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2. Cura ed etica

2.1 Breve genealogia della cura

2.1.1 La cura nella Roma antica

Il primo contesto di elaborazione del concetto di cura considerato da Reich è l’antica Roma. Il termine latino cura convogliava in sé due significati diversi e in contrasto tra loro: da un lato indicando preoccupazione, ansia;

dall’altro definendo l’azione di provvedere al benessere altrui e quindi un’attitudine alla devozione e alla sollecitudine. La connotazione negativa della

128 Manzoni A., I promessi sposi, Archimede Edizioni, Milano 1993, p. 24.

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cura si ritrova per esempio nell’Eneide, in cui Virgilio pone la cura tra le personificazioni che Enea incontra sulla soglia del regno di Ade:

“Davanti al vestibolo, e proprio sulla bocca dell’Orco, / il Pianto ha posto il suo covo e i vendicatori Rimorsi [ultrices Curae], / i pallidi Morbi v’han casa e l’isterilita Vecchiezza, / la Paura e la Fame dal mal consiglio e, brutto, il Bisogno, / fantasmi a vedersi terribili, e la Morte e l’Affanno: / poi, fratello alla Morte, il Sonno e gli impuri Tripudii / del cuore, e sopra la soglia la Guerra, che semina morte: / e i ferrei talami delle Furie e la pazza Discordia, / che annoda i serpenti del capo con bende cruente”129.

Il termine cura, qui usato al plurale, rivela una connotazione palesemente negativa in quanto Virgilio lo inserisce all’interno di un elenco dei mali che affliggono l’umanità, insieme a vecchiaia, guerra, paura, fame e morte. Il significato a cui rimanda è quindi quello di inquietudine, affanno, preoccupazione, ansia; inoltre, Virgilio accosta alla cura l’aggettivo ultrix (vendicatore – spesso usato come epiteto delle Erinni), a evidenziare ulteriormente la dimensione di afflizione a essa legata.

Tuttavia, a questo significato funesto si accompagna un’accezione del termine ben diversa, reperibile per esempio in Seneca, autore di poco successivo a Virgilio130. Seneca considera infatti la cura di sé come un elemento indispensabile del processo di vita che può portare alla saggezza e avvicinare l’uomo a dio. Nelle Lettere a Lucilio Seneca afferma che l’uomo e dio:

“Hanno la stessa natura razionale, ma differiscono perché l’una è immortale, l’altra mortale. Il bene dell’uno, evidentemente quello di dio, è un privilegio della sua stessa natura; il bene dell’altro, cioè dell’uomo, gli deriva dall’opera [cura] sua”131.

La cura di sé raccomandata da Seneca, di matrice stoica, rientra all’interno delle pratiche di vita ben descritte da Michel Foucault in L’ermeneutica del soggetto.

Non è questo il luogo di approfondire la tematica della cura di sé nel pensiero

129 Virgilio, Eneide (VI, 273-281), trad. it. di R. Calzecchi Onesti, Einaudi, Milano 1989, p.

221.

130 Virgilio morì infatti nel 19 a.C., mentre Seneca nacque nel 4 a.C.

131 Seneca, Lettere a Lucilio (124, 14), trad. it. a cura di G. Monti, BUR, Milano 1989, vol.

II, p. 1063.

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antico, basti solo ricordare come per Seneca l’espressione indicasse un impegnativo processo spirituale volto al miglioramento di sé, da proseguire per tutta la vita e necessario a tutti gli uomini. Questo percorso era contraddistinto da una serie di pratiche: esercizi sia fisici sia mentali, accompagnati dallo sforzo di interiorizzare logoi veri in grado di guidare il soggetto nei momenti di difficoltà. Per il mondo romano la cura di sé comprendeva dunque la cura per il proprio corpo e il proprio spirito allo stesso tempo132 e il termine cura poteva indicare un atteggiamento di premurosa sollecitudine e partecipata attenzione verso di sé e verso gli altri ben lontano dalle connotazioni virgiliane.

Questa sostanziale ambiguità del termine si ritrova anche in un mito riportato da Igino, autore vissuto probabilmente all’epoca di Augusto133, chiamato il mito di Cura:

“Cura nell’attraversare un fiume, vide del fango argilloso, lo raccolse pensosa e cominciò a modellare un uomo; mentre stava osservando ciò che aveva fatto, arrivò Giove. Cura gli chiese di dar vita alla statua e Giove la esaudì senza difficoltà; ma quando Cura volle dargli il proprio nome, Giove glielo proibì e disse che doveva dargli il suo. Mentre Giove e Cura discutevano sul nome, intervenne anche la Terra, dicendo che la creatura doveva avere il suo nome, poiché era stata lei a dargli il corpo. Elessero a giudice Saturno, che a quanto pare diede un parere equo: ‘Tu, Giove, perché gli hai donato la vita […] ne riceverai il corpo. Cura, poiché per prima lo ha modellato, lo possegga finché vive; ma visto che è sorta una controversia a proposito del nome da dargli, lo si chiami uomo, poiché è fatto di humus’”134.

Reich si sofferma con attenzione su questo mito, citato come è noto anche da Heidegger, ritenendo che esso possa ben sintetizzare gli elementi principali caratterizzanti la nozione di cura. Nella sua interpretazione egli si basa sulla

132 Si veda a tal proposito la lettera 15, in cui comunque Seneca afferma il primato della cura dell’animo.

133 Di questo parere è per esempio Giulio Guidorizzi, curatore dell’edizione italiana dei Miti, tuttavia tale identificazione dell’autore con Caio Giulio Igino, liberto di Augusto, è molto discussa e vi sono studiosi secondo i quali l’Igino autore dei Miti visse invece nel II secolo d.C.

134 Igino, Miti, a cura di G. Guidorizzi, Adelphi, Milano 2000, p. 136.

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versione di H.J. Rose che – nella sua edizione del testo del 1937 – propone di integrare come segue la lacuna nel testo:

“Giove, poiché gli hai dato lo spirito, [prendi la sua anima dopo la morte; poiché Terra offrì il suo corpo] ch’ella riceva il suo corpo”135.

In base a questa versione Reich ritiene che per quanto nel mito prevalga il significato positivo della cura come sollecitudine, rimanga presente una tensione tra le dimensioni dello spirito (donato da Giove) e del corpo (fatto di terra) che la cura dovrà tenere insieme durante la vita, ma finiranno per separarsi dopo la morte. Tuttavia, ciò che è davvero rilevante nel mito non è tanto questo parziale permanere di un’ambiguità legata alla cura, quanto il ruolo primario che alla cura viene attribuito per la vita umana. Si tratta infatti di un mito delle origini che “presenta un’immagine allegorica del genere umano in cui la caratteristica più importante delle origini, della vita e del destino degli uomini è il loro essere oggetto di cure”136. Il mito assegna dunque alla cura un ruolo primario nella vita umana, il ruolo di plasmare gli esseri umani, farne ciò che sono e possederli per tutta la vita. “In contrasto con l’immagine degli umani perennemente in guerra nella storia hobbesiana, questo mito ci dice che ognuno di noi è figlio della Cura: questa è la nostra identità fondamentale”137. Reich ritiene che il riferimento a questa narrazione fondativa possa contribuire a dar forma a un’etica della cura, radicando la cura nella realtà ontologica degli esseri umani e non nel semplice sentimentalismo.