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Where even Richard Nixon has got soul Even Richard Nixon has got it, Soul”

Nel documento Ordinariness. Progetto e quotidiano (pagine 75-85)

Shadrach Woods detestava Richard Nixon. Nel diario e nei manoscritti della fine degli anni 60, Woods, architetto e membro del gruppo d’avan- guardia Team 10, sostituì con una svastica la “x”

nel nome del 37 o Presidente degli Stati Uniti. Il

gesto, che gli procurò certo una soddisfazione personale, rivelava la sua preoccupazione per le ridotte possibilità di organizzare una vita urbana significativa in un’epoca di sconvolgimenti sociali e geopolitici. Nell’occulto détournement di Nixon, Woods leggeva l’arretramento del progetto sociale progressista e del tipo di città che esso prevedeva dovuto al ridimensionamento culturale messo in atto dalla “maggioranza silenziosa”. Le politiche sulla gestione degli spazi erano contras- segnate da scontri razziali interni, da dimostrazioni contro la guerra nel sud-est asiatico che tutti ritenevano avrebbe determinato una distrazione delle risorse pubbliche a favore dell’ “apparato militare-industriale”. In questo senso, la riflessione di Woods sulla virata a destra di Nixon può anche essere interpretata come la preoccupazione per la fine della Great Society e del ruolo dell’architetto nella sua costituzione.

Tornato nel 1969 a New York dopo un lungo soggiorno parigino, Woods con la sua critica a Nixon intendeva innescare una polemica sulla città moderna. In quel decennio egli era stato al centro dell’acceso dibattito del Team 10 per il tentativo di riformare attraverso un’esperienza alternativa di “comunità” le nozioni sulla “città funzionale” proposte dal Congrès International d’Architecture Moderne (CIAM). Assieme a Georges Candilis, Woods aveva già collaborato alla costruzione dell’Unité d’Habitation di Le Corbusier a Marsi- glia; dopo la sua realizzazione nel 1952, entrambi partirono per Casablanca, dove svilupparono con ATBAT-Afrique alcuni progetti di edilizia residenziale adattando il modello dell’Unité alle convenzioni islamiche. All’incontro del CIAM di Aix-en-Provence nel 1953, le opere di Casablanca destarono scalpore tra gli architetti che di lì a poco avrebbero formato il Team 10: i modelli tradizionali di abitazione illustrati nelle fotografie sulla vita quotidiana in una bidonville marocchina divenivano il mezzo per spiegare come le abitudini sociali radicate sul territorio – la vita di strada e l’arte popolare – fossero essenziali per immagi-

nare l’ambiente urbano moderno1. Il Team 10 iniziò

Shadrach Woods hated Richard Nixon. In journal entries and manuscripts begun in the late-1960s, Woods, architect and member of the avant-garde group Team 10, changed the name of the 37th President of the United States, replacing the “x” with a swastika. The gesture surely gave private satisfaction. Yet it spoke to his very public worry on a diminishing capacity to create meaningful urban life in an era of social and geopolitical uphe- aval. In the secret détournement of Nixon, Woods suggested his deep fear of a progressive social project, and the kind of city it imagined, eclipsed by the cultural retrenchment of a “silent majority”. The spatial politics of such a society were marked by American race riots, antiwar demonstrations, and corresponding violence in Southeast Asia – all believed accompanied by a redistribution of resources from public needs to the unremitting demands of a “military-industrial complex”. In this, Woods’s assumption of Nixon’s rightward march may well have been a lament for a possibly retreating Great Society – and the architect’s role in building it.

Woods’s anti-Nixon feeling, which followed a permanent return from Paris to his native New York in 1969, expressed an increasingly polemical stance on the modern city. For the better part of the decade, Woods had been central to the influential discourse of Team 10 as it sought to reform notions on the “functional city”, advanced by the Congrès International d’Architecture Moderne (CIAM), by an alternate experience of “community”. Woods had, along with Georges Candilis, actually supervised construction of Le Corbusier’s Unité d’Habitation in Marseilles. Upon its completion in 1952, both architects departed for Casablanca, where, with ATBAT-Afrique, they developed housing projects that cleverly adapted the Unité model to Islamic conventions of privacy. At the important 1953 CIAM meeting in Aix-en Provence, the Casablanca works would cause a sensation among younger architects poised to form Team 10: explained by situating traditional patterns of dwelling and building, shown in photo- graphs of daily life in a Moroccan bidonville, the projects gave apparent role to embedded social habits, including street life and folk art, as crucial to imagining the modern urban environment1. Duly inspired, Team 10 soon took to divining in

1. Tom Avermaete, “Habitat du plus grand nombre Grid, 1953”, in Max Risselada and Dirk van den Heuvel (eds.), Team 10,

1953-81: In Search of a Utopia of the Present, NAi Publishers, Rotterdam 2005, p. 26.

1.Tom Avermaete, Habitat du plus grand nombre Grid, 1953, in Max Risselada e Dirk van den Heuvel (a cura di), Team 10,

quindi a ricercare nella quotidianità le idee per una progettazione destinata al “cambiamento e alla crescita”, individuando in Woods un punto di riferimento. A partire dalla metà degli anni 50, in collaborazione con Candilis e Alexis Josic (un altro allievo di Le Corbusier), egli aveva già sviluppato una notevole attività in Francia basandosi sin da subito sugli ideogrammi di stem (gambo) e web (rete), che offrivano la possibilità ad una struttura urbana di ramificarsi nel tempo per accogliere “tutti i prolongements du logis: attività commerciali, culturali, educative e per il tempo libero, strade,

sentieri pedonali e servizi”2.

Realizzato nella nuova città di Toulouse-Le Mirial col nome di dalle (un’enorme passeggiata pedo- nale sopraelevata che collega i caseggiati a tutte le strutture pubbliche), dopo aver vinto un concorso nel 1961, lo stem era uno strumento mediante il quale gli edifici, i parchi e la vita pubblica avreb- bero potuto acquisire un vero significato. In quello stesso periodo Woods contestava le speculazioni sui dettagli ordinari dell’esperienza quotidiana proposte dai suoi amici del Team 10, Aldo van Eyck, Alison Smithson e Peter Smithson (che invece mantenevano una posizione oltranzista sul tema), non condividendo appieno le loro nozioni di identità e associazione come “direttamente tratte” dalla strada. Al contrario, sulla base di opere come Le Mirial frutto della sua frequentazione dei circoli intellettuali francesi e di una fede incrollabile nelle politiche del welfare, egli interpretò l’urbanistica basandosi sulla “critica della vita quotidiana” di Henri Lefebvre, insistendo sul fatto che l’archi- tettura non poteva far altro che rivoluzionare i rapporti spaziali nella città capitalista. In questo modo Woods ha cominciato ad elevare il dibattito a filosofia della città.

Sullo sfondo di un decennio carico di avvenimenti e di crisi, il pensiero di Woods acquisì una dimen- sione politica più definita adottando la critica come prassi. Egli cominciò a considerare la progetta- zione più in termini di polemica culturale che di soluzioni architettoniche. La nuova prospettiva americana gli avrebbe concesso la possibilità di rivalutare le sue opere francesi ma c’era la necessità di far comprendere appieno il senso dello stem, soprattutto riferendosi agli spazi che avrebbe potuto occupare.

Woods propose una prima e decisiva spiegazione

quotidian spatial practices its ideas on designing for “change and growth”. Woods quickly became instrumental to this discourse. He had, starting in the mid-1950s and in partnership with Candilis and Alexis Josic (another Le Corbusier disciple), begun an enormous output of housing in France – work soon guided by his ideograms of stem and

web, which offered an urban structure branching

over time to organise “all the prolongements

du logis: commercial, cultural, educational, and

leisure activities, as well as roads, footpaths and services”2. Realised in the new town of Toulouse- Le Mirial (won in a 1961 competition) as the dalle, an enormous and continuously elevated pede- strian esplanade linking housing blocks and all civic programmes, stem provided an instrument with which things – buildings, parks, public life – could be made intelligible. Yet Woods would eschew his Team 10 friends Alison and Peter Smithsons’s or Aldo van Eyck’s speculations on (even fetishising of) the ordinary details of quoti- dian experience, sharing less of their existentialist notions on identity and association “as found” in the street. Instead, sobered by the experience of works like Le Mirail – first construed by his immersion in French intellectual circles and an unshakeable belief in welfare state policy – he came to explain urbanism along the lines of Henri Lefebvre’s “critique of everyday life”, insisting that architecture could only but revolutionise space relations in the capitalist city. In this, Woods began to elevate the debate to a philosophy of the city. Against the backdrop of a charged decade, and with coming dissolution of his practice, Woods’s thinking took firmer political cast in a new adop- tion of critique as praxis. He began considering design theory less in terms of architectural solution and more as cultural polemic. The new American vantage point would allow re-evalua- tion of the French works. The demand was to explain the built consequences of things like

stem, including the very real spaces it may have

replaced.

Woods launched a first and decisive account of the contemporary city in his contribution to 1968 Milan Triennial. The Triennial was devoted to “The Greater Number”, a typical Team 10 concern that brought the participation of the Smithsons, van Eyck, and Giancarlo de Carlo. Yet it was Woods

2. Shadrach Woods, “Urban Environment: The Search for System”, in John Donat (ed.), World Architecture 1, Studio Vista,

London 1964, p. 153.

2. Shadrach Woods, Urban Environment: The Search for System, in John Donat (a cura di), World Architecture 1, Studio Vista,

sulla città contemporanea nel suo contributo alla Triennale di Milano del 1968 dedicata al “grande numero” (un classico tema del Team 10), che vide la partecipazione degli Smithson, di Van Eyck e di Giancarlo De Carlo, sebbene fu solo Woods ad interpretare il tema come trait d’union fra design

urbano e questioni politiche3.

Nella pubblicazione che descriveva la sua instal- lazione Urbanism is Everybody’s Business alla Triennale, l’idea di “grande numero” riguardava la massa. Basandosi su materiale che Woods aveva accuratamente raccolto da agenzie come l’UNESCO, il libro era una cronaca fotografica di grande efficacia sulle alienanti conseguenze dell’urbanizzazione. Da un lato gli effetti disorien- tanti o addirittura disumanizzanti prodotti dalle città, evocati da immagini di quartieri poveri e di masse, giustapposte ad altre più liriche di persone che manifestano l’esigenza liberatoria di essere dans la rue (un intento che paradossalmente si concretizzò nel maggio 68 con la chiusura temporanea della Triennale che vide Woods simpatizzare con i giovani contestatori). Dall’altro, il libro terminava con i suoi progetti sullo stem, ma se l’atto d’accusa nei confronti della tecno-scienza (armi nucleari, inquinamento, urbanizzazione) era fondato sull’idea di sostenere la bontà della vita di tutti i giorni, una res publica basata sul quoti- diano e sugli spazi preesistenti avrebbe potuto essere in conflitto col suo pensiero. A margine di un inquietante lavoro grafico in cui enormi opere urbanistiche venivano giustapposte a foto di bambini che giocano (un tipico tropo del Team 10) e di contadini al lavoro, egli ammetteva: “Il problema della massa potrebbe o non potrebbe richiedere un intervento consistente, cioè a larga scala. Questo è l’attuale atteggiamento nei paesi cosiddetti “sviluppati”. L’effetto sulle persone di tale trattamento a larga scala dovrebbe essere

considerato con attenzione”4.

Woods interpretava l’urbanizzazione come estensione dello sviluppo capitalistico occiden- tale nella società globale. Era implicita l’eclissi dello urban design come disciplina, a vantaggio del rinnovamento urbano come pratica burocra- tica. Sul piano filosofico, tutto ciò era accolto sia favorevolmente che sfavorevolmente da Woods:

alone who saw the theme as clearly tying urban design to political questions3. His accompanying book, Urbanism is Everybody’s Business, made it clear: the very notion of the “greater number” was echoed in the mass presumed by the title. Built around carefully cropped photographs, which Woods had assiduously collected from agencies like UNESCO, Urbanism is Everybody’s

Business re-presented his Triennale installation

and its powerful visual discourse on the aliena- ting effects of relentless urbanisation. On one hand were panoramic views of the disorienting, even dehumanising, effects of cities, slums, and crowds juxtaposed with more lyrical images of people in the liberative needs of being dans la rue. (The intent uncannily appeared in the events of May ’68, and the temporary closure of the Trien- nial found Woods in sympathy with the young protestors.) On the other hand, Woods’s book concluded with key stem-based projects. While the broad indictment of techno-science – nuclear weapons, pollution, urbanisation – owed to championing habits of everyday life, the imagined

res publica – construed from quotidian actions

and spaces of the existing city – may well have been in conflict with the deus ex machina of stem or web. Alongside a disquieting layout showing enormous urban works juxtaposed against shots of children playing (a typical Team 10 trope) and peasants farming, he admitted: “The problem of mass may or may not require massive, i.e. large- scale, intervention. This is the present attitude in the so-called “developed” countries. The effect on people of such large-scale treatment should be carefully considered”4.

Woods saw urbanisation as extending Western capitalist development throughout global mass society. Implicit was the eclipse of urban design, as discipline, by urban renewal, as bureaucracy. This was, philosophically, both welcome and worrisome to Woods: on one hand, with the crea- tion of the United States Department of Housing and Urban Development (HUD) as a cabinet agency in 1965, architecture was effectively an instrument of the “Great Society” programme; on the other hand, slum clearance efforts were thought predicated on any number of tabula

3. Mirko Zardini, “Triennale Milano: ‘Il grande numero’”, in Max Risselada and Dirk van den Heuvel (eds.), Team 10, 1953-81:

In Search of a Utopia of the Present, NAi Publishers, Rotterdam 2005, p. 158.

3. Mirko Zardini, Triennale Milano: ‘Il grande numero’, in Max Risselada e Dirk van den Heuvel (a cura di), Team 10, 1953-81: In

Search of a Utopia of the Present, NAi Publishers, Rotterdam 2005, p. 158.

4. Shadrach Woods, Urbanism is Everybody’s Business, Karl Krämer Verlag, Stuttgart 1968.

da un lato, essendo state attribuite nel 1965 le funzioni di agenzia di gabinetto al Department of Housing and Urban Development (HUD) degli Stati Uniti, l’architettura diveniva effettivamente parte del programma della “Great Society”; dall’altro, le operazioni di rimozione degli slums erano piani- ficate su uno schema ad effetto tabula rasa, il cosiddetto “trattamento a larga scala”. Mentre Woods avvertiva delle conseguenze negative di tutto questo sulle persone, era forse chiaro che la soluzione per lui migliore – una megastruttura sovrimposta e organizzata come lo stem – non avrebbe potuto colmare la frattura fra vecchio e

nuovo5. Al di là di qualsiasi soluzione architetto-

nica, rimaneva da comprendere se una maggiore rappresentanza potesse essere attribuita al “grande numero”, cioè alle persone.

Questa posizione quasi anarchica ha stimolato l’idea di Woods sulla “quotidianità”. Lo stem era stato progettato per rimpiazzare la zonizzazione, che Woods instancabilmente denigrava in quanto contraria alla spontaneità della vita quotidiana. L’idea di fornire un modello a priori sembrava però contraddire le procedure euristiche che avreb- bero dato vita allo stem-città. Era forse una follia interpretare l’architettura come una pagina aperta simile alla vita quotidiana ma tutto questo rivelava l’idealismo quasi libertario di Woods, che attribuiva alla supremazia del singolo maggiore “libertà” rispetto alla collettività o al gruppo. Qui sorgeva però un ulteriore conflitto con la sua ideologia di sinistra, secondo la quale si sarebbe dovuta affidare all’autorità dello stato sociale l’organizza- zione della società. Questa tensione si esplicitò nel primo corso tenuto da Woods sull’ “edilizia industrializzata” alla Harvard Graduate School of Design (conseguente all’operazione Breakthrough, un programma del HUD che sosteneva i metodi industrializzati per l’edilizia abitativa di massa). Qui la pedagogia di Woods, parte della sua nuova avventura intellettuale in America, rimase decisa- mente modernista. L’edilizia per il “grande numero” era sempre basata su una sorta di determinismo tecnologico, una posizione ancora non influenzata dal sentimento populista testimoniato ad esempio dalla “pianificazione partecipata” e dai suoi mecca- nismi di compartecipazione pubblica.

Ciononostante, Woods fu sempre impegnato a considerare la città come entità politica. Dopo Urbanism is Everybody’s Business, stampò l’opu-

rasa – “large-scale treatment” – schemes. While

Woods warned of adverse effects “on people”, it was perhaps clear that the preferred solution – a superimposed megastructure, organised as stem – could not negotiate the resulting inter-space at the juncture between old and new5. It remained whether greater agency could be granted to a “greater number” – that is, people – ahead of any architectural solution.

This somewhat anarchic line pushed Woods’s position on the “everyday”. Stem was desi- gned to replace zoning, which Woods tirelessly disparaged as contradictory to the spontaneity of quotidian life. The very idea of providing a

priori patterns seemed, however, to contradict

the heuristic procedures that would give life to stem-as-city. That architecture, a typically cumbersome undertaking, could be considered as open-ended as everyday life was perhaps folly. Nevertheless, it surely spoke to Woods’s almost libertarian idealism, in which the supre- macy of the individual was possibly accorded greater “freedom” than that of the collective or group. Herein lay a conflict with his other leftwing sympathy, namely a belief in the moral authority of a welfare state to organise society. The tension appeared in Woods’s new foray in teaching, with a first syllabus on “Industrialised Housing” given at the Harvard Graduate School of Design. (The proposition echoed Operation Breakthrough, a HUD programme encouraging industrialised methods for mass housing.) In this, Woods’s pedagogy – again, part of his new intellectual life in America – remained resolutely modernist. Housing the “greater number” was still guided by a kind of technological determinism, a position as yet unaffected by populist sentiment witnessed, for example, in “advocacy planning” and its mechanisms of public participation.

Still, Woods remained committed to situating the city as a political entity. Following Urbanism

is Everybody’s Business, Woods produced the

pamphlet What U Can Do (1970) and the book The

Man in the Street: A Polemic on Urbanism (1975).

The titles continued to see the city in terms of the author’s preferred agent: “human activities”6. Yet both books, each written during the respective early years of Nixon’s first and second terms, were fundamentally attacks on conservative poli- tics. What U Can Do, which tellingly opened with

5. Kenneth Frampton, Technology and the Crisis of Place, in «Architectural Design», vol. 49, n. 12, 1979, p. 317.

5. Kenneth Frampton, Technology and the Crisis of Place, in «Architectural Design», vol. 49, n. 12, 1979, p. 317.

scolo What U Can Do (1970) e il libro The Man in the Street: A Polemic on Urbanism (1975), pubbli- cazioni che continuavano a interpretare la città

focalizzandosi sulle “attività umane”6. Ancora una

volta entrambi i libri, scritti all’inizio del primo e del secondo mandato di Nixon, erano attacchi alla sua politica conservatrice. What U Can Do, che in modo esplicito si apriva con l’immagine di un quartiere in fiamme, rivelava il timore di Woods per il crescente manicheismo in America: “affermare che sia possibile prosperare sulle avversità. A volte è vero che in una situazione avversa tendiamo a reagire oltre le nostre possibilità, dimostrando la nostra capacità di adattamento nel trarre profitto da una sfavorevole serie di circostanze. Però non c’è bisogno di essere così perversi da creare intenzio- nalmente condizioni avverse. I fiori che sbocciano su un mucchio di letame non sono più belli dei fiori nei giardini. Sono solo un benevolo sollievo.

Nel documento Ordinariness. Progetto e quotidiano (pagine 75-85)