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Conclusioni Come trasformare il dato ontologico in ca tegoria politica

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 76-83)

Alberto Pinto

4. Conclusioni Come trasformare il dato ontologico in ca tegoria politica

Le riflessioni degli ultimi anni di Adriana Cavarero e Ju- dith Butler, come abbiamo visto, si sono caratterizzate per un’attenzione crescente nei confronti del tema della vulnerabi- lità umana. Entrambe le filosofe concordano sul fatto che tutti noi siamo dei soggetti che, ben lungi dall’essere indipendenti e autosufficienti, si trovano irrimediabilmente esposti ad una rete di rapporti che ci eccede e che sfugge al nostro control- lo. Tuttavia, sebbene facciano spesso riferimento ad autori e a testi comuni, le due autrici elaborano in modo sensibilmente diverso le implicazioni che possono derivare da un’ontologia sociale incentrata sulla vulnerabilità.

Una prima differenza di fondo tra le due prospettive mi sembra potersi rintracciare nel diverso ruolo che la società e la dimensione del conflitto rivestono nella rispettiva tematizza- zione della vulnerabilità. Cavarero interpreta la vulnerabilità come una condizione di costitutiva esposizione alla violenza e alla cura dell’altro, una condizione sempre inquadrata all’in- terno di uno scenario diadico, in cui c’è un io che si rapporta a un tu. Se la giustizia e la politica, per citare Lévinas, emer- gono quando subentra l’elemento del terzo – quando cioè io non sono più solo responsabile nei confronti dell’Altro, ma nei confronti anche di un terzo, di un quarto, di un quinto uomo, che appaiono accanto al mio prossimo86 –, possiamo dire che

per Cavarero questo momento sembra non giungere mai effet- tivamente, nella misura in cui la cornice in cui la sua riflessione sulla vulnerabilità si inscrive non prevede – o meglio, non pro- blematizza – alcuna società.

Il tema della vulnerabilità è affrontato da Butler con riferi- mento soprattutto alle strutture di supporto sociale che fanno sì che gli individui possano condurre una vita vivibile. Basti

86 P. F. Ciglia, Fenomenologie dell’umano. Sondaggi eccentrici sul pen-

pensare alla distinzione che Butler fa negli ultimi testi tra pre-

carity e precariousness, indicando con quest’ultimo termine la

condizione esistenziale che contraddistingue la vita di ciascuno fin dalla nascita e con il secondo quelle «forme contemporanee di abbandono economico e di privazione derivanti dall’istitu- zionalizzazione delle logiche neoliberiste che sono responsabi- li di una distribuzione differenziale della precarietà»87. In altri

termini, lo sguardo di Butler è rivolto anche alle forme di orga- nizzazione politica – e quindi anche alle condizioni di giustizia – su cui le società umane dovrebbero basarsi per garantire a tutti, per quanto possibile, uguaglianza e interdipendenza.

Una seconda differenza tra le prospettive delle due autrici attiene alla questione del conflitto. Se il conflitto rappresenta una dimensione ineliminabile della sfera politica e se, dunque, le soggettività politiche si costituiscono sempre necessaria- mente in un processo di demarcazione/contrapposizione tra un «noi» e un «loro», allora anche in questo caso mi sembra si possa fare una distinzione tra la prospettiva di Butler e quella di Cavarero. Più che una reale attenzione alla dimensione del conflitto, in Cavarero è presente l’auspicio di un suo supera- mento in favore di un altruismo di cui la relazione materna dovrebbe rappresentare lo scenario paradigmatico: «proprio là dove il patriarcato sembra ancora una volta trionfare, c’è un altruismo che si annuncia come insolito, problematico, persi- no inaudito e tuttavia tangibile nel sorriso distaccato e placido della Madonna Leonardesca»88. È vero che anche la riflessione

di Butler, soprattutto quella post 9/11, ha tentato di rileggere il legame sociale alla luce della relazione costitutiva che il sé intrattiene con l’Altro – anche quando questo Altro ci è nemico e ci muove violenza –, tuttavia, Butler ha, forse, una visione diversa e più complessa della categoria di conflitto.

87 J. Butler, Vita buona e vita cattiva, in Ead., A chi spetta una buona

vita?, cit., p. 28.

Conflitto non è infatti un concetto che va declinato neces- sariamente nel modo in cui lo intende Carl Schmitt, cioè come una lotta mortale tra nemici, dove il nemico è colui che deve essere annientato, ma può essere tematizzata, come suggerisce Chantal Mouffe, anche come una lotta agonistica tra avversa- ri89, dove la posta in gioco è rappresentata dall’affermazione a

livello egemonico del proprio punto di vista90. In tal senso, non

c’è necessariamente una contraddizione tra l’elaborare una ri- flessione sulla vulnerabilità e sulla non violenza91 e allo stesso

tempo riconoscere la dimensione conflittuale della politica92.

Da questo punto di vista Butler sembra auspicare la costitu- zione di nuove forme di conflittualità non-violente, di nuove alleanze proprio tra quelle popolazioni e tra quei gruppi socia- li che sono considerati dispensabili dalla società e dal sistema

89 C. Mouffe, Il conflitto democratico, Mimesis, Milano, 2015, p. 25. 90 L. Bernini, Il vulnerabile e l’inerme: verso una nuova ontologia

dell’umano, “Actas de Jornadas de Jovens Investigadores de Filosofia – Pri-

meira Jornadas Internacionais”, 2010, pp. 307-319.

91 J. Butler, “La non violenza è necessaria ed impossibile. Risposta a Catherine Mills e Fiona Jenkins”, aut aut, 344 (2009), pp. 126-147.

92 Mouffe parla a tal proposito di «conflictual consensus» per indicare quella tipologia di conflitto in cui gli avversari condividono un nucleo mi- nimo di principi, i quali corrispondono ai presupposti normativi delle libe- ral-democrazie contemporanee – ovvero i valori di libertà e di uguaglianza – pur essendo in disaccordo sull’interpretazione e sull’implementazione di quei principi. Non nascondo, tuttavia, alcune perplessità nei confronti del- la prospettiva di Mouffe e della sua distinzione agonismo/antagonismo in quanto tende a mio avviso a circoscrivere preventivamente il campo in cui possono manifestarsi i conflitti. In altri termini, cosa succede se la lotta per l’egemonia viene diretta proprio contro l’orizzonte di senso liberale ritenu- to responsabile di intollerabili rapporti di sfruttamento e di dominazione? O cosa succede se il conflitto avviene tra una fazione che concorda con i principi di libertà e di uguaglianza e un’altra fazione che viene accusata dalla prima di attentare in modo radicale a quegli stessi principi? Per un approfondimento della questione rimando a J. Olson, Friends and Enemies,

Slaves and Masters: Fanaticism, Wendell Phillips and the Limits of Agonism,

in A. Little - M. Llyod (a cura di), The Politics of Radical Democracy, Edin- burgh University Press, Edinburgo, 2009, pp. 158-178.

economico. Queste alleanze continueranno inevitabilmente ad essere caratterizzate da «fratture, fallimenti e da un perdurante antagonismo», il quale, tuttavia, ha il merito secondo Butler di tenere aperta l’alleanza, sospendendo «l’obiettivo di una ricon- ciliazione finale»93.

C’è chi dirà che questa è una visione troppo semplicistica e

naïve della politica dal momento che non tiene conto del vasto

numero di antagonismi che possono esistere all’interno di una società, finendo per banalizzare tanto il processo di costituzio- ne delle identità collettive, quanto l’articolazione di «una cate- na di equivalenze tra una molteplicità di proteste disparate»94.

E sicuramente si può riconoscere da parte di Butler un ecces- sivo ottimismo verso quella che lei stessa chiama la politica del performativo, aspetto questo che, come abbiamo visto, con- traddistingue la riflessione della filosofa americana sin dai suoi esordi. Non basta essere un latino, scendere in strada e cantare l’inno statunitense in spagnolo – per quanto possa essere si- curamente un gesto dal forte contenuto simbolico – per otte- nere la cittadinanza e per essere riconosciuto dagli autoctoni come un cittadino con i medesimi diritti e doveri. E non basta scendere in piazza contro le istituzioni della finanza globale al grido di «Noi siamo il 99%» per incidere concretamente sulle istituzioni politiche ed economiche di un paese.

Tuttavia, rivendicare un diritto è probabilmente anche il primo passo per ottenere il suo riconoscimento95. In Che fine

ha fatto lo Stato-Nazione? a proposito dei migranti latinos,

Butler scrive: «Per legge, loro non hanno il diritto di parlare liberamente per avere il diritto di parlare liberamente. Loro stanno esercitando questi diritti, il che non vuole dire che li

93 J. Butler, Frames of War, cit., p. 148.

94 C. Mouffe, Il conflitto democratico, cit., p. 136.

95 D. Zoletto, “Nel pantano della violenza. Il linguaggio dello Stato- Nazione e le “seconde generazioni””, aut aut, 344 (2009), pp. 148-159.

otterranno […]. Adesso possiamo cominciare a vedere cosa in- tende Arendt quando parla di diritto ai diritti»96.

La lotta per il riconoscimento passa anche da gesti perfor- mativi come questo. Gesti simili ci offrono un esempio di come si possa, anche nel quotidiano, provare a mettere in discussio- ne il potere deterministico delle norme sociali che stanno alla base dei processi di soggettivazione97. In altri termini, lottare

per infrangere o rendere meno rigide le cornici di intelligibi- lità dominanti non è una posa intellettualistica, né un atto di fiducia ingenua nel potere magico del linguaggio, ma si tratta probabilmente della condizione preliminare che offre la pos- sibilità a rivendicazioni, che altrimenti resterebbero invisibili, di uscire allo scoperto. In un mondo dove forse la liberazione finale dal potere non giungerà mai, poiché i soggetti si costitu- iscono ed esistono in quanto tali solo all’interno di relazioni di potere, è proprio grazie ad atti plurali di resistenza come questi che diviene possibile disturbare «quell’acquiescenza che carat- terizza l’accettazione acritica e al contempo la produzione del potere da parte degli stessi soggetti a esso assoggettati»98. Per

qualcuno ciò rappresenterà un «pericoloso quietismo»99, ma la

critica è importante poiché disassoggettarsi da regimi di verità consolidati è il primo passo per intraprendere un cammino di auto-trasformazione. Non a caso, rispetto al movimento delle proteste di piazza, parte della ricerca sociologica empirica ha sottolineato la capacità di queste occupazioni di produrre un cambiamento sulle dinamiche cognitive, affettive e relazionali

96 J. Butler - G.C. Spivak, Che fine ha fatto lo Stato-Nazione?, cit., pp. 63-65; H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2009, pp. 410-411.

97 D. Zoletto, “Nel pantano della violenza”, cit., p. 159.

98 L. Bernini - F. Zappino, Quale futuro per il soggetto Queer?, in J. Butler, La vita psichica del potere, cit., pp. 219-220.

99 M. Nussbaum, Così si manda in fumo la ragione, in E. Ambrosi (a cura di), Il bello del relativismo. Quel che resta della filosofia nel XXI secolo, Marsilio, Venezia, 2005, pp. 146-147.

di coloro che vi prendono parte100, producendo nei fatti nuove

conoscenze, nuove pratiche di vita quotidiana e conseguente- mente anche nuovi valori.

La disobbedienza politica101 messa in atto da questi mani-

festanti si potrebbe dire esprima nei confronti dell’ordine costi- tuito una vera e propria forma di «controdemocrazia»102 che si

rivela essenziale non solo ai fini di un controllo costante dell’o- perato dei governanti, ma anche nella misura in cui permette di costituire nuovi «immaginari di resistenza»103 e nuovi legami

di solidarietà. Di fronte al tentativo di annientare ogni forma di sicurezza sociale operato dal neoliberalismo, questi “perdenti della globalizzazione” hanno il merito di aver smascherato una precisa produzione e organizzazione della verità: quella della cosiddetta dottrina Tina – There is no Alternative – in base alla quale il neoliberismo rappresenterebbe l’unica possibile e ra- zionale modalità di governo dell’esistente104. Se la presa che il

100 D. della Porta, Social Movements in Times of Austerity. Bringing

Capitalism Back into Protest Analysis, Polity Press, Cambridge, 2015, pp.

192-225.

101 A differenza dell’atto di disobbedienza civile, il quale non mette so- litamente in discussione la legittimità delle istituzioni politiche, la disobbe- dienza politica si oppone a quello che Michel Foucault avrebbe definito come il «non essere governati in questo modo e a questo prezzo» (M. Foucault,

Illuminismo e critica, cit., p. 38). Movimenti come quello Occupy infatti non

si oppongono tanto a delle leggi o a delle politiche pubbliche specifiche, come è avvenuto in passato con l’obbligo di leva o le pratiche segregazioniste, ma contestano la razionalità, le strategie, i linguaggi della politica tradizionale, rifiutandosi di stringere alleanze con i partiti presenti nelle istituzioni o di supportare le loro piattaforme programmatiche (cfr. B. E. Harcourt, “Politi- cal Disobedience”, Critical Inquiry, 39, 1 (2012), pp. 33-55).

102 P. Rosanvallon, Controdemocrazia. La politica nell’era della sfiducia, Castelvecchi, Roma, 2012.

103 J. Medina, The Epistemology of Resistance. Gender and racial op-

pression, epistemic injustice and resistant imaginations, Oxford University

Press, New York, 2013, pp. 3-13.

104 J. Butler - A. Athanasiou, Dispossession, cit., p. 149. Una modalità di governance a cui, secondo Butler, è doveroso contrapporre nuove reti “corporee” di supporto sociale. Per un’analisi più dettagliata della proposta

potere ha su di noi è in fondo qualcosa di assai fragile, come già aveva osservato qualche secolo fa Étienne de la Boétie, in quan- to consiste semplicemente nell’abrogazione del proprio pote- re su di sé105, allora forse quello di cui abbiamo bisogno sarà

proprio una politica collettiva di «voluntary inservitude»106;

una micro-politica – quale quella che Butler suggerisce – che ci metta nella condizione di decostruire i modi in cui siamo soggetti al potere economico e politico al livello dei nostri de- sideri, delle azioni che compiamo ogni giorno e delle relazioni che intratteniamo con gli altri.

butleriana si veda F. Castelli, Cosa possono fare i corpi insieme? Intervista

con Judith Butler, in F. Zappino (a cura di), Il genere tra neoliberismo e ne- ofondamentalismo, ombre corte, Verona, 2016, p. 169.

105 É. de la Boétie, Discorso della servitù volontaria (1549), Feltrinelli, Milano, 2015, p. 36.

106 S. Newman, Occupy and Autonomus Political Life, in A. Kioupkio- lis - G. Katasambekis (a cura di), Radical Democracy and Collective Move-

ments Today. The Biopolitics of the Multitude versus the Hegemony of the People, Ashgate, Burlington, 2014, p. 106.

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