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Con rare eccezioni, l’architettura

Nel documento Ordinariness. Progetto e quotidiano (pagine 142-145)

with Roberto Secch

D. Con rare eccezioni, l’architettura

contemporanea ha fallito nella costruzione dell’ambiente ordinario, teatro della nostre vite quotidiane. Questo è particolarmente vero in Italia, ma anche in altre parti del ricco Occidente.

R. L’architettura contemporanea pubblicizza- ta in eventi e mostre, celebrata dalle riviste e dalla critica, oggi anche nelle riviste di moda e di gossip, è prevalentemente quella votata al lusso, alla celebrazione della potenza della tecnica dei suoi esecutori, all’esaltazione della ricchezza dei suoi committenti, alla esaltazio- ne dell’originalità delle forme, al gigantismo delle soluzioni, alla sofisticatezza dei suoi congegni, talvolta alla ammirazione per la felice conciliazione con le problematiche am- bientali. Raramente si parla della sua durata, della vita che vi si svolge, dei suoi costi. Nella valutazione dell’architettura non si dovrebbe al contrario dimenticare il rapporto con l’eco- nomia. Casa ed economia hanno lo stesso tema etimologico in oikos. L’ambiente della vita di tutti i giorni.

L’architettura che più ci interessa è quella nella quale ci imbattiamo quotidianamente nel nostro itinerario dalla porta della nostra stanza nell’alloggio che abitiamo al luogo di lavoro, in ufficio, in officina, a scuola. Quella non possiamo fare a meno di vederla. Spesso ci

“La città delle enclave direzionali, produttive, commerciali, sportive, culturali,

del divertimento, delle autostrade urbane

e delle reti informatiche suggerisce nuove figure dell’ordinario”

“The city of enclave, business parks, manifacturing districts, commercial areas,

sport parks, cultural centres, entertainment centres,

urban highways and information networks sugges new figures of the ordinary”

offende e ci ferisce, correntemente ci appare insignificante.

Ma tutto quanto ho detto si fonda su un pre- supposto: che ci sia una relazione tra forme e pratiche dello spazio architettonico. Chi lo nega non condividerà lo sguardo antropologico e perorerà la causa dell’autonomia dell’archi- tettura applicando anche ad essa le teorie del

l’art pour l’art.

Sì, è vero, l’architettura contemporanea ha fal- lito nella progettazione dell’ordinario e in Ita- lia questo è particolarmente doloroso perché c’è la possibilità di percorrere itinerari meravi- gliosi, aprire il nostro sguardo su paesaggi bel- lissimi, carichi di valori e significati. Proprio per questo si può parlare di fallimento. Troppo grande è la distanza di qualità che separa gli spazi dei centri antichi e di ciò che resta dei paesaggi italiani dagli spazi prodotti da una modernità pienamente presente in rari casi e in parti urbane molto limitate, mai pienamente acquisita e vissuta nella cultura diffusa. Le grandi città sono state dominate dalla cultura prodotta dalla civiltà dei consumi. Come una fittissima polvere si è abbattuta sulle città l’onda della pubblicità visiva e sonora, ne ha offuscato gli spazi, gli edifici anche i più belli, prendendo il sopravvento. Ha ridotto gli inter- valli dell’assenza e del silenzio, ha marchiato il paesaggio e se ne è impossessata. A partire dagli anni settanta i fenomeni della dispersio- ne urbana hanno interrotto quella continuità degli spazi pubblici e quel rapporto tra spazi pubblici e spazi privati che aveva tessuto per secoli la trama su cui si costituiva la possibi- lità di riconoscersi cittadini, appartenenti ad una unità sociale insediata in uno spazio con caratteri unici ed irripetibili. Interrotta quella trama, la percezione dello spazio ordinario risulta frantumato in singoli episodi non ben relazionati, da raggiungersi possibilmente ad alta velocità attraverso l’indifferenziato. La città delle enclave, direzionali, produttive, commerciali, sportive, culturali, del diverti- mento, delle autostrade urbane e delle reti informatiche suggerisce nuove figure dell’or- dinario. Ci vuole una nuova sensibilità per ap- prezzare i paesaggi della città contemporanea, educata alle discontinuità e alle rotture, ai vio- lenti salti di scala, alle disarmonie, al tragico.

D. Una sorta di pratica etnografica, la capa- cità cioè di lavorare sul campo osservando, ascoltando, imparando da luoghi e persone,

Yet everything I have said is founded atop a premise: the existence of a relationship betwe- en the form and practice of architectural space. Those who negate it do not share this anthropological way of looking at things and will carry forth the cause of architectural au- tonomy, also applying the theories of art pour

art.

Yes. It is true that contemporary architecture has failed in the design of the ordinary and in Italy this is particularly painful because there is the possibility to retrace marvellous itineraries, to look upon beautiful landscapes, rich with value and meaning. Precisely for this reason it is possible to speak of failure. There is too vast a gap in quality between Italy’s historic centres and what remains of its landscapes and the spaces produced by a fully present modernity in rare cases and in very limited parts of the city, never fully acquired or inhabited by general culture. Large cities have been dominated by consumer culture. Like some dense dust, the wave of visual and audio publicity has swept down on the city, obfuscating its spaces, its buildings, even the most beautiful, gaining the upper hand. It has reduced the intervals of absence and silence, it has marked and taken possession of the lan- dscape. Beginning in the 1970s the phenome- non of urban sprawl interrupted the continuity of public spaces and the relations between the public and the private that for centuries had woven the patterns atop which to construct the possibilities to feel like citizens belonging to a social unit settled in a space with unique and unrepeatable characteristics. The inter- ruption of this pattern has fragmented the perception of ordinary space into individual and unrelated episodes, to be reached prefe- rably by passing through a land of the indif- ferent at high speeds. The city of enclaves, business parks, manufacturing districts, com- mercial areas, sport parks, cultural centres, entertainment centres, urban highways and information networks suggest new figures of the ordinary. There is a need for a new sensi- tivity able to appreciate the landscapes of the contemporary city, educated in discontinuities and ruptures, in violent leaps in scale, dishar- monies and the tragic.

Q. Could a sort of ethnographic practice, the capacity to work in the field observing, listening, learning from places and people,

contribute to the formulation of a diverse

modus operandi for the discipline of architec-

ture?

To which field of architecture do you believe this contribution could offer the most fertile indications? To the construc- tion of the questions driving design, in other words, program? To the idea of space and its organisation? To the definition of formal and linguistic aspects, in other words, to the field working to render archi- tectural writing more precise?

Is it possible to bridge the gap between the abstract and rarefied languages of architecture, never truly metabolised by the average citizen, and the languages of popular construction, without falling into the trap of the vernacular banal and popu- lism? Could there exist a point of contact between critical conscience and sponta- neous conscience?

A. The foundations to the education of a good architect are the observation and interroga- tion of all forms. The forms of everything, of behaviours, of uses to be measured in terms of time and space. There is a questioning of the origin of forms, of the processes that have produced them, of the mechanisms that deter- mine their functioning and their life. Forms of men in action and in movement determine spaces.

I am one hundred percent convinced that pursuing an “ethnographic practice” can gene- rate better architecture. Beginning with the idea of space, passing from its conception to its writing. As mentioned, in abandoning the objectual approach in favour of a relational approach. Designing is equivalent to making a film with the mind’s eye, imagining the proba- ble life of the future user of the spaces we are designing. Telling the story of the lives that will animate these spaces suggests that an acquired awareness of building techniques and expression can be translated into architectu- ral form. Forms of spaces around and between men in action. Situations, sequences of situa- tions. The imagination of possible perceptions and the emotional effects they produce. In literature we use the term ordinary in con- trast to the poetic. The poetic would be all that is outside the ordinary, which transcends the conventional and instrumental dimension of the use of words to arrive in a new sphere in which they acquire new and unforeseen values può fornire un contributo per formulare un

diverso modus operandi della disciplina? E tale contributo, a quale ambito dell’elabo- razione architettonica ritiene possa offrire le più fertili indicazioni? Alla costruzione delle domande che muovono il progetto, cioè al programma? Al pensiero sullo spazio e la sua organizzazione? Alla defi- nizione degli aspetti formali e linguistici, cioè all’ambito della precisazione della scrittura architettonica?

È possibile colmare la distanza tra i linguaggi astratti e rarefatti dell’archi- tettura, mai veramente metabolizzati dal cittadino medio, e i linguaggi edilizi popolari senza cadere nella banalizzazione vernacolare e nel populismo? Può esistere un punto di contatto tra coscienza critica e coscienza spontanea?

R. Alla base della formazione di un buon archi- tetto ci sono l’osservazione e l’interrogazione di tutte le forme. Le forme di tutte le cose, dei comportamenti, degli usi da misurare in ter- mini di tempo e di spazio. C’è l’interrogazione sull’origine delle forme, sui processi che le hanno prodotte, sui meccanismi che ne deter- minano il funzionamento e la vita. Forme di uomini in azione e in movimento determinano gli spazi.

Sono assolutamente convinto che seguire una “pratica etnografica” possa generare un’archi- tettura migliore. A partire dal pensiero dello spazio, passando per la concezione sino alle sue scritture. Come ho già detto, nell’abbando- no dell’approccio oggettuale per l’approccio re- lazionale. Progettare equivale a girare un film con l’occhio della mente, quello della probabile vita del futuro utente degli spazi che stiamo progettando. Raccontarsi la storia delle vite che animeranno quegli spazi suggerisce l’im- maginario che la conoscenza acquisita delle tecniche costruttive ed espressive consente di tradurre in forme architettoniche. Forme di spazi intorno e tra uomini in azione. Situa- zioni, sequenze di situazioni. Immaginario di percezioni possibili e di effetti emozionali da esse prodotti.

In letteratura si usa il termine ordinario per designare il contraltare del poetico. Il poetico sarebbe ciò che esce dall’ordinario, che tra- scende la dimensione convenzionale e stru- mentale dell’uso delle parole per pervenire in una nuova sfera nella quale esse acquisiscono valori nuovi e imprevisti nell’uso corrente. Ci

si domanda perché questa circostanza non pos- sa riferirsi anche all’architettura. Rifuggire dall’ordinario per produrre lo straordinario costituisce un fraintendimento quanto mai diffuso nella progettazione architettonica soprattutto in questo periodo. Le velleità dell’assolutamente originale, la ricerca degli effetti spettacolari, l’amore per il gigantesco, per l’iconico, ovvero per l’immagine capace di imporsi immediatamente come segnale nella giungla o nella babele, fate voi, della megalopoli contemporanea, hanno deviato dalla strada più interessante e feconda per conquistare la sfera della poesia. Forse sa- rebbe più produttivo passare per l’ordinario riscattandolo dalla sua mediocrità attraverso una nuova interpretazione. Puntare sulla dif- fusione piuttosto che sulla concentrazione in luoghi ed edifici unici. Risalire all’origine del tema architettonico – ben più della prestazio- ne cui è destinato – come prefigurazione dello spazio della vita dei suoi futuri utenti nella città e nei territori di appartenenza. Conside- rare questi ultimi come fenomeni in perenne evoluzione cui l’architettura deve contribuire senza false speranze di radicali rifondazioni e con la consapevolezza della propria parzialità potrebbe forse avvicinare di più alla qualità di quanto non possa fare l’esercizio narcisistico ed autoreferenziale.

Credo che si possa evitare la banalizzazione vernacolare così come il populismo e toccare la sensibilità del cittadino estraneo alla cul- tura architettonica. Bruno Taut fece espliciti richiami all’architettura spontanea, all’archi- tettura rurale, senza architetti, per progettare le sue famose Siedlungen. La ricerca di sem- plicità, il rigetto dell’architettura borghese fu possibile nella ricerca dei valori originari ed essenziali che quell’architettura offriva. Pikionis molto deve all’osservazione e alla introiezione dell’architettura della sua terra, della Grecia arcaica e dell’architettura dei vil- laggi e dei centri minori. La sua architettura è moderna mai vernacolare, evoca non imita. In ambedue questi casi si assiste alla trasfigura- zione di elementi, ritmi, rapporti e al loro inne- sto in strutture linguistiche tutt’affatto nuove. L’impiego dei colori in Taut, l’uso di tecniche costruttive tradizionali e l’inserto di reperti in Pikionis, ad esempio.

D. Non ti sembra che questa disattenzione

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