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1.2 ‘Nativi digitali’ e competenze

1.2.3 Comportamenti e divari digitali

Le descrizioni più accurate delle competenze (o ‘presunte’ competenze) della generazione digitale vengono ovviamente dagli evangelizzatori. Abbiamo visto come Prensky (2001 a e b) catalogasse le abilità dei nativi in confronto a quelle degli immigrati. I toni entusiasti erano già presenti nella visione di Howe & Strauss (2000) che definiva questa generazione speciale, priva di problemi, orientata al lavoro di gruppo, al successo e al risultato immediato.

Secondo Veen e Vrakking (2006), «grazie alla tecnologia, questa nuova generazione sta sviluppando abilità diverse dalle nostre. Cambiano ad esempio, le capacità di analisi quando si trovano davanti allo schermo di un computer. Un Homo Zappiens non memorizza parole e singole frasi. Ma contestualizza il contenuto a video nel suo insieme». Ecco perché, secondo i due studiosi un ragazzo riconosce icone, colori, immagini e suoni, percependo le informazioni nel loro insieme multimediale. Un approccio che gli consente di decidere con maggiore velocità la ‘strada’ da prendere. La visione di Veen e Vrakking si spinge fino all’anno 2020, quando a loro volta gli Homo Zappiens avranno una famiglia e diventeranno genitori. «Allora l’apprendimento non passerà più dalla scuola tradizionale ma piuttosto dall’insieme di interazioni personali. La conoscenza scaturirà da esperienze collaborative». Saranno cyberstudenti a cui non vengono fornite nozioni uguali per tutti e grazie al web non diventeranno fruitori passivi di nozioni e contenuti. Gli autori

1.2 ‘Nativi digitali’ e competenze

immaginano una scuola alla Wikipedia dove: «ognuno metterà a disposizione del network il proprio sapere».

Secondo un articolo pubblicato qualche anno fa dalla rivista internazionale

Educause (Lorenzo, Oblinger & Dziuban, 2007) i nativi digitali usano nel 72%

dei casi i motori di ricerca come primo strumento per reperire delle informazioni; il 53% ritiene che l’affidabilità dei motori sia equivalente a quella della biblioteca; solo il 2% usa il sito della biblioteca dell’università; nel 67% dei casi i riferimenti alle risorse utili sono diffuse attraverso reti sociali (amici); il 55% dei teenager usa siti di social networking; il 55% ha creato un profilo personale; il 49% usa social networking per cercare nuovi amici; il 57% dei teenager crea contenuti (blog, pagina web, foto ecc.)

Tuttavia queste visioni ottimistiche sono state sconfessate da studi recenti. Anche attraverso un’indagine sul campo, la già citata ricerca di Bennett, Maton e Kervin (2008) ha dimostrato che, sebbene esista una parte di giovani molto esperta di tecnologie e molto abile nell’uso di esse, vi è un’altrettanto cospicua fetta di adolescenti che non presentano i livelli di accesso e le competenze illustrate dai fautori del mito del ‘nativo digitale’.

Margaryan & Littlejohn (2008) hanno evidenziato che gli studenti fanno un uso limitato, generalmente ludico e/o ricreativo, dei social media e dei siti di social networking. Il loro studio sottolinea che l’attitudine degli studenti verso l’apprendimento è influenzato dagli approcci adottati dai docenti: piuttosto che chiedere nuove pratiche didattiche, gli studenti sembrano conformarsi e trovarsi a proprio agio con i metodi ‘tradizionali’. Altri contributi hanno messo in evidenza come non possono essere stabilite correlazioni dirette tra intensità di utilizzo delle tecnologie (espressa sia in termini di strumenti utilizzati che di attività prodotte e di connessioni attivate) e preferenze/risultati di apprendimento (Selwyn, 2009b; Ben-David Kolikant, 2010).

Secondo una prima rilevazione dell’Osservatoriosui Nuovi Media NuMediaBiOs (www.numediabios.eu), condotta nel 2008 dall’Università degli Studi di Milano Bicocca (Ferri et al., 2008), è possibile rilevare almeno tre diversi profili di studenti universitari in relazione all’uso delle tecnologie. Questi profili derivano dalla correlazione di due variabili: intensità

dell’utilizzo di Internet e produzione di contenuti, intesa come ‘caricamento’ di contenuti su siti come My Space, Wikipedia, YouTube e, più in generale, attività nei social network. I tre profili sono i seguenti:

- la digital mass, quasi la metà degli studenti intervistati, che utilizzano massicciamente Internet ma che non sono molto inclini alla produzione di contenuti;

- i neo-analogici, circa un quinto degli studenti, che producono alcuni contenuti ma si collegano meno a Internet rispetto alla media degli studenti (in qualche modo, questi studenti sono meno dipendenti da Internet rispetto alla digital mass);

- gli inter-activated, circa un terzo degli studenti, che rappresentano meglio il modello dei New Millenium Learners, in quanto usano Internet massicciamente e producono contenuti frequentemente.

Un contributo più recente dello stesso gruppo di ricerca (Cavalli et al., 2012), presentando i dati in una prospettiva diacronica (2008, 2009 e 2011), evidenzia che l'utilizzo della rete stia diventando sempre più pervasivo, creando così i presupposti perché da “tecnologia di vita” essa diventi anche “tecnologia di apprendimento”.

Un metodo molto noto per classificare i comportamenti digitali è la scala di Forrester (Li & Bernoff, 2008), che distingue tra:

- creatori: hanno un blog, pubblicano pagine web, caricano i propri

video, condividono foto e audio, scrivono articoli e li postano;

- conversazionalisti: coloro che aggiornano il proprio status sui siti

di social networking o che inviano notifiche tramite twitter;

- critici, postano on-line giudizi o recensioni su prodotti e servizi,

commenti sui blog altrui, contribuiscono ai forum on-line, contribuiscono ed editano articoli in wiki;

- collettori: utilizzano feed RSS, votano per siti web on-line,

aggiungono tag a pagine web, risorse e foto;

- joiners: costruiscono il proprio profilo e visitano i siti di social

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- spettatori: leggono i blog, ascoltano i podcast, vedono i video di

altri utenti, leggono i forum on-line, le recensioni, i commenti e i tweet di altri utenti;

- inattivi: non fanno alcune delle attività descritte.

Il profilo tecnografico dei giovani italiani (in età universitaria: 18-24) secondo la scala Forrester basato sui dati dell’ultimo survey disponibile (2010) è illustrato in Fig. 4a ed è messo a confronto con lo stesso profilo basato sui dati 2008 (Fig. 4b).

Figura 4a Profilo tecnografico giovani italiani (18-24) – dati 2010

Si può rilevare come ci siano stati alcuni cambiamenti in due anni, anche se di lieve entità. Il profilo degli universitari italiani si colloca bene rispetto alle medie europee (Fig 5a), anche se è ancora lontano dal profilo degli studenti statunitensi (Fig. 5b).

Figura 5a Profilo tecnografico giovani in Europa (18-24) – dati 2010

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A volte, il problema non è tanto “l’ignoranza informatica”, quanto quello di un uso appropriato della tecnologia per scopi di apprendimento. Inoltre, come ha sottolineato un rapporto ISFOL (2011) esistono tra i giovani varie forme di digital divide o "sacche di svantaggio tecnologico" (Stillman & Stoecker 2009) e non è raro riscontrare “lacune di competenze e scarsa partecipazione” (skill

and participation gaps, Gies 2010), nonché “usi impropri e non voluti”

(mischievous and unintended usages, Gies 2010).

Secondo l’ISFOL (2011, pp. 9-10), il divario digitale giovanile è condizionato da ampie e diffuse disparità, che sono determinate dalle disuguaglianze esistenti nella società e nel mondo del lavoro, in cui permangono squilibri sociali e culturali. Si parla a questo proposito di divario digitale relativo.

D’altra parte, il divario digitale può essere indipendente dalle disuguaglianze già esistenti, perché la non utilizzazione o la insufficiente utilizzazione delle ICT può derivare da scelte soggettive o, benchè collegate al contesto socio-culturale di appartenenza, non imputabili ai classici meccanismi della marginalità (economici, sociali o culturali), bensì ad altre variabili ancora poco note e studiate. Si parla a questo proposito di divario digitale assoluto.

Il divario relativo è da collegare ad altre disuguaglianze di carattere generale, di cui è diretta espressione, che riguardano aspetti come: lo status individuale e della famiglia di appartenenza; ) le differenze di genere; la collocazione geografica o territoriale; la salute (differenze tra normo-dotati e diversamente abili in tutte le dimensioni della vita sociale); i livelli di istruzione e di apprendimento (differenze non solo nell’acquisizione dei titoli, ma anche nelle capacità cognitive); le caratteristiche del sistema formativo di riferimento (differenze tra persone inserite in contesti educativi più o meno innovativi). Le disuguaglianze nella sfera lavorativa possono ugualmente contribuire al divario digitale e riguardano in particolare: i tassi di attività; l’inserimento lavorativo, la stabilità del lavoro ecc.

Il divario digitale relativo si colloca in una prospettiva evolutiva che deriva da altre dimensioni di esclusione, determinando importanti squilibri a livello di informazione e di accesso ai saperi e non favorendo un superamento del fenomeno del cultural divide, ossia del divario esistente tra coloro che sono in

possesso di competenze culturali adeguate e gli altri che ne sono privi o che ne dispongono in maniera insufficiente.

Ma cosa vuol dire essere una persona istruita e colta nel 21° secolo?

La questione va al di là dell’essere nati o vissuti digitamente ma riguarda questioni come la cittadinanza attiva digitale, ovvero la possibilità di essere pienamente autonomi nell’accesso e uso delle risorse, contenuti, relazioni, strumenti e potenzialità della società digitale; la capacità di analizzare e trattare con efficacia le dinamiche di rete, di gestire la propria identità e la propria reputazione on-line, di governare l’information overload e saper “imparare ad imparare”, ovvero sviluppare quella competenza trasversale che rappresenta una componente strategia per la propria crescita professionale e per vivere efficacemente nella società della conoscenza.