• Non ci sono risultati.

3. La cura medica

3.2 La medicina clinica come pratica della cura

3.2.1 La medicina come pratica relazionale

Considerare la medicina una pratica essenzialmente relazionale significa richiamare l’attenzione sul fatto che la clinica è un’attività rivolta a delle persone e che quindi il suo oggetto non sono le malattie. Certo la medicina si occupa di malattie, ma il senso di tale interesse risiede nel fatto che le malattie hanno risvolti negativi sulla vita delle persone e per questo si cerca di eliminarle: il medico auspica di poter guarire il suo paziente dalla causa dei suoi disturbi, non semplicemente di distruggere una malattia, cosa di per sé priva di senso. La descrizione dell’attività clinica come relazione di cura permette di individuare nel paziente il vero destinatario delle azioni mediche e così di recuperare l’orizzonte di senso che dovrebbe guidare la pratica medica.

Infatti, una visione più riduttiva della medicina – centrata sul solo riferimento alla malattia – corre il rischio di portare i medici a essere sopraffatti dalle vastissime possibilità di intervento offerte dalla tecnica. Finché si concepisce il proprio operato esclusivamente in termini di lotta alla malattia, non c’è alcun motivo di fermarsi e non tentare tutto il possibile. Invece, rimettere al centro dell’atto clinico il paziente nella sua singolarità permette di interrogarsi sul senso delle procedure che si potrebbero eseguire e sul loro essere proporzionate rispetto ai risultati attesi. Concentrarsi sul proprio paziente nella sua individualità, infatti, dovrebbe portare il medico a vagliare l’appropriatezza di un trattamento in riferimento alle peculiarità del singolo caso, prendendo in esame variabili che vanno al di là di quelle da valutare per arrivare a una decisione corretta dal punto di vista scientifico. L’effettiva

155

considerazione del paziente come protagonista della clinica può quindi fungere da ostacolo a diverse forme di accanimento terapeutico, dalle più palesi alle più sottili, derivanti da decisioni mediche poco ponderate e da una sorta di imperativo interventista che sembra prevalere in alcuni settori della medicina.

Anche da tale esempio emerge come una visione della medicina di questo genere permetta di restituire al medico il senso più profondo del proprio operato. Infatti, lo scopo della pratica clinica non viene più definito solo in negativo, come eliminazione delle malattie, e ciò permette al clinico di considerare le proprie azioni in una prospettiva più ampia del semplice gesto tecnico. A quest’immagine più rassicurante della professione si accompagna però la richiesta di un maggiore impegno da parte del medico: concepire il proprio operato in termini di pratica relazionale implica infatti maggiori responsabilità da parte del curante, che è tenuto a farsi carico del paziente come persona e non può limitarsi a vederlo solo come un caso clinico. In particolare, nella visione proposta, al medico si richiedono competenze relazionali e comunicative oltre alle tradizionali competenze “scientifiche”308, poiché la buona riuscita dell’atto clinico viene a dipendere anche dal tipo di relazione che si instaura tra curante e curato.

Per questo diventa centrale la qualità della comunicazione tra medico e paziente, in quanto essa costituisce lo strumento primario che permette alla relazione clinica di diventare una relazione autentica che valorizzi l’umanità di entrambi i soggetti coinvolti. L’importanza della comunicazione, d’altronde, è stata riconosciuta anche dai medici309 stessi, in particolare in settori in cui ottime capacità comunicative risultano indispensabili, come per esempio

308 Ciò significa che accettare l’immagine della medicina qui proposta dovrebbe portare anche a una riforma dell’attuale sistema di formazione dei medici italiani, che tende a riflettere la sola idea di medicina come scienza. Tra l’altro, un riconoscimento dell’importanza di fornire ai giovani medici competenze non solo strettamente scientifiche costituirebbe un atto di rispetto e tutela innanzitutto nei loro confronti:

infatti, come le autrici femministe sottolineano a più riprese, è giusto che la società si preoccupi di creare le condizioni perché i care-givers possano davvero essere tali.

309 In Italia è stata recepita dal Codice di Deontologia Medica a partire dal 1995.

156

l’oncologia310 (a causa della frequenza di diagnosi infauste nonché del particolare carico simbolico che il cancro ha assunto nella nostra società) e la pediatria311 (settore in cui il medico deve essere in grado di gestire la comunicazione con bambini di diverse età e allo stesso tempo con i loro genitori312). Esistono quindi diversi studi sulle metodologie per comunicare una diagnosi così come una prescrizione, e su quali siano i tempi, i modi e i luoghi più appropriati per farlo. Questi studi richiamano l’attenzione, per esempio, sull’importanza della gradualità313 e della trasparenza314 della comunicazione, sull’opportunità di lasciar modo al paziente di gestire il dialogo in prima

313 “La comunicazione della diagnosi deve essere, più che un evento episodico, il primo passo di un processo comunicativo e di un rapporto che coinvolge l’équipe medica e i membri della famiglia e che cresce e cambia con il tempo” (Burgio – Notarangelo 1999, p. 304).

314 Boyd 1996.

315 “Il malato è soggetto della propria esistenza e non solo oggetto di uno sguardo medico. Lasciamogli dunque l’iniziativa del dialogo. È così che ridiventerà soggetto della propria esistenza nonostante la sua attuale astenia. È così, mettendoci a sua disposizione in un dialogo di cui condurrà il gioco, che lo rimetteremo con più certezza in posizione di soggetto della sua malattia e, alla fine, della sua guarigione” (Malherbe 2003, p. 44).

316 “Il toccare l’altro è un atto medico importantissimo, siccome ha un significato interpersonale. Non ha solo un significato conoscitivo, un significato oggettivante […]

ma è un toccare che è relazione. È un organismo in cui si fa tangibile la persona […] Al momento in cui sono esaminato nel mio corpo cerco nello sguardo del medico di capire qualcosa […] Quindi […] la gestualità, la mimica, tutto il linguaggio non verbale hanno, accanto alla parola, questa valenza enorme, diagnostica e terapeutica” (Callieri 2007, pp. 51-52). Questa citazione mette bene in luce la complessità di dimensioni chiamate in causa dalla pratica comunicativa che, lungi dall’esaurirsi nel dialogo verbale, si nutre di gesti e sguardi – strumenti altrettanto (se non più) efficaci per veicolare il messaggio che si vuole trasmettere al paziente. Proprio per questo, il curante deve essere consapevole che è già a partire dal suo atteggiamento generale nei confronti di un paziente – quindi a partire da elementi apparentemente banali come il modo di rivolgersi al malato, di guardarlo e di toccarlo – che egli gli restituisce

157

competenze comunicative, però, non devono essere solo strumenti che permettono al medico di superare la difficoltà di riferire una diagnosi, ma dovrebbero rappresentare la premessa per l’istituzione di un proficuo dialogo con il paziente per tutta la durata della sua terapia – dialogo che rappresenta la condizione indispensabile per il darsi di un’autentica relazione di cura. Sono proprio le capacità comunicative del medico a rendere possibile che il rapporto medico-paziente si trasformi in un “patto di cura basato sulla fiducia”317 e che l’atto medico diventi “l’atto congiunto di due volontà di guarigione”318, vale a dire un atto sinergico che deriva dall’accordo tra due soggetti che si impegnano per realizzare un’opera comune. Per quanto queste espressioni possano risultare eccessivamente idealistiche e corrispondenti a una minima parte delle relazioni cliniche, ciò non toglie, da un lato, che esse possano rappresentare un ideale a cui tendere e, dall’altro, che un buon dialogo rimanga un elemento imprescindibile in una buona relazione di cura, in quanto necessario affinché il clinico possa rendersi conto del vissuto del paziente e stabilire il modo migliore di aiutarlo. È chiaro che il dialogo, e con esso la cura, richiede al medico un notevole investimento personale, un lavoro su di sé non sempre facile. La tesi qui suggerita è che la difficoltà di tale impegno e le energie che richiede dovrebbero risultare compensate dalla soddisfazione che deriva dall’attribuzione di un significato autentico al proprio operare e dalla crescita personale legata alla consapevolezza del valore etico della professione clinica.

Un’ulteriore caratteristica del modello di medicina come pratica relazionale è il suo ruolo critico nei confronti di alcune tendenze che caratterizzano la pratica clinica occidentale contemporanea. In effetti, considerando la realtà in cui si pratica la medicina clinica, in particolare la realtà ospedaliera, non è difficile individuare diversi fattori che ostacolano pratiche di cura come quelle descritte. A mio parere si tratta di fattori che ostacolano

un’immagine di sé che può essere (o non essere) illuminata dal riconoscimento di un’uguale umanità e dignità.

317 Ricoeur 1996, p. 32 della traduzione italiana.

318 Malherbe 2003, p. 44.

158

l’esercizio della medicina nella sua pienezza, non di elementi costitutivi della medicina stessa, e quindi essi non inficiano la validità del modello proposto, che anzi si presenta come un correttivo nei loro confronti. Mi riferisco in particolare a fattori che rendono difficile coltivare la natura relazionale della medicina, come l’organizzazione ospedaliera, con la sua elevata burocratizzazione e la rotazione del personale; l’elevata specializzazione medica, che rende difficile mantenere la necessaria unità delle cure, rischiando di accentuare la perdita di integrità già esperita dal malato e privandolo di un punto di riferimento; l’utilizzo di tecnologie sempre più sofisticate, che aumenta la sensazione di alienazione e di distacco rispetto al proprio corpo, che si trova a essere sottoposto a trattamenti quanto mai oggettivanti; la cronica mancanza di tempo, che tra le altre cose rischia di ridurre in modo grave la libertà dei clinici di pensare seriamente, vale a dire di riflettere sui fini che si perseguono e sull’adeguatezza dei mezzi utilizzati per raggiungerli319. Questi elementi estrinseci rischiano di aggravare una tendenza intrinseca alla medicina: l’oggettivazione del paziente, per cui “la persona, il soggetto della sofferenza, viene rappresentato come il luogo della malattia piuttosto che come agente narrante”320. Come afferma Jean-François Malherbe, ciò che va condannato non è tanto l’oggettivazione (objectivation) operata dalla medicina, che “consiste nell’astrarre dalla soggettività del paziente e nel guardarlo non come una persona ma come una macchina cibernetica estremamente complessa”321 e che risulta legittima – oltre che necessaria – come fase transitoria dell’operare medico. A essere inaccettabile è invece la reificazione permanente (objectification) del paziente, vale a dire il mancato superamento della fase oggettivante e la mancata restituzione “al corpo che sono di ciò che è stato fatto sul corpo che ho”322. Il superamento di questa fase è evidentemente auspicato dal modello relazionale della pratica medica, che punta a

319 Si veda Malherbe 2003, pp. 98-99.

320 Good 1994, p. 125 della traduzione italiana.

321 Malherbe 2003, p. 34.

322 Ivi, p. 37.

159

incoraggiare elementi di “umanizzazione” che facciano percepire al paziente di essere trattato come un soggetto e, allo stesso tempo, mira a condannare fattori di oggettivazione non necessari. Peraltro tali fattori, da un lato, contribuiscono spesso a una percezione negativa da parte del paziente delle cure ricevute e quindi ad accuse di malasanità e lamentele; dall’altro, derivano per lo più da ragioni di tipo economico, non certo da reali necessità cliniche, e sono per questo passibili di miglioramento. È evidente che non tutti questi fattori oggettivanti possono essere facilmente superati ma, in seguito all’analisi qui svolta – che ha messo in luce la complessità delle dimensioni coinvolte nella relazione di cura –, dovrebbe risultare altrettanto chiara la necessità di intervenire dove è possibile. Tra l’altro in molti casi potrebbero bastare piccole attenzioni che però dimostrino al paziente la sua centralità.

L’immagine della medicina qui difesa si caratterizza inoltre in contrasto ad altri modelli. In particolare, essa è del tutto opposta a visioni di stampo liberale, che propongono modelli contrattualistici del rapporto medico-paziente323. Questa opposizione rispecchia di fatto la contrapposizione più generale tra l’etica della cura e il liberalismo morale e quindi tra un’attenzione alle relazioni umane nella loro complessità e concretezza e un modello di interazione centrato sul libero scambio tra eguali, nonché tra una visione dell’uomo come essere vulnerabile e interdipendente e un’enfasi sull’individuo libero e autonomo. Proprio a causa di queste differenze, la prospettiva della cura risulta molto più efficace quando applicata al contesto clinico, in quanto permette di rendere conto di una relazione inevitabilmente asimmetrica a causa della particolare vulnerabilità di uno dei soggetti, dovuta alla malattia.

Proporre di concepire la profonda umanità del rapporto medico-paziente nei termini di un contratto, invece, finisce inevitabilmente per svilirla, basandosi su un modello del tutto impersonale e legalistico324. Oltre ad apparire riduttivo,

323 Sulle implicazioni del dibattito tra etica della cura ed etica della giustizia per l’etica medica si veda Sharpe 1992.

324 Di questo genere è per esempio il modello proposto da Engelhardt (Engelhardt 1986, 19962). Per il bioeticista americano, infatti, il rapporto medico-paziente si

160

inoltre, il modello contrattualistico risulta una rappresentazione ben lontana dalla realtà clinica per diversi motivi. Non solo esso si basa sulla finzione di una simmetria che nella relazione clinica non esiste e trascura completamente il carico emotivo ed esistenziale che alla malattia si accompagna, ma costituisce anche un modello impraticabile nella misura in cui presuppone che un contratto possa anticipare nei dettagli la complessità del decorso clinico e le innumerevoli decisioni che il medico dovrà prendere. Per quanto dettagliato un contratto possa essere, infatti, esso risulterà sempre insufficiente a tutelare gli interessi del paziente se non si accompagna alla creazione di una relazione di fiducia con il curante. Dunque, basare la liceità delle pratiche mediche esclusivamente sul consenso individuale e svuotare la medicina di qualunque valore sostanziale – compreso il riferimento a un principio di beneficenza – non sembra essere una strategia efficace per assicurare la tutela del paziente. Così come la vita morale, anche la pratica medica necessita di assunti sostanziali che ne definiscano gli obiettivi, assunti che non possono essere sostituiti dall’accordo senza che tale sostituzione porti a perdere di vista la reale natura delle pratiche mediche. Inoltre, stabilire come unico criterio normativo quello del consenso finisce per negare alla tradizione medica, sia deontologica che scientifica, lo specifico valore che le è sempre stato riconosciuto.

Per tutte queste ragioni sembra preferibile un modello di medicina che ne valorizzi la dimensione relazionale e ne identifichi il fine nel prendersi cura del paziente. Una caratterizzazione di questo tipo, infatti, pur lasciando un certo margine discrezionale al medico e al paziente, identifica un criterio di normatività “sostanziale” che permette di attribuire un senso alla pratica configura come un contratto tra due persone che rischiano di essere tra loro stranieri morali, con visioni diverse della medicina derivanti dall’idea di beneficenza che caratterizza la loro comunità morale. Per questo, a livello pubblico l’unico principio che va garantito è quello del permesso: il medico non ha nessun obbligo nei confronti del paziente – se non il rispetto del suo consenso libero e informato – con il quale si trova a negoziare un vero e proprio accordo. L’unica preoccupazione etica è la tutela del diritto del paziente di essere lasciato solo nelle proprie scelte e di decidere cosa fare di sé e del proprio corpo, per il resto tutto è permesso. Come nota W.T. Reich, in questo modo Engelhardt finisce per delineare “un’immagine spoglia, asettica e vuota della medicina come professione che non conosce alcun valore sostanziale” (Reich 1996, p.

235).

161

medica. Quindi, la variabilità che pure viene contemplata da questo modello non rischia di sfociare nell’arbitrarietà, anche perché è legata agli standard etici e scientifici riconosciuti dall’etica professionale. Infine, la considerazione dei valori del paziente e degli standard professionali imposti dalla società permettono di rendere conto della pratica medica in diversi contesti culturali, pur mantenendo il riferimento al fine universale della cura325.

Il modello proposto si avvicina per molti aspetti all’interpretazione della pratica clinica offerta da E.D. Pellegrino e D.C. Thomasma, basata sulla descrizione dell’incontro clinico e sull’idea di medicina come impresa eminentemente morale, governata dal bisogno di aiuto del paziente. La prospettiva morale dei due autori è di stampo aristotelico ed essi attribuiscono grande importanza al carattere del soggetto morale, in questo caso il medico, che si forma attraverso l’azione e deve coltivare alcune virtù326. Sempre in un’ottica aristotelica, per definire la medicina risulta necessario individuare il fine cui essa tende: il bene del paziente327. In seguito a un’analisi dei diversi livelli a cui tale bene può essere concepito e realizzato328, Pellegrino e Thomasma concludono che il fine della medicina consiste nella “azione di cura

325 Un modello di questo tipo dovrebbe anche garantire la possibilità di praticare la medicina in un contesto pluralistico, istituendo relazioni non tra “stranieri morali”

condannati all’incomunicabilità, ma tra esseri umani che possono creare un dialogo autentico e condividere un obiettivo comune.

326 Pellegrino – Thomasma 1993.

327 In questo senso essi riprendono anche la tradizione ippocratica, assegnando un valore prioritario al principio di beneficenza.

328 Come è noto, essi propongono una quadripartizione del bene del paziente (Pellegrino 2005). I due autori individuano infatti quattro livelli in cui si struttura il bene, che sono ordinati in maniera gerarchica. A un primo livello, il più basso, il medico deve puntare a realizzare il bene biomedico del paziente, cercando di ripristinarne la funzionalità fisica. A un secondo livello, invece, entra in gioco la dimensione personale del bene del malato, che chiama in causa la sua concezione di sé e i suoi progetti di vita. A un terzo livello, si deve tener conto di ciò che costituisce il bene umano in generale e quindi tutelare il paziente come persona rispettandone la dignità e l’autonomia. Infine, al quarto livello si situa il bene più importante, quello spirituale, che conferisce alla vita il suo significato ultimo. A causa dell’ordinamento gerarchico, un’azione volta a promuovere il bene del paziente a un certo livello non deve essere in contrasto con il significato che il bene assume a un livello superiore.

162

giusta e buona per uno specifico paziente”329: giusta a livello biomedico, in quanto rappresenta ciò che di meglio la scienza medica può offrire a quel paziente; buona agli altri livelli, in quanto si propone di rispettarli; indirizzata a un paziente specifico330, in quanto il bene da realizzare assume sfumature diverse per ogni malato.

È evidente che le somiglianze tra i due approcci sono notevoli: entrambi valorizzano il punto di vista dei soggetti concreti, immersi in una rete di relazioni e portatori di valori; entrambi considerano la medicina clinica una pratica dall’intrinseco valore morale; entrambi propongono una mediazione tra le conoscenze scientifiche e le specifiche esigenze umane del paziente. In effetti, le due prospettive in linea di principio non sono inconciliabili tra loro e si potrebbe immaginare una loro integrazione331. Per esempio, la stessa idea di cura come attenzione per i disagi e le esigenze del malato potrebbe comprendere la considerazione del bene del paziente nei diversi livelli descritti da Pellegrino e Thomasma. Tuttavia, ritengo che l’individuazione del fine della medicina nel prendersi cura del paziente possa offrire qualche spunto normativo specifico e originale, come si vedrà nel prossimo paragrafo.