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What is Goede Architectuur?

Nel documento Ordinariness. Progetto e quotidiano (pagine 177-185)

Affrontare il tema dell’ordinario in architettura implicitamente porta a interrogarsi su cosa sia l’architettura e quale sia il suo ruolo. A parlare quindi di “buona architettura”. Ma cosa si intende oggi per buona architettura?

Semplificando, mi sembra proprio questo l’inter- rogativo che sta alla base di questa pubblicazione, un interrogativo che non comporta certo una risposta univoca, quanto piuttosto un ventaglio di risposte differenti ma tali da ridare all’architetto la consapevolezza delle responsabilità che stanno alla base del suo operato, senza vederlo quindi né come un “demiurgo” – senza il quale nulla è possibile – come è successo in una certa cultura degli anni Sessanta, né esclusivamente come un creatore di forme straordinarie, troppo spesso così auto-riferite e globalizzate da perdere qualsiasi relazione con il contesto, come si è visto nell’affermarsi del fenomeno delle “archistar”. Oggi il crescente (e troppo spesso il solo) uso dell’immagine come strumento per comunicare l’architettura porta a definirla esclusivamente secondo valenze emozionali ed estetiche, legate alla soggettività. Per quanto emozione ed estetica siano elementi importanti di un’architettura, nasce oggi sempre più forte il bisogno di ridare un ruolo “etico” al progetto, spiegandolo con chiarezza in tutta la sua complessità. Va in questo senso il recente numero di OASE1, nel quale gli editors del quadrimestrale indipendente di architettura – nato dalla collaborazione dell’omonima Fonda- zione impegnata a livello internazionale sui temi dell’agricoltura in territori salini con il NAi (Neder- lands Architectuurinstituut) – si interrogano sul significato di “buona architettura”.

“Molti problemi dell’architettura contempo- ranea non ci sarebbero se fosse più chiaro cosa si intende per buona architettura”, si legge nell’editoriale. “È impossibile relazionarsi con l’architettura – come progettisti, teorici o storici – senza assumere dei criteri sulla qualità. Il fatto che oggi non esista più un unico valore per definire la qualità non significa che non possa esistere una pluralità di valori [...]. Si potrebbe sostenere che, per quanto le idee siano in gran parte dettate dall’intuizione e dalla creatività, per ogni gesto di architettura sia necessario avere una posizione precisa su quale sia l’essenza della buona architettura”.

Confronting the notion of the ordinary in archi- tecture implicitly raises the question of what architecture is, and what is its role. It raises the notion of “good architecture” and what precisely do we intend by good architecture today? Simplifying somewhat, to me it appears that this issue focuses precisely on this question. A ques- tion that undoubtedly does not seek, nor should it expect, a univocal answer, as much as a host of different answers, though sufficient to restore the architect’s awareness of his responsibilities. The architect is thus not to be seen as either a “demiurge” – without whom nothing is possible – as occurred within a certain branch of culture during the 1960s, nor exclusively as the creator of extraordinary forms, all too often self-referential and gloabalised to the point of losing any relation- ship with context, a condition witnessed with the affirmation of the phenomenon of the “archistar”. Today, the growing (and all too often the only) use of the image as a tool for communicating architecture leads to its definition exclusively in relation to emotional and aesthetic values, linked to subjective evaluations. To the degree that emotions and aesthetics are important parts of architecture, today there is an ever stronger need to restore the “ethical” role of design, to be clearly explained in all of its complexity. Working in this

direction is the most recent issue of OASE1: the

editors of this independent four-monthly publi- cation – born of the collaboration between the homonymous internationally operating Organisa- tion for Agriculture in Saline Environments and the NAi (Nederlands Architectuurinstituut) – ask precisely “What is Good Architecture?”.

“Many problems in today’s architectural world would vanish if every once in a while it was clearer what is meant by good architecture – the editorial reads. “Nevertheless it is impos- sible to work with architecture – in design, theory or history – without making assumptions about criteria for quality. Just because a unique values model no longer exists does not mean that different values models cannot exist [...]. It could be said that, as much as ideas are for the most part dictated by intuition and creativity, each gesture of architecture requires a precise position on just what is the essence of good architecture...”.

1 What is Goede Architectuur?, in «OASE», n. 90, NAi Publishers, Rotterdam, maggio 2013. La ricerca è stata sviluppata in

una conversazione con Christophe Van Gerrewey, Véronique Patteeuw e Hans Teerds su «Abitare», n. 533, giugno 2013.

1 “What is Goede Architectuur?”, in OASE, n. 90, NAi Publishers, Rotterdam, May 2013. The research was developed

during a conversation with Christophe Van Gerrewey, Véronique Patteeuw and Hans Teerds in Abitare, n. 533, June.

Giancarlo Mazzanti.

Al di là della specificità delle varie risposte raccolte dai curatori di OASE senza alcuna pretesa né di esaustività (impossibile) né di fornire una guida alla qualità (altrettanto impossibile) a un interrogativo posto con grande scientificità ad architetti e critici, resta significativo come tutti concordino sull’identificare la “buona architettura” sia con l’intenzionalità sia con la responsabilità sociale e la risposta ai bisogni umani.

Ed è proprio il mettere al centro le esigenze delle persone e della società che, riportando l’architetto a confrontarsi in modo consapevole e intenzionale con la sfera dell’ordinario, fa dell’architettura una “buona architettura”.

In questa ottica si inserisce il lavoro di Giancarlo Mazzanti, l’architetto colombiano che, citando Cedric Price, sostiene che il compito dell’architetto è quello di aiutare la gente a “concepire l’inconce- pibile”, a costruire il proprio benessere sociale. Fare architettura è anche un modo di pensare Alla base del suo modo di operare sta il lavoro di gruppo, una metodologia di progetto già resa esplicita dalla scelta del nome dello studio: El Equipo de Mazzanti, una squadra multidisciplinare nella composizione e nell’approccio al progetto. Lavorare in gruppo significa operare all’interno di un “sistema aperto”, nel quale si aprono spazi di discussione e scambi di idee, ma anche spazi di crisi, che moltiplicano i temi di riflessione facendo emergere nuovi argomenti e nuove risposte, e spesso innescano collaborazioni con progettisti esterni allo studio e con professionisti di disci- pline diverse. Solo nella dialettica con saperi diversi capaci di alimentare la sintesi progettuale – filosofia, psicologia, antropologia, biologia, infor- matica, arte, geografia, pedagogia, economia – si può sviluppare la sperimentazione e affrontare la pluralità tematica, facendo sì che in se stesso ogni progetto diventi un esercizio intellettuale di trasformazione dello status quo, in grado di inne- scare la continua rigenerazione dello studio. Infatti solo lavorando in un gruppo il più possibile aperto, pensiero e prassi architettonica partono da intuizioni molteplici, si mischiano e infine si costi- tuiscono come un qualcosa di impuro e variegato, che rimane indipendente dal luogo in cui l’archi- tettura è prodotta, ma è strettamente connesso con l’ambiente culturale e intellettuale in cui viene concepito e soprattutto trova la sua validità in ciò che riuscirà a generare all’interno della comunità a cui è destinato. È questa la convinzione di Gian- carlo Mazzanti e del suo Equipo.

Che a tale convinzione affiancano la scelta altret-

Beyond the specificity of the various answers gathered by the editors of OASE without any pretence of being exhaustive (impossible) or of providing a guide to quality (equally impos- sible) in response to a scientifically structured question presented to architects and critics, it remains significant that all are in agreement on the identification of “good architecture” with both intentionality, social responsibility and the need to provide a response to human requirements. It is precisely this focusing on the needs of individuals and society that, by returning it to a conscious and intentional confrontation with the sphere of the ordinary, makes architecture “good architecture”.

It is within this structure that we find the work of Giancarlo Mazzanti, the Colombian architect who, to cite Cedric Price, claims that the respon- sibility of the architect is that of helping people to “conceive the inconceivable” in order to construct their own well-being.

Making Architecture is also a Form of Thinking

Mazzanti’s modus operandi is founded on teamwork, a methodology of designing already explicated in the name of his office: El Equipo de Mazzanti, a multidisciplinary group in its composi- tion and approach to design. Working as part of a group signifies working within an “open system” that creates spaces of discussion and the

exchange of ideas; it also signifies spaces of crisis that multiply the themes of reflection, revealing new issues and new answers. This approach often triggers collaborations with external designers and professionals from a range of disciplines. Only through a dialogue founded on diverse knowledge capable of nurturing a synthesis of design – philosophy, psychology, anthropology, biology, information technology, the arts, geography, pedagogy, economics – is it possible to experiment with and confront a plurality of themes. Through this approach each project becomes an intellectual exercise for transforming the status quo, capable of triggering the continuous regeneration of the office’s work. In fact, only by working as a part of a group, as open as possible, do architectural theory and practice begin to form multiple intuitions, mixing and finally coming together to constitute some- thing impure and variegated, which remains independent of the space in which architecture is produced, but is closely connected with the cultural and intellectual environment in which it is conceived. Above all its validity lies in what it

tanto determinata di operare prevalentemente nel campo dell’architettura pubblica, sfruttando lo strumento dei concorsi (anonimi e pubblici) – affermatosi in Colombia negli ultimi quindici anni come potente leva per la rinascita delle città e l’affermarsi di un interessante gruppo di archi- tetti locali – che, anche se comporta dei rischi, permette di sperimentare nuove organizzazioni spaziali e garantire al progetto un più ampio margine di azione sociale e politica.

Biblioteche, scuole, complessi sportivi, piani urbanistici sono quindi l’occasione per lavorare sul quotidiano e interpretarne i bisogni senza limitarsi al presente ma con uno sguardo in prospettiva. Il che porta a considerare l’archi- tettura non più soltanto come un fatto fisico ma anche come una proiezione mentale, e quindi a riconoscerne il valore reale soprattutto nelle sue potenzialità performative. Incoraggiare le persone a sperimentare comportamenti mentali e fisici diversi, generare dei condensatori sociali che il più efficacemente possibile attivino forme di appropriazione (e anche di orgoglio) da parte delle comunità sono gli effetti che l’architettura di El Equipo de Mazzanti vuole generare.

L’architettura quindi non è più una questione di stile o di costruzione di un linguaggio autoriale, né tantomeno un’esigenza di auto rappresenta- zione, ma diventa interessante per il modo in cui agisce (ponendo vincoli, mescolando ambiti), per quello che riesce a produrre nella sfera materiale e in quella sociale, e per gli strumenti che usa per innescare rapporti, reazioni e nuove azioni crea- tive in chi la vive.

Il diagramma come strategia operativa Si può quindi considerare l’architettura come una “pratica materiale” – come l´ ingegneria, la moda, l´ecologia, l’artigianato – che agisce sulla materia e sullo spazio e trasforma la realtà costruendo sistemi operativi anziché sistemi rappresentativi basati sul linguaggio.

Questo vuol dire che la finalità del progetto è quella di essere uno strumento che genera scambi spaziali, sociali e ambientali; quella di essere non una semplice soluzione funzionale a una esigenza ma, connettendo, moltiplicando, facilitando e gestendo i comportamenti (e non le immagini o il linguaggio formale), un luogo di intermediazione con la complessità del mondo contemporaneo. Il progetto diventa una inter- faccia tra gli attori del mondo reale per generare relazioni di convivenza tra i bisogni tecnici e culturali, l’organico, il meccanico e l’inorganico, la

manages to generate within the community for which it has been created. This is the conviction of Giancarlo Mazzanti and his Equipo.

That this conviction is accompanied by the equally determinant choice to work primarily in the field of public architecture, exploiting the competition (anonymous and public) – which has gained ground in Colombia over the past fifteen years as a powerful level for the renaissance of the city and the affirmation of an interesting group of local architects – that, though not without its risks, allows for the experimentation with new spatial organisations and guarantees architecture a broader range of social and political action. Libraries, schools, sporting facilities and urban plans represent occasions for working with the everyday and interpreting needs without being limited to the present and allowing a view toward the future. This leads to a consideration of archi- tecture no longer solely as a physical fact, but also as a mental projection, and thus the recogni- tion of its real value above all in its performative potentialities. Encouraging people to experi- ment with different physical and mental actions, generating social condensers that activate, as effectively as possible, forms of appropriation (and also pride) among local communities are the effects that the architecture of El Equipo de Mazzanti wishes to generate.

Architecture is thus no longer a question of style or the construction of a signature language, nor is it the need for self-representation. It becomes interesting for the way it acts (establishing restrictions, mixing ambits), for what it manages to produce in the material and social spheres, and for the tools it employs to trigger relations, reac- tions and new creative actions among those who inhabit it.

The Diagram as an Operative Strategy

Architecture can thus be considered a “mate- rial practice” – similar to engineering, fashion, ecology, craft – that affects matter and space and transforms reality by constructing opera- tive systems rather than representative systems based on language.

This means that the final aim of design is to be a tool that generates spatial, social and envi- ronmental exchanges; not a simple functional solution to a need but, connecting, multiplying, facilitating and managing actions (and not images or formal language), a space of intermediation with the complexity of the contemporary world. Architecture becomes an interface between

natura e la costruzione, gli interessi umani e non, mantenendone le differenze. L’architettura diventa azione, per poter aiutare quanti la usano a trasfor- marsi da fruitori passivi in attori che con la loro interazione la modificano per poter vivere meglio. Per rendere possibile tutto questo bisogna costruire sistemi aperti e tra loro differenti, capaci di adattarsi all’indeterminatezza del presente e modificarsi nel tempo, sistemi meticci e pluralisti, e volutamente incompiuti. L’incompiutezza infatti non è solo una delle conseguenze dei problemi economici, ma è quell’espressione globale della contemporaneità che spinge a sperimentare, a non accontentarsi di risolvere le contingenze ma a puntare sulle potenzialità, superando i limiti pura- mente formali e compositivi dell’architettura. Per l’Equipo de Mazzanti lo strumento operativo per generare tali sistemi aperti è il diagramma, un “sistema grafico di pensiero” che vincola a una procedura progettuale. È una sorta di catalogo di istruzioni che definisce soltanto le condizioni che agiscono sulla materia (organica, inorganica, topo- grafica, paesaggistica, meccanica) e sullo spazio, definisce cioè i dati fisici, i rapporti, i programmi e le intenzioni dell’idea progettuale. Non ponendosi né come una rappresentazione del progetto né come una sua metafora, la pratica diagrammatica è una configurazione aperta associata al compor- tamento di un sistema – derivato da discipline diverse – che permette di focalizzare e definire le qualità desiderate per ciascun progetto. In relazione alla varietà tipologica e programma- tica dei progetti affrontati dallo studio, anche le configurazioni diagrammatiche sono piuttosto varie: Paesaggi-Topografie e Geografie, Contorni e Tematizzazioni, Fasce di Crescita, Moduli e Sistemi Adattativi, Connettività e Reti Incompiute sono le tipizzazioni diagrammatiche definite fino a oggi, che comportano comunque sempre delle variabili strettamente collegate alla realtà in cui si opera (il luogo, il clima, le abitudini delle comunità, i materiali e i sistemi costruttivi).

Costruire inclusione in un mondo complesso Se il diagramma è lo strumento operativo del progetto, moltiplicazione di modi e tempi d’uso, riconoscibilità e quindi valenza iconica, apertura e flessibilità, sostenibilità ambientale sono le modalità (strategie) per generare convivenza sociale e appartenenza, usando non un linguaggio unico (autoriale), ma linguaggi diversi (e talvolta contraddittori) che di volta in volta rendano imme- diatamente leggibile la finalità del progetto. Ne possono quindi derivare architetture poten-

actors in the real world in order to generate relations of cohabitation between the technical and the cultural, the organic, mechanical and the inorganic, between nature and construction, between human and non-human interests, all the while maintaining differences. Architecture becomes action in order to assist those who use it to transform themselves from passive users into actors who, through their interaction, modify to live better lives.

To make all of this possible we must construct open and diverse systems, capable of adapting themselves to the indeterminacy of the present and modifying themselves over time. Mixed and pluralist systems that are intentionally incom- plete. Incompleteness is in fact not only one of the consequences of economic problems, but the global expression of the contemporary that pushes us to experiment, not to be satisfied merely with the resolution of contingencies but to focus on its potentialities, surpassing the purely formal and compositional limits of architecture. For the Equipo de Mazzanti, the operative tool for generating these open systems is the diagram, a “graphic system of thinking” linked to a method of designing. It is a sort of catalogue of instructions that defines only these conditions that affect matter (organic, inorganic, topographic, the land- scape, mechanical) and space. In other words, it defines the physical data, relations, programs and intentions of the idea of a project. Presented as neither the representation of a project nor as its metaphor, the diagrammatic practice is an open configuration associated with the behaviour of a system – derived from diverse disciplines – that permits the designer to focus on and define the quality desired for each project. In relation to the typological and programmatic variety of the office’s work, even the diagrammatic configura- tions are highly varied: Landscapes-Topographies and Geographies, Borders and Thematisa- tion, Bands of Growth, Adaptive Modules and Systems, Connectivity and Incomplete Networks represent the diagrammatic typizations defined to date. They consistently comport variables closely linked to the reality in which they operate (site, climate, local habits, materials and building systems).

Building Inclusion in a Complex World

If the diagram is the operative tool of design, the multiplication of methods and times of use, recognisability and thus iconic value, openness flexibility and environmental sustainability are

temente iconiche, decisamente ispirate alla natura circostante – come la Biblioteca España di Medellín, un paesaggio artificiale formato dalle tre enormi rocce della biblioteca, l’auditorium e le sale di studio, tra le quali si genera la piazza panora- mica o come il recentissimo progetto vincitore del concorso per il velodromo di Medellín, dove le piste sono sollevate all’interno di trottole traslu- cide sovradimensionate che liberano un grande nuovo spazio pubblico – decisamente allusive al mito della velocità e dei record: parlano linguaggi inizialmente sconosciuti alle persone del luogo perché lontani dal vernacolare, ma sono in grado di accogliere nuove forme di comportamento più adeguate alla vita moderna e di creare appar- tenenza (e il successo della Biblioteca ne è una conferma). Architetture formate da frammenti (moduli) assemblabili in modo diverso in funzione del contesto, realizzabili in momenti diversi nel tempo e adattabili al mutare delle necessità, come l’asilo di Timayui a Santa Marta o El Porvenir a Bogotà: sono organizzazioni spaziali impostate sui principi pedagogici, dove quanto si crea tra e

Nel documento Ordinariness. Progetto e quotidiano (pagine 177-185)