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2. Cura ed etica

2.1 Breve genealogia della cura

2.1.7 Conclusioni

Questa ricognizione storico-genealogica nel passato del concetto di cura potrebbe sicuramente essere oggetto di ulteriori studi e approfondimento, tuttavia già in questa forma essenziale mi sembra possa portare ad alcune utili riflessioni. Il primo elemento che vorrei sottolineare è l’indubbia rilevanza di un’analisi di questo tipo ai fini di una qualunque elaborazione contemporanea del concetto di cura. A maggior ragione in quanto dalla storia dell’idea di cura sembrano emergere con forza alcuni elementi, che si ritrovano in più di un contesto, nonostante le dovute differenze. Lo stesso Reich ritiene che un excursus di questo tipo riveli una famiglia di nozioni di cura strettamente legate tra loro, che condividono l’attribuzione alla cura di alcune caratteristiche chiave. Sono due in particolare gli elementi maggiormente ricorrenti e allo stesso tempo più importanti.

Innanzitutto la connotazione ambivalente della cura stessa, per lo più interpretata sia come sollecitudine, sia come preoccupazione angosciosa. Al contrario di ciò che avviene con le autrici femministe – alle quali si rimprovera di dare una rappresentazione fin troppo idealizzata della cura – storicamente nelle trattazioni relative alla cura è spesso prevalsa una sua connotazione fortemente negativa, nei termini di angoscia e preoccupazione o come un fardello pesante e a tratti persecutorio (si pensi alle ultrices Curae di Virgilio o alla Sorge di Goethe). In molti autori tuttavia questa non è l’unica connotazione della cura ma – così come avviene per l’etimologia latina – a essa si accompagna il significato positivo di sollecitudine, premura, interesse. Spesso, inoltre, in questa accezione positiva la cura riveste un ruolo estremamente importante per il compimento della vita umana – si pensi a Seneca o a Ricoeur. In generale, dunque, il dato che emerge dalla ricognizione storica è quello di un’ambiguità

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della cura stessa. Tale indicazione è di sicuro interesse per il dibattito contemporaneo, in particolare per la discussione sui potenziali rischi legati alle pratiche di cura: considerare la cura anche nei suoi aspetti più negativi può infatti aiutare a mettere a fuoco l’assoluta necessità di distinguere le forme di cura buone e di formulare delle indicazioni normative in tal senso, elementi fondamentali nel momento in cui si voglia proporre la cura come un ideale etico. Una consapevolezza anche storica sul concetto di cura aiuterebbe quindi le autrici contemporanee a coglierne la potenziale vastità e a identificare il bisogno di formulare una definizione di cura più precisa di quanto sia avvenuto finora.

Il secondo elemento di particolare rilievo è poi lo stretto legame che diverse fonti istituiscono tra cura e condizione umana. La testimonianza centrale in questo senso è il mito di Cura riportato da Igino, probabilmente alla base della Sorge di Goethe oltre che naturalmente di quella di Heidegger. La cura interviene infatti, in una vera e propria antropogonia, come colei che ha plasmato l’uomo e della cui vita si farà carico. La forza simbolica di una tale rappresentazione è evidente, e stupisce che le filosofe femministe della cura non abbiano fatto ricorso alle sue potenzialità. Il mito di Cura, così come l’idea di Cura che si trova in Essere e tempo, portano la riflessione sulla cura a un livello più profondo, fondativo. Heidegger in particolare considera la cura come la struttura ontologica dell’Esserci, attribuendole un’importanza inedita ma allo stesso tempo svuotandola di significato. Lasciando per ora da parte il caso specifico della trattazione heideggeriana, sulla quale tornerò a breve, molto si può dire sul possibile legame tra cura e antropologia.

Invece che fermarsi a un’indagine di tipo fenomenologico-psicologico come tendono a fare le autrici femministe, potrebbe infatti essere fruttuoso esaminare la cura da una prospettiva antropologica, seguendo la strada suggerita dal mito. Questa è in effetti la direzione che intraprende lo stesso Reich il quale, a partire dal mito di Igino, interpreta la cura come l’elemento caratterizzante la nostra umanità. Valorizzare questa dimensione della cura, come una pratica che definisce in modo essenziale il nostro stare al mondo,

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sembra perfettamente in linea con gli obiettivi della riflessione sull’etica della cura, volta a ripensare la filosofia morale a partire da nuovi presupposti che, in ultima istanza, consistono in una diversa immagine dell’uomo e quindi nel superamento del “mito” hobbesiano della guerra di tutti contro tutti. Si può così pensare che la cura definisca l’uomo in due sensi, come oggetto e soggetto di cure. Tutti gli uomini condividono infatti la condizione di essere stati oggetto di cure di qualche tipo durante la loro infanzia, altrimenti non sarebbero potuti sopravvivere e arrivare a essere degli adulti. La cura si presenta quindi già in questo senso come esperienza universale, pur trattandosi di una cura intesa in senso molto ampio, che può comprendere anche prassi lontane dall’ideale morale della cura e piuttosto negative. In secondo luogo si può pensare che la cura caratterizzi tutti gli uomini in quanto soggetti, considerando – sulla scia di Heidegger – la cura come definitoria del nostro modo di stare al mondo, sempre occupati a svolgere qualche compito, sempre protesi verso qualche progetto. Anche in questo caso si può sostenere che si tratti di un’esperienza umana universale solo a patto di mantenere una definizione di cura generica, che consenta di abbracciare la molteplicità di esperienze particolari in cui la vita umana si esplica. In entrambi i casi, dunque, la cura si presenta come un concetto molto vasto e che mantiene una certa ambiguità. Trovo che il confronto con un’articolazione della cura di questo genere, che emerge dalla storia di tale idea, sia imprescindibile per poter elaborare una nozione di cura più specifica da proporre come ideale morale. Infatti, per quanto sicuramente a livello etico l’ambiguità della cura vada risolta per arrivare a un modello di cura accettabile, questo obiettivo non può essere raggiunto se tale ambiguità viene ignorata. Su questi aspetti tornerò comunque nel prosieguo del capitolo, mentre ora vorrei focalizzarmi sul contributo specifico di Heidegger.

Come si è visto, l’elaborazione heideggeriana della Sorge è la trattazione filosofica più pregnante sul tema della cura. Sembra quindi importante soffermarsi sul ruolo piuttosto limitato che essa ha avuto nel dibattito contemporaneo sulla Ethics of Care e sulle ragioni che giustificano una certa diffidenza a servirsi del modello heideggeriano. In effetti, sono pochi gli autori

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che hanno ripreso la proposta heideggeriana, ma questo scarso interesse a mio parere rispecchia la difficoltà di servirsi di un discorso che da un lato si situa a un livello squisitamente ontologico e dall’altro offre una nozione di cura ampia e poco dettagliata, allo stesso tempo pregna di connotazioni negative e lontana dalle pratiche relazionali cariche di significato che di solito alla cura sono associate. Gli stessi autori che si richiamano a Heidegger si trovano costretti a fare una serie di precisazioni, a partire dalla problematicità di immaginare una morale heideggeriana – dato che Heidegger “non interpretava autenticità e inautenticità come questioni morali”193. Lo stesso avviene con alcuni studiosi di pedagogia italiani che si sono occupati di cura richiamandosi a Heidegger.

Luigina Mortari194, per esempio, riprende Heidegger per giustificare la necessità ontologica della cura – che considera essere l’asse paradigmatico della pratica educativa – ma si trova a dover sottolineare due criticità: da un lato il fatto che Heidegger non concepisce la chiamata alla cura come fenomeno relazionalmente situato, aspetto invece centrale per l’agire educativo; dall’altro l’idea che nella vita quotidiana prevalgano i modi difettivi dell’essere, mentre ciò che interessa l’autrice sono i modi positivi della cura, i soli a rendere possibile il pieno fiorire umano. Secondo Mortari, “i modi positivi della cura che fermentano la vita quotidiana sono quelli agiti per lo più dalle donne.

Heidegger non li vede, anche se sono questi i modi più frequenti;

probabilmente non sa vederli perché non vede l’agire femminile”195. Pur senza dover condividere questa tesi, non si può non riconoscere come il discorso heideggeriano sia legato a una rappresentazione neutra dei modi dell’aver cura e non offra alcuna particolare valorizzazione della cura utile a chi la voglia proporre come ideale, etico o pedagogico. Infine, volendo usare il pensiero di Heidegger in riferimento a pratiche concrete a mio parere si corre il rischio di

193 Bishop – Scudder 1991, p. 61.

194 Mortari 2006.

195 Ivi, p. 5.

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proporne delle interpretazioni un po’ forzate196, in quanto, come più volte ricordato, il suo discorso si situa sul piano dell’ontologia e non dell’ontico.

Un’attenzione specifica merita anche Ricoeur, che con la sua elaborazione della sollecitudine rappresenta un altro modello filosofico importante. A differenza di quanto avviene con Heidegger, il fatto che il discorso sulla sollecitudine riguardi la filosofia morale lo rende molto più fruibile per l’elaborazione di un’etica della cura. I suggerimenti che provengono dal suo modello sono molteplici.

In primo luogo è la stessa rappresentazione tripartita dell’ambito della morale a risultare interessante, con il suo richiamo alla necessità della norma e allo stesso tempo alla sua insufficienza, oltre che al ruolo fondamentale del momento etico che, per quanto debba passare al vaglio della norma, costituisce un riferimento imprescindibile in situazioni di conflitto, proprio perché riporta la morale al senso più profondo dell’etica. Un modello di questo tipo potrebbe portare a ripensare i rapporti tra cura e giustizia, permettendo di difendere l’importanza delle preoccupazioni di giustizia e allo stesso tempo attribuendo alla cura il ruolo di radicare l’etica su uno sfondo pienamente umano, in quanto ricco di significato.

In secondo luogo, la sollecitudine di cui parla Ricoeur potrebbe configurarsi come un esempio di buona cura. Di sicuro le analogie tra i due concetti non mancano: si pensi per esempio alla fenomenologia della sollecitudine nei confronti dell’altro sofferente descritta da Ricoeur e caratterizzata dalla dialettica tra dare e ricevere (tra uguaglianza e diseguaglianza), che ricorda da vicino molte descrizioni di una buona relazione di cura. Inoltre, la sollecitudine si presenta allo stesso tempo come una caratteristica spontanea dell’uomo, che sembra definirne la natura ed emerge nelle relazioni interpersonali, e come un elemento dagli innegabili risvolti etici.

Come vedremo, questo legame con l’umano in quanto tale e questa intrinseca

196 Tale mi sembra la proposta di Conte (Conte 2007), per quanto va detto che lo stesso autore ne è consapevole e dichiara esplicitamente di andare con il suo discorso oltre le intenzioni dichiarate di Heidegger.

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dimensione etica caratterizzano in effetti la cura stessa. Infine, è rilevante la distinzione tra la sollecitudine “ingenua”, spontanea e immediata, e la sollecitudine “critica”, che interviene allo stadio della saggezza morale e porta con sé la consapevolezza dell’importanza della norma oltre che la preoccupazione per il valore rappresentato dall’insostituibile singolarità dell’altro. Questa distinzione potrebbe in effetti costituire un utile monito contro l’elaborazione di modelli della cura ingenui e semplicistici.

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