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2. Cura ed etica

2.2 Antropologia e cura

2.2.2 Relazionalità

La seconda componente antropologica fondamentale per la prospettiva della cura è l’intrinseca relazionalità dell’esistenza umana. Anche in questo caso essa è proposta in opposizione polemica alla concezione, ritenuta inadeguata, dell’essere umano come individuo isolato. Nelle autrici femministe in particolare, questa concezione relazionale della persona viene presentata all’interno della critica all’individualismo liberale211. Nella prospettiva della cura non ha senso concepire noi stessi prima di tutto come individui distinti e indipendenti che in seguito possono formare relazioni con altri individui. Al contrario, siamo persone che si costituiscono prima di tutto attraverso le relazioni e attraversando fasi di dipendenza. Quindi “il fatto che possiamo pensare e agire come se fossimo indipendenti dipende da una rete di relazioni sociali che rende possibile che ciò avvenga”212. Ogni essere umano è dunque sempre inserito in una rete di relazioni che, pur non plasmandola in modo deterministico, contribuisce a formarne l’identità. Questa prospettiva dovrebbe restituire un’immagine più veritiera e allo stesso tempo più piena sia dell’essere umano sia delle società in cui vive, poiché si basa su un modello non contrattualistico delle relazioni. Infatti, uno dei principali rischi dell’individualismo astratto è di proporre un soggetto di fatto sradicato dai fattori di costituzione della sua stessa soggettività, astratto al punto di rasentare il vuoto213. Invece, proprio valorizzare la concretezza delle situazioni in cui è radicato permette di restituirgli pienezza.

È opportuno precisare che per quanto questo richiamo all’inevitabile relazionalità umana possa essere fondato in riferimento al bisogno di cura che emerge dalla condizione di vulnerabilità e dipendenza – portando quindi a una relazionalità concepita essenzialmente come interdipendenza – essa va intesa in

211 Si veda Held 2006, pp. 13-14.

212 Ivi, p. 14.

213 Una preoccupazione simile è espressa, a partire da un diverso background filosofico, anche da Paul Valadier nel suo saggio Democrazia di cittadini senza “Sé”?

(Valadier 2003b).

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senso più ampio. Infatti, nonostante l’enfasi sulle relazioni di cura, le autrici femministe tramite il riferimento alla relazionalità umana vogliono veicolare un’immagine più realistica del soggetto morale, nei suoi legami con interessi particolari, relazioni concrete, sentimenti. Le relazioni prese in considerazione non sono quindi solo le relazioni di cura legate al bisogno, ma tutte le relazioni in cui la vita umana si esplica.

Inoltre, va detto che questa concezione relazionale dell’uomo non è assolutamente interpretata come contraria all’idea di un’autonomia del soggetto. Come in parte anticipato trattando della vulnerabilità, secondo la prospettiva della cura è infatti possibile ripensare lo stesso concetto di autonomia in termini meno rigidi e individualistici. In particolare, in seguito alla pubblicazione di un volume collettivo sul tema nel 2000214, si è diffuso nel dibattito il riferimento alla cosiddetta “autonomia relazionale” (relational autonomy). Questa espressione non si riferisce a una specifica concezione di autonomia, ma abbraccia diversi tentativi di riconcettualizzare l’autonomia in modo non eccessivamente individualistico e razionalistico, a partire dalla

“convinzione che le persone siano socialmente radicate e che le identità degli agenti si creino nel contesto di relazioni sociali e si formino in base a un complesso di fattori sociali combinati, come razza, classe, genere, ed etnia”215. Il punto di partenza è dunque l’insoddisfazione nei confronti della versione di autonomia più diffusa, incentrata sull’idea di autodeterminazione, insieme al riconoscimento dell’importanza del concetto stesso. La tesi delle curatrici è che nessuna delle critiche oggi rivolte all’autonomia giustifichi un rifiuto del concetto di per sé, ma piuttosto che esse indichino la necessità di ripensarlo.

Questo ripensamento dovrebbe avvenire attraverso una concezione più completa dell’agente autonomo, in quanto l’autonomia dovrebbe essere pensata come “una caratteristica di agenti che sono creature emotive, incarnate,

214 A cura di C. Mackenzie e N. Stoljar, dal titolo Relational Autonomy. Feminist Perspectives on Autonomy, Agency, and the Social Self (Mackenzie – Stoljar 2000).

215 Ivi, p. 4.

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desideranti, creative e sensibili, oltre che razionali”216. Inoltre, sia l’agente che le sue capacità andrebbero concepiti in termini relazionali. Per quanto manchi un modello di autonomia relazionale condiviso, in generale si può affermare che un’autonomia di questo tipo potrebbe essere concepita essenzialmente come una capacità del soggetto, che si esplica e si sviluppa anche e soprattutto all’interno di relazioni – e, molto spesso, proprio grazie a esse.

La prospettiva della cura è dunque caratterizzata da quella che con Pettersen217 potremmo definire un’ontologia relazionale. Per quanto gli approcci legati alla cura siano tutti caratterizzati dall’enfasi sulla natura relazionale del soggetto, manca la condivisione di un’interpretazione più puntuale di questa stessa relazionalità. Ancora una volta emerge il carattere di impresa collettiva dell’etica della cura, che manca di una formulazione univoca, ma consiste in un tipo di approccio alla morale incentrato intorno ad alcune tesi di base, che viene ripreso da molti autori in tutto il mondo a partire da tradizioni filosofiche diverse. Così anche la tesi della relazionalità può essere ricondotta a diversi modelli dell’interazione umana: Eva Skærbæk218, per esempio, la interpreta a partire dall’etica dell’interdipendenza ontologica di Løgstrup; Per Nortvedt219 la ricollega all’etica metafisica di Lévinas; mentre Linus Vanlaere e Chris Gastmans220 utilizzano la tradizione personalista di Lovanio nelle versioni di Janssens e Selling. Non intendo qui soffermarmi su questi modelli; ciò che mi premeva era semplicemente mettere in luce gli aspetti principali della tesi condivisa e allo stesso tempo sottolinearne l’apertura a molteplici letture. Certamente, però, dedicarsi a un ulteriore approfondimento della dimensione antropologica – e ontologica – della relazionalità potrebbe essere una strada utile da percorrere per far progredire la riflessione sulla cura.

216 Mackenzie – Stoljar 2000, p. 21.

217 Pettersen 2011.

218 Skærbæk 2011.

219 Nortvedt 2003.

220 Vanlaere – Gastmans 2007.

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