• Non ci sono risultati.

Il suicidio medicalmente assistito non è frutto di individualismo

Grazie dell’invito. Il tema del mio intervento è il suicidio assistito motivato da ragioni solidaristiche, non esclusivamente individualistiche. Temo che ripeterò molte delle cose che sono state già dette questa mattina, dette anche meglio di come le potrei farlo io. Mi concentrerò su quattro o cinque punti molto brevi.

Innanzitutto vorrei cominciare con il parere sul suicidio medicalmente assistito che è stato recentemente prodotto dal Comitato nazionale per la bioetica. Vorrei ricordare una cosa che secondo me è molto importante, cioè che i giornali – soprattutto tra coloro che sono critici nei confronti del parere – hanno sostenuto che è un’apertura all’eutanasia o al suicidio medicalmente assistito. Non è così: la notizia a mio avviso è un’altra. La notizia vera è che il Cnb, a differenza di quello che avrebbe fatto fino a cinque o dieci anni fa, ha scritto un parere descrittivo che non è una chiusura di principio sul suicidio medicalmente assistito. Questa è l’unica notizia che i giornali avrebbero dovuto dare. Cioè che finalmente il Cnb ha fatto il Cnb, ha fatto l’organo istituzionale e ha preso una posizione descrittiva in cui ha spiegato a tutti – operatori o cittadini che leggono il parere – quali sono le questioni in gioco: questioni scientifiche, etiche e giuridiche. Inoltre ha lasciato spazio a due “macro-posizioni” più o meno numericamente pari – anche se la posizione di coloro che erano favorevoli, di cui io facevo parte, è lievemente superiore all’altra, in proporzione circa dodici a undici. Il Cnb ha fatto il suo mestiere, come doveva farlo, cioè ha emesso uno strumento di riflessione al servizio di operatori e cittadini. Questa è la notizia del recente parere del Comitato nazionale per la bioetica che a mio parere rispecchia in maniera corretta una divisione che c’è non solo all’interno dell’organo, ma anche all’interno delle nostre società. Questa è la prima considerazione che mi viene da fare. La seconda considerazione è che la contrapposizione che si è creata è una contrapposizione che soltanto apparentemente è una disputa tra laici e cattolici, oppure tra credenti e non credenti. Qualcuno ha sottolineato il fatto che tra i firmatari della posizione contraria al suicidio medicalmente assistito ci fosse anche il rabbino capo di Roma nonché vicepresidente del Cnb, Riccardo Di Segni, esponente delle comunità ebraiche italiane. Questo per dire che non era solo una questione relativa al cattolicesimo, ma a una visione della società che sarebbe propria dei credenti, cioè una visione in cui non si assolutizza l’autodeterminazione individuale ma si tengono a mente i vincoli di solidarietà, gli elementi che dovrebbero tenere assieme una comunità e che si concretizzano nella difesa del valore supremo della vita umana. In realtà non è così, nel senso che la disputa non è una disputa tra credenti e non credenti e io penso che non sia nemmeno una disputa tra due “macro-valori”, da un lato l’autonomia individuale e dall’altro la solidarietà sociale o il rispetto per la vita. Nel senso che il problema, dal punto di vista almeno morale, si pone come una questione che attraversa gli schieramenti, una questione che è riassunta nella disputa, che in letteratura è ben conosciuta, tra uccidere e lasciar morire. La legge 219/2017 poneva un limite all’autodeterminazione del paziente

nella richiesta da parte del paziente stesso di essere ucciso o di essere attivamente aiutato a morire. Cioè quello che diceva la legge – che dice la legge – è che il paziente ha il diritto di rifiutare i trattamenti, ha il diritto di richiedere le cure palliative, ha anche il diritto di chiedere la cosiddetta “sedazione palliativa continua profonda”, che non è però una forma di eutanasia o tanto meno di suicidio medicalmente assistito.

Ora il punto fondamentale che a me sembra evidente è che dal punto di vista etico esistono situazioni estreme, come quella per esempio in cui si trovava Fabiano Antoniani. Parliamo di Fabiano Antoniani non solo perché quella situazione è quella che poi ha dato origine al processo, alla ordinanza dalla Consulta e al resto, ma perché è una situazione in un certo qual modo paradigmatica: cioè una situazione in cui un soggetto perfettamente capace di intendere e di volere versa in condizioni in cui è molto difficile ritenere che la sua richiesta di essere aiutato a morire sia una richiesta eticamente illegittima. Quello che voglio dire è che il principio del non uccidere o dell’attivo aiuto al morire è un principio che nella nostra società e nella nostra storia, nella storia dalla filosofia morale, ha conosciuto innumerevoli eccezioni. Penso che le situazioni che spesso ci sono nei nostri ospedali e in generale la tecnica medica crea negli ospedali di tutto il mondo siano delle situazioni in cui quella distinzione non è più eticamente significativa. Cioè credo che in una persona che versa nelle condizioni in cui versava Fabiano Antoniani la scelta tra affidarsi a una sedazione palliativa continua profonda per morire in una settimana senza soffrire – diciamo così – e la scelta di poter accedere ad un programma di suicidio medicalmente assistito sia eticamente indifferente. Quindi in quel caso credo che sia possibile lasciare che quell’individuo scelga il modo di morire che è più conforme alla sua nozione della dignità individuale, della dignità umana, tenendo presente che della nozione di dignità almeno da cinquant’anni a questa parte è parte integrante, viene pensato come parte integrante, anche il diritto all’autodeterminazione. Non è che esista la dignità umana da un lato e l’autodeterminazione individuale dall’altra. Allora però perché noi accettiamo – e io ritengo sia giusto accettare – la richiesta di una persona che è nelle condizioni di essere aiutato a morire? Credo che sia giusto precisamente per ragioni solidaristiche, precisamente perché non esiste un motivo ostativo per dire no a quella richiesta. Da un punto di vista cristiano, come un documento della commissione di cui sono coordinatore, la Commissione di bioetica delle chiese protestanti in Italia, diceva già nel 1988: esistono situazioni estreme in cui questo tipo di richiesta può essere ottemperata. Questa adesione alla richiesta del malato però – e questo è molto importante – non è una decisione che deriva dall’assolutizzazione della sua libertà nei confronti della morte o della sua autodeterminazione. L’autodeterminazione di per sé è essenziale ma è uno degli elementi necessari della scelta. Perché la scelta possa essere condivisa occorrono due aspetti: uno è l’autodeterminazione e quindi la richiesta consapevole e matura; l’altro è una situazione di sofferenza estrema a cui la società non è in grado di rispondere diversamente che non aderendo alla richiesta del malato stesso. Da questo punto di vista mi permetto di concludere con due considerazioni che son già state in parte discusse questa mattina, ma su cui volevo puntualizzare. La prima riguarda le cure palliative: personalmente sono favorevole alla estensione delle cure palliative come diritto fondamentale in materia sanitaria, in maniera quanto più possibile capillare. Credo che per garantire un’effettiva

capacità di autodeterminazione di individui – perché la società deve consentire che qualcuno scelga di voler morire, quando non ci sono degli elementi che la società può annullare nella scelta dell’individuo. Le persone non devono cioè chiedere di morire per delle manchevolezze sociali, devono chiedere di morire perché la loro situazione è oggettivamente irrisolvibile. Allora credo che un elemento fondamentale sia proprio l’ampliamento e la creazione di un sistema di cure palliative su tutto il territorio nazionale che sia uguale in tutti i luoghi e chiaramente funzionante. Perché è solo in questo modo, cioè solo nel momento in cui il malato ha la scelta se affidarsi alla sedazione palliativa continua profonda oppure al suicidio medicalmente assistito, che noi siamo in presenza di una reale libertà di scelta. Altrimenti non è una scelta libera ma è una scelta condizionata, perché chiunque tra soffrire orribilmente e scegliere di suicidarsi sceglierebbe di suicidarsi. Non chiunque, ma insomma diciamo che i martiri statisticamente, per fortuna, sono una percentuale minoritaria nella società, nel mondo.

La seconda questione riguarda i medici. Il presidente degli Ordini dei medici inizialmente ha ricordato che il suicidio medicalmente assistito è contrario alla deontologia medica in qualsiasi sua forma, poi gli ha rielaborato la sua posizione, è venuto meno nella constatazione secondo cui avrebbe dovuto sanzionare qualsiasi medico che si fosse prestato. La realtà è un’altra: credo cioè che la professione medica – in Italia ma anche sicuramente nel mondo – ormai abbia due linee di pensiero. La seconda linea di pensiero, accanto a quella tradizionale che è stata descritta stamattina da Mariella Immacolato, è una tradizione di pensiero che più o meno pensa il suicidio medicalmente assistito e l’eutanasia nei termini in cui il nostro documento del 1988 – dico nostro ma io non l’ho scritto, non ero all’epoca nella Commissione – pensava la questione. Quel documento si conclude con una frase che a me piace particolarmente, dice: «bisogna estendere il concetto di cura fino ad arrivare a pensare che l’aiuto al morire è parte della cura stessa, può essere parte della cura stessa». Quindi quello che voglio dire è: non bisogna pensare che esista un’opposizione della classe medica che è eterna, adamantina. Non è così, non è così nel mondo e non sarà credo così in Italia.

Terza considerazione brevissima: personalmente preferirei una legislazione sull’eutanasia perché da un lato, a mio parere, nella scelta della società di legittimare un certo tipo di pratiche di aiuto al morire occorre un’assunzione di responsabilità che la pratica eutanasica rende evidente. La pratica eutanasica è una pratica in cui chiaramente un terzo si assume l’onere e la responsabilità di aiutare qualcuno a morire. Il suicidio medicalmente assistito a mio parere è una pratica che dal punto di vista filosofico può essere interpretata come simile, ma dal punto di vista giuridico crea meno problemi ed è uno dei motivi per cui credo spesso la si predilige. A mio parere però è una pratica che ha un vulnus a cui difficilmente si riesce a porre rimedio, se non attraverso acrobazie giuridiche: cioè il fatto che non tutti i malati in condizioni disperate sono in grado di suicidarsi con l’aiuto di qualcuno. Allora questa mi sembra ancora una pratica in definitiva “micro-discriminatoria”, un po’ discriminatoria: dunque sono favorevole, sarei favorevole, a una legalizzazione dell’eutanasia molto di più che a una legalizzazione del suicidio medicalmente assistito.

Giorgio Trizzino, deputato del Movimento 5 Stelle, dialoga con la