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2. Cura ed etica

2.2 Antropologia e cura

2.2.1 Vulnerabilità e dipendenza

Una delle caratteristiche principali del soggetto presupposte dall’etica della cura è la sua vulnerabilità. Tale proposta morale, infatti, considera fondamentale riconoscere la persona nella sua finitudine e dipendenza.

197 Tale esplicitazione è imprescindibile per C. Viafora (Viafora 2012, p. 91). In effetti, nel volume da lui curato insieme a R. Zanotti e E. Furlan dedicato all’etica della cura (Viafora – Zanotti – Furlan 2007), lo stesso Viafora sottolinea l’importanza di collocare l’etica della cura in una prospettiva antropologica per poterne cogliere a pieno il valore e rafforzarne la dimensione etico-normativa.

198 Mordacci 1996b, p. 73.

199 Ivi, p. 76.

200 Questa è per esempio la convinzione di L. Vanlaere e C. Gastmans (Vanlaere – Gastmans 2007), che sviluppano un’etica della cura legata a un’antropologia relazionale di una specifica tradizione filosofica, il personalismo di Lovanio.

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Questa prospettiva si sviluppa innanzitutto in opposizione a un’altra concezione del soggetto, considerata irrealistica, che lo rappresenta come individuo razionale e indipendente. L’etica della cura intende contrastare tale visione antropologica, dominante in etica dalla modernità in poi, e l’enfasi su razionalismo e individualismo che a essa si accompagnano. Il motivo è che si ritiene tale rappresentazione un’idealizzazione troppo distante dalla realtà dell’esistenza umana, e allo stesso tempo dannosa. Molte autrici201 sottolineano infatti i rischi di presentare come normale, e dunque potenzialmente normativa, l’immagine fittizia di un soggetto isolato e autonomo che poco ha a che vedere con una persona reale. In effetti a partire da tale prospettiva risulterebbero problematiche innumerevoli situazioni del tutto comuni per qualunque soggetto: malattia, debolezza, dipendenza e ogni altra manifestazione della finitudine umana rischiano sia di essere percepite come altrettanti attentati alla pienezza e alla dignità del soggetto, sia di rendere chi le esperisce meno degno della propria umanità. Come si vedrà, è questa seconda conseguenza in particolare a risultare inaccettabile per la prospettiva della cura.

Tutto cambia se si considera l’essere umano prima di tutto come un essere intrinsecamente finito e vulnerabile, in quanto essere che è in un corpo e che è il suo corpo. Questa caratteristica dell’esistenza umana è innegabile e non va messa in secondo piano bensì portata alla luce. Naturalmente non è l’etica della cura a inventare una prospettiva antropologica di questo tipo, che si riconnette a tradizioni ben più antiche, come per esempio il pensiero cristiano.

Inoltre, l’etica della cura – almeno nelle sue formulazioni femministe – non si basa su tesi antropologiche particolarmente dettagliate: ciò che preme è il riconoscimento di alcune caratteristiche di base che possono essere ulteriormente articolate secondo una molteplicità di prospettive. Ed è proprio su queste caratteristiche essenziali che concentrerò l’attenzione. Dunque, come si diceva, l’uomo viene considerato in primo luogo un essere vulnerabile,

201 Per esempio Dodds 2007.

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condizione che con Paul Valadier202 possiamo distinguere da fragilità e precarietà: esperienze analoghe per alcuni versi, ma che si distinguono dalla vulnerabilità in quanto la fragilità rimanda alla possibilità di distruzione dell’ente a cui si riferisce, mentre la precarietà è per sua natura una condizione superabile. La vulnerabilità, invece, è caratteristica intrinseca dell’umano, e in quanto tale insormontabile, non transitoria proprio perché legata all’esistenza di un essere incarnato. Inoltre, essa rimanda alla possibilità di essere feriti, danneggiati, ma non direttamente all’idea della propria distruzione. La vulnerabilità richiama così l’attenzione sulla dimensione della sensibilità, più che della razionalità, dipingendo l’immagine di un essere inevitabilmente vincolato a dei limiti, ma allo stesso tempo provvisto di risorse per affrontarli, proprio perché vulnerabile ma non intrinsecamente fragile.

Questa condizione di vulnerabilità non va condannata, ma allo stesso tempo nemmeno enfatizzata eccessivamente: l’atteggiamento migliore consiste nel suo riconoscimento e nella sua accettazione, onde evitare che essa ci schiacci o che di essa si arrivi a compiacersi203. La consapevolezza della vulnerabilità propria e altrui è infatti la prospettiva che meglio consente di far fronte alle difficoltà che emergono nei momenti della vita in cui la vulnerabilità si manifesta in modo più evidente. Da queste considerazioni inizia a intravvedersi la possibile rilevanza etica della condizione di vulnerabilità, ancor più evidente nel momento in cui si sottolinei il legame tra vulnerabilità e dipendenza.

Dalla condizione di vulnerabilità, infatti, deriva immediatamente la constatazione della non autosufficienza dell’io – specialmente in alcuni momenti della sua vita – e quindi il suo connaturato bisogno “dell’altro e della cura dell’altro”204. In quanto intrinsecamente vulnerabile, l’uomo è intrinsecamente dipendente. Riconoscere questo aspetto è fondamentale per non considerare le situazioni di dipendenza come situazioni in cui l’umanità di un soggetto è in qualche misura diminuita a causa delle sue performance non

202 Valadier 2011, p. 200.

203 Due rischi individuati dallo stesso Valadier (Ivi, p. 205).

204 Palazzani 2012, p. 129.

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all’altezza di un modello normativo che lo vorrebbe pienamente razionale e indipendente. Le autrici femministe, in particolare Kittay, insistono molto su questo tema, sottolineandone il rilievo politico oltre che antropologico e morale.

Se si riconosce che attraversare fasi di dipendenza è una caratteristica intrinseca dell’esistenza umana in quanto vulnerabile, esse devono essere considerate come la norma, e non come un’eccezione scomoda che si tenta di relegare in secondo piano. Ciò porta, per esempio, a un approccio diverso alla disabilità, così come a una maggiore valorizzazione del lavoro di assistenza alle persone bisognose di cure.

Tutto questo deriva dal riconoscimento del fatto della dipendenza umana, contro la finzione che ci rappresenta come individui razionali e indipendenti: “Naturalmente, noi non spuntiamo fuori come persone completamente formate […] lo diventiamo soltanto man mano che emergiamo da un periodo di dipendenza”205. Questa è una realtà antropologica che spesso non viene messa in luce a sufficienza, ma che ha rilevanti implicazioni filosofiche.

In primo luogo la dimensione della dipendenza chiama in causa la dimensione relazionale, perché riguarda una non autosufficienza dell’io che manifesta inevitabilmente il bisogno dell’altro. Nella maggior parte dei casi si tratta però di un legame a doppio senso, per cui sembra corretto parlare di

“interdipendenza”, termine che veicola sia la dimensione della dipendenza, sia della relazionalità.

Inoltre, secondo Kittay, su queste basi è anche possibile fondare una visione più relazionale del concetto di dignità, che la consideri come il riconoscimento di un valore intrinseco dell’altro, valore che emerge e può essere coltivato proprio tramite buone relazioni di cura che “agiscono come un canale che trasmette valore: il valore di chi offre assistenza viene conferito alla persona alla quale ci si dedica”206.

205 Kittay 2003, p. 153.

206 Ivi, p. 157.

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In terzo luogo è interessante mettere in rapporto il concetto di dipendenza con quello di autonomia, iniziando dall’affermare che l’uno non contraddice l’altro. Come osserva anche Paolo Cattorini207, a differenza di quanto spesso si è portati a credere, in realtà dipendenza non è il contrario di autonomia. L’autonomia, infatti, non va concepita per forza in termini di autosufficienza e indipendenza, e riconoscere il valore dell’interdipendenza potrebbe portare a un’idea di autonomia più relazionale, nel senso di una competenza morale che si sviluppa nelle relazioni, non opposta ai legami208. In questo senso, anche e soprattutto le situazioni di dipendenza possono essere occasioni per coltivare la propria autonomia, non solo di vederla mortificata insieme alla propria autosufficienza.

Infine, considerare l’essere umano come intrinsecamente vulnerabile, e a tratti dipendente, porta a individuare l’esperienza della cura come esperienza umana universale in quanto risposta necessaria ai momenti di bisogno: risposta forse non inevitabile, ma in qualche misura comunque connaturata all’esistenza umana visto il sopravvivere della specie – che senza una naturale tendenza all’accudimento non sarebbe stato possibile. Ecco quindi che ci si presenta una tesi metaetica forte: quella di interpretare l’esperienza di cura come un’esperienza universale e allo stesso tempo fondante il nostro atteggiamento morale in quanto esperienza di apertura, condivisione e sollecitudine verso i nostri simili. “Il potere morale specifico […] è legato alla realtà della nostra inevitabile dipendenza e fragilità umana”209 e “la capacità di assistere e curare […] è in se stessa un potere morale specifico, che è a un medesimo tempo la risposta al valore intrinseco di ogni individuo e la sorgente di quel valore”210.

207 Cattorini 2010.

208 Si veda Verkerk 2001.

209 Kittay 2003, p. 153.

210 Ivi, pp. 154-155.

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