impedito e non ve lo perdonerò mai».

Il secondo e più breve e riguarda la madre di un’altra persona. Unisce altri temi che riguardano la sfera del ristretto della persona, ma credo che il senso delle parole di queste poche righe lo dicano in modo molto chiaro. Ed è rivolta alla foto che vi ho fatto vedere prima, quella del cartellone della madre disabile: «Se fosse stata mia mamma avrei preferito ricordare la donna che mi disse ‘ma che me ne frega se sei gay, a me interessa se studi’ quando feci coming out a sedici anni, e non quel mucchio d’ossa inebetito di trenta chili. Ma è morta come volevate voi, tra atroci dolori».