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gt; Maurizio Vitta

Nel documento Ordinariness. Progetto e quotidiano (pagine 55-61)

su modelli progettuali capaci di rifondare “dal basso” la città, sulla riappropriazione di strutture abitative a misura di abitante. L’utopia di allora si proporrebbe dunque, nella storia, come l’altra faccia, quella nascosta, della volontà riformatrice di oggi: ciò che un tempo fece leva sulla struttura sociale, sui suoi punti di forza e sulle sue possibilità di scardinamento, sfuma ora in un più sommesso afflato antropologico, che ricerca nelle invarianti del genere umano i tratti distintivi di un abitare “ordinario” – tra “comune” e “comunitario” – cui l’ar- chitettura dovrebbe specularmente corrispondere. Collocata in questa prospettiva storica, però, la questione dell’”ordinario” ci riporta ancora più indietro nel tempo, fino a recuperare la nozione di “banale” proposta un secolo fa da Auguste Perret, il quale vide nel cemento armato la possibilità di pervenire a un nuovo classicismo proprio a partire dal tono discreto e quasi dimesso imposto dal nuovo materiale alle forme e alle composizioni architettoniche. Come si sa, Perret era convinto che, grazie alla loro apparente “banalità”, quelle inedite strutture avrebbero potuto inserirsi nel panorama urbano rispettandone la continuità storica, senza violentarne l’immagine con creazioni sorprendenti o eccezionali, ma semplicemente accompagnandola nella sua naturale evoluzione. Era nella materia fatta forma che egli individuava il vitale intreccio tra passato e presente, fra identità individuale e fisionomia urbana, fra “ordinario” e “straordinario”, a garanzia di un armonico sviluppo della città allora già avviata alla sua espansione metropolitana. Alla fine la storia gli ha dato ragione, ma in una misura alquanto distorta rispetto alle aspettative: nell’arco del Novecento, ciò che per Perret doveva essere solo “esemplare” si è trasformato, con la involontaria mediazione di Le Corbusier, in una norma riprodotta passivamente, che ha trascinato la sublimità del “banale” ai livelli più bassi dell’”ordinario”, facendo dei nuovi agglo- merati urbani una indistinta distesa di fabbricati anonimi e trasformando le città del mondo in una interminabile e amorfa periferia planetaria. Non stupisce il fatto che sullo sfondo di questo scenario si sia levata la perturbante nube della polemica, ormai annosa, nei confronti di quelle emergenze estetiche costituite dagli episodi archi- tettonici più vistosi, intorno ai quali si è addensata un’aura di “straordinarietà” subito riverberata, per prevedibile sineddoche, sulla figura del progettista. Non ci soffermeremo più di tanto sull’uso volgare del termine “archistar”. Resta però il fatto che sulle nostre città – ma, più in generale, su tutto il territorio più o meno antropizzato– si va infit-

the reappropriation of structures of dwelling at the scale of their inhabitants. The utopia of this period would thus be proposed, in history, as the – concealed –other side of the reformist desires of today: what once appealed to a social structure, to the strong points and possibilities to introduce change, now blends into a more submerged anthropological wave that searches among the invariants of the human race for the distinctive traits of an “ordinary” form of dwelling – between the “common” and the “European” – to which architecture must offer a specular response. In this historic perspective, however, the ques- tion of the “ordinary” takes us even further back in time, to the recuperation of the notion of the “banal” proposed by Auguste Perret a century ago. Perret saw reinforced concrete as a possibility to arrive at a new classicism beginning precisely from the discrete and almost subdued tone imposed on the forms and compositions of architecture by this new material. As we know, Perret was convinced that the apparent “banality” of these unprec- edented structures meant they could be inserted within the urban panorama. He believed it possible to respect the continuity of history without violently disturbing its image with surprising or exceptional creations, but simply accompanying its natural evolution. He considered this matter made form to be the vital overlap between past and present, between individual identity and urban physiognomy, between “ordinary” and “extraor- dinary”, offering a guarantee of a harmonious development of the city, at the time already in a phase of metropolitan expansion. In the end history would prove him right, all the while distorting his expectations: during the course of the twentieth century, what for Perret was to have been merely “exemplary” was transformed, via the involuntary mediation of Le Corbusier, into a passively repro- duced norm that dragged the sublimity of the “banal” down to the lower levels of the “ordinary”, creating new urban agglomerations in an indistinct expanse of anonymous buildings that has trans- formed the world’s cities into an interminable and amorphous planetary periphery.

It should come as no surprise that behind this scenario there arose the disturbing cloud of an age-old polemic toward aesthetic objects comprised of more flamboyant architectural episodes, gradually surrounded by an aura of “extraordinariness”, that rapidly reverberated, via an imaginable synecdoche, onto the figure of the architect. Little time will be dedicated to the vulgar use of the term “archistar”. What remains however

tendo la presenza di architetture rese insulari ed eccezionali dalle loro spiccate qualità formali, dalla imponenza, se non addirittura dalla prepotenza, del loro richiamo percettivo, dalla monumentalità del loro affiorare su un tessuto urbano vistosa- mente omologato e normalizzato. Il richiamo alla Gherkin Tower di Londra, progettata da Norman Foster, appare, nella sua notorietà, irresistibile: questo “cetriolo erotico”, come subito essa è stata battezzata, si staglia sullo skyline londinese come una stella polare che attira su di sé tutte le tensioni visive di quello sterminato e amorfo spazio urbano, anche dopo che altri episodi egualmente imponenti sono andati affiancandola. Qui la coppia ordinario/ straordinario – antitetica o dialettica, è da vedere – trova una illustrazione talmente esaustiva da trasformarsi in paradigma progettuale: da un lato il gigantesco panorama indifferenziato, normaliz- zato, monotono di una metropoli di dodici milioni di abitanti, dall’altro l’impennata architettonica, l’emergenza di un segno imperativo capace di organizzare e orientare intorno a sé l’intero spazio urbano. Il deserto e l’oasi: il diagramma dell’archi- tettura contemporanea si compone nel disegno della cuspide, dalla base amplissima e dal vertice che vertiginosamente si restringe fino a conclu- dersi in un punto. Le due nozioni di “ordinario” e “straordinario” vi si fronteggiano in una opposizione destinata a restare irriducibile, come in una diade che non ammette convergenze né confronti. L’immagine, però, per quanto suggestiva, non ci consente di fare un passo avanti nella nostra analisi. Essa ci inchioda ancora una volta a una visione dell’architettura intesa come “oggetto”, pura presenza fisica, polo di attrazione visiva, portatore privilegiato di un’esperienza sensoriale, se non addirittura estetica, pressoché assoluta. Peggio ancora, esalta l’architettura come esito di una progettualità di carattere eccezionale proprio nel momento in cui la riduce alla sua vuota forma, al suo destino di involucro indifferente ai propri possibili contenuti, a una costellazione di stilemi da riprodurre poi passivamente su scala urbana. In tali condizioni – che perfino le migliori storie della disciplina si ostinano a perpetuare – l’ordinario e lo straordinario sono destinati a rimanere recipro- camente antitetici: ridotti a semplice immagine, la presenza dell’uno presuppone l’assenza dell’altro. Nella sua accezione filosofica, tuttavia, la figura della diade non risulta tanto rigida. Essa può marcare una contrapposizione radicale, ma può anche segnalare la convergenza o comunque l’in- terazione di due polarità fra loro opposte, eppure in qualche modo convergenti, confrontabili, collabo-

is the fact that our cities – though more in general our territories, more or less anthropicised – are witness to the densification of buildings rendered insular and exceptional by their stand-out formal qualities, by the majesty, if not the downright arrogance of their appearance, of their monu- mental presence within a brashly standardised and regularised urban fabric. A reference to the so-called Gherkin Tower in London, designed by Norman Foster, is irresistible: this “erotic pickle”, as it was rapidly baptised, stands out against the London skyline like a polar star that attracts all of the visual tensions of an endless and amorphous urban space, even after other equally majestic episodes have been erected alongside it. Here the coupling of ordinary/extraordinary – whether antithetic or dialectic remains to be seen – is so exhaustively illustrated that it is transformed into a design paradigm: on the one hand the sprawling, undifferentiated, normalised and monotonous panorama of a metropolis of twelve million inhab- itants, on the other a burst of architecture, the emergence of an imperative sign capable of organ- ising and orienting all urban space around it. The desert and the oasis: the diagram of contemporary architecture is composed in the design of the cusp, from the broad base and the lines vertiginously tapering toward a narrow point. The two notions of “ordinary” and “extraordinary” square off in an opposition destined to remain irreducible, similar to a dyadic that admits neither convergences nor comparisons.

However, this image, as suggestive as it may be, does not allow us to take a step forward in our analysis. It ties us once again to a vision of archi- tecture intended as an “object”, a purely physical presence, a pole of visual attraction, the bearer of a privileged sensory, if not outright aesthetic experience, that is nearly absolute. Worse still, it exalts architecture as the outcome of some exceptional process of design precisely at the moment when it is reduced to its void form, to its destiny as an envelope indifferent to is own possible contents, a constellation of stylemes to be passively reproduced at the urban scale. Under these conditions – that even the best histories of the discipline obstinately perpetuate – the ordinary and the extraordinary are destined to remain reciprocally antithetical: reduced to a simple image, the presence of the one presup- poses the absence of the other.

In its philosophical meaning, all the same, the figure of the dyadic is less rigid. It may mark a radical opposition, though it may also indicate the conver-

rative, in quanto parti di un unico universo culturale. In tale prospettiva, sarebbe forse lecito pensare a un recupero della nozione di “ordinario” nell’alveo originario di una “straordinarietà” intrinseca alle modalità d’ogni progetto. Certo, l’operazione non sarebbe indolore, dal momento che richiede in via preliminare un sacrificio linguistico, vale a dire la sostituzione del termine “ordinario” con quello di “quotidiano”. Ma il sacrificio risulterebbe in fondo relativo, dal momento che il primo vocabolo è risultato insidioso e, tutto sommato, poco rappre- sentativo, laddove il secondo sembra meglio esprimere le specificità e le finalità del progetto architettonico. Se infatti è vero che il fine dell’archi- tettura rimane, dalle origini, quello di interpretare, organizzare, valorizzare gli spazi destinati all’esi- stenza quotidiana degli individui, presi isolatamente o in gruppo, il suo valore istitutivo, la sua giustifi- cazione e legittimazione andranno ricercati non nella sua funzione puramente esornativa, bensì in una organizzazione spaziale destinata ad acco- gliere e tutelare la vita che scorre, il tempo che si dipana, la storia che si sviluppa. Il che presup- pone un’ulteriore mutazione di prospettiva, ossia il trasferimento dell’attenzione progettuale da un “esterno” che risponde unicamente delle sue qualità estetiche a un “interno” che fa dell’espe- rienza quotidiana il senso stesso dell’architettura. Un altro passo indietro nella storia? Ovviamente sì, visto che la cultura architettonica del Nove- cento ha insistito autorevolmente (sebbene episodicamente) sul valore degli interni, arrivando a individuarvi il nucleo vitale dell’intero progetto. Solo che essa non è andata oltre la composizione dei due livelli di spazialità espressi dalla coppia “interno/esterno”. Il problema, viceversa, è quello di restituire ai due poli della coppia i loro comuni valori antropologici, sociali, culturali: l’architettura può ricomporsi intorno ai segni primari della sua identità solo a patto di ritrovare i suoi legami di sangue con la vita che è chiamata ad accogliere. Il richiamo alla quotidianità vale dunque non tanto come accettazione passiva di un “esistente” che reclama il suo riconoscimento, quanto come la sua legittimazione di fronte a una “eccezionalità” cui la cultura progettuale non deve rinunciare. Se così è, il compito dell’architettura sarebbe proprio quello di rappresentare – dandole concretezza – l’eccezionalità del quotidiano, che significa rovesciare l’ordinario nello straordinario, rendere unico il comune, conferire singolarità alla norma. Operazione meno funambolica di quanto non sembri, dal momento che proprio grazie a questo orientamento sarebbe possibile superare il pregiu-

gence, or in any case the interaction, between two opposing yet in some way convergent, compa- rable and collaborative polarities, that belong to a unique cultural universe. From this perspective it would perhaps be justifiable to imagine a recovery of the notion of the “ordinary” in the original line of an “extraordinariness” intrinsic to the methods of each project. Certainly, the operation would not be painless, given that it will require an initial linguistic sacrifice: the substitution of the term “ordinary” with “everyday”. However, this sacrifice appears worthwhile as the first term has proven to be insid- ious and, all things said, scarcely representative, while the second appears to better express the specificity and final aims of architecture. If it is true that the aim of architecture from is origins, is to interpret, organise and give meaning to the spaces of the everyday existence of individuals, taken separately or as a group, its value in establishing conditions, its justification and legitimization will have to be sought not in its purely decorative func- tion, but instead as part of a spatial organisation destined to host and protect the flows of life, the passing of time, and the unfolding of history. This presupposes a further mutation in perspective, in other words the transfer of attention from an “exterior” that responds uniquely to its aesthetic qualities, toward an “interior” that elevates daily experience to the very meaning of architecture. Another step back in time? Obviously yes, given that twentieth century architectural culture has authoritatively insisted (though episodically) on the value of interiors, arriving at the identification of the vital nucleus of an entire project. Unfortu- nately it never went beyond the composition of the two levels of spatiality expressed by the pairing “inside/outside”. The problem, vice versa, is that of restoring the common anthropological, social and cultural values to the two poles of this couple: architecture may be recomposed around the primary signs of its identity only if it can rediscover its blood ties with the life it is asked to host. The call to the everyday is thus of value less as the passive acceptance of an “existing” yearning for recognition, and more as its legitimization in the face of an “exceptionality” that design culture must not renounce. If this is the case, the role of archi- tecture would be precisely that of representing – making it concrete – the exceptionality of the everyday. This signifies injecting the ordinary into the extraordinary, rendering the common unique, rendering the normal remarkable. This operation is less acrobatic than it may appear, precisely because this orientation makes it possible to over-

diziale predominio dell’immagine esterna degli edifici rispetto alla loro funzionalità interna: sarà in effetti sufficiente riflettere sul fatto che l’”esterno” architettonico non è che l’”interno” urbano, e deve quindi calibrarsi sugli stessi paradigmi di socialità, comunicazione, appartenenza, carica simbolica, reclamati per il suo ruolo di contenitore. Solo così la straordinarietà delle forme e la pura tensione estetica degli artefatti urbani possono giustificare la loro eccezionalità, destinata a offrirsi a un’espe- rienza collettiva per trarne le matrici profonde della sua significazione.

È tuttavia l’interno architettonico lo spazio nel quale si esprime pienamente la vocazione primi- genia dell’architettura alla quotidianità. Se è vero che l’architettura si definisce in prima istanza come composizione di spazi da abitare (ossia non semplicemente “abitabili”, ma pensati, disegnati e realizzati per essere abitati), è qui che il confronto con la realtà antropologica, culturale, sociale nella quale il progetto si inserisce si fa diretto e ineludi- bile. Difficile, però, stabilire le modalità di questo confronto. La cultura architettonica del Nove- cento ha risolto il problema concentrandosi sul concetto di “funzione” e riducendo l’abitare a uno rigido diagramma di comportamenti, che ha dato vita a schematismi spaziali per lo più astratti. Né il superamento delle figure del moderno ha inciso significativamente su questa filosofia progettuale, ormai consolidata in una formulazione tecnica di sapore scolastico, che i non pochi – ma isolati – tentativi di correzione non hanno modificato, soprattutto nell’edilizia di massa. L’”ordinario” trova qui la sua giustificazione teorica, ma in negativo: l’archetipo progettuale, distillato in pochi postulati, si arroga il diritto dell’uniformazione del quotidiano, degradando l’interno architettonico a semplice appendice tecnica di un “esterno” straordinario. Se si vuole davvero aprire la dinamica progettuale ai venti della storia vissuta occorre viceversa eliminare ogni rigidità dalle sue stesse premesse, lasciando che negli spazi architettonici la vita scorra liberamente, in un primo tempo come orizzonte culturale del progetto, e in seguito, nell’architettura compiuta, come possibilità di rinnovamento continuo delle sue strutture. Ritorna, insistente, l’immagine proposta da Gio Ponti, che vide nel momento in cui il progettista lascia la sua opera all’abitante il culmine e la consacrazione della missione dell’architetto. Ciò che questi lascia dietro di sé, saldo e definito nella sua materica identità, non è che il punto di partenza di una rielaborazione continua da parte dell’abitante. Al progetto unico, irripetibile, in sé

come the prejudicial predominance of the external image of a building with respect to its internal func- tions: in reality it would be sufficient to reflect on the fact that an architectural “exterior” is nothing other than an urban “interior”, and must thus be calibrated according to the same paradigms of communication, belonging and symbolic strength, claimed for its role as a container. Only in this way can the extraordinariness of forms and the pure aesthetic tension of urban artefacts justify their exceptionality, destined to offer themselves up to a collective experience in order to draw out the deeper matrices of their signification.

In any case, an architectural interior is the space that fully expresses the original vocation of archi- tecture in everyday life. If it is true that architecture is defined in the first instance as the composition of the spaces of dwelling (not simply “inhabit- able”, but conceived, designed and realised to be inhabited), it is here that the confrontation with the anthropological, cultural and social reality into which a project is inserted becomes direct and unavoidable. It is difficult however to establish the methods of this comparison. Twentieth century architectural culture has resolved the problem by concentrating on the concept of “function” and reducing dwelling to a rigid diagram of behaviours, that has given rise to spatial schemes, for the most part abstract. Neither has the surpassing of the figures of modernism had a significant effect on this design philosophy, now consolidated in a scholastically flavoured technical formulation that many – though isolated – attempts at correction have not modified, above all in mass construction. It is here that the “ordinary” finds its theoretical justification, though in the negative: the design

Nel documento Ordinariness. Progetto e quotidiano (pagine 55-61)