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Il vulnerabile e il guerriero

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 52-64)

Alberto Pinto

2. Il vulnerabile e il guerriero

Adriana Cavarero è stata negli anni Ottanta del Novecento tra le fondatrici del pensiero della differenza sessuale italiano, che ha avuto il suo centro propulsivo nella Libreria delle Don- ne di Milano e nella comunità filosofica “Diotima” dell’Uni- versità di Verona. Questa corrente si rifà in maniera esplicita al femminismo francese degli anni Settanta e in particolar modo al lavoro della psicoanalista e linguista belga Luce Irigaray, la quale nel suo celebre saggio Speculum7 del 1974 aveva accusato

6 J. Butler, A chi spetta una buona vita?, nottetempo, Roma, 2013. 7 L. Irigaray, Speculum. Dell’altro in quanto donna, Feltrinelli, Milano, 2010.

tanto la tradizione filosofica occidentale, quanto la psicoana- lisi di essere due trascrizioni teoriche del fallologocentrismo, di quella posizione teorica, cioè, che interpreta la donna come specchio invertito dell’uomo8 e che, nell’identificare la Donna

nella posizione dell’Altro, attribuisce alla polarità femminile tutta una serie attributi negativi. La donna è infatti per il di- scorso fallologocentrico il simbolo del nulla, del vuoto, della materia e della passività, e consente all’Uomo di auto-rappre- sentarsi come soggetto universale, neutro e ordinatore.

Cavarero riprende l’attacco di Irigaray e delle altre espo- nenti del femminismo della differenza francese – come Hélène Cixous e Julia Kristeva – al sapere filosofico e scientifico tradi- zionale9, invitando le donne a diffidare della presunta neutra-

lità del linguaggio e a edificare un proprio universo simbolico che sappia trovare nelle forme non razionali del sapere tradi- zionale, come la mitologia, la letteratura, l’arte, gli strumenti con cui costruire nuovi modelli culturali e nuove genealogie. Cavarero ritiene infatti che l’intera storia della filosofia occi- dentale, da Platone in avanti10, si sia caratterizzata per un du-

plice processo di designificazione della differenza sessuale e di contestuale sussunzione del dato ontologico della corporeità umana all’interno delle categorie astratte e generalizzanti della filosofia.

Il grande crimine compiuto da questa «metafisica degli enti fittizi»11 secondo Cavarero non si è limitato tuttavia a condan-

nare al silenzio solo una specifica categoria umana, ma ha fatto qualcosa di ancora più grave, ha negato fin da principio qual-

8 A. Cavarero - F. Restaino, Le filosofie femministe, Mondadori, Mila- no, 2002, p. 50.

9 A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in Diotima, Il

pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano, 1987, p. 55.

10 A. Cavarero, Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia an-

tica, ombre corte, Verona, 2009.

11 A. Cavarero, A più voci. Filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, Milano, 2003, p. 189.

siasi rilevanza ontologica all’unicità di ciascun individuo, con un’inevitabile svalutazione di qualsiasi elemento – dal sesso con cui nasciamo fino ad arrivare alla nostra personale storia di vita – che fa di noi degli esseri irripetibili e unici, diversi da qualsiasi altro essere umano vivente sulla terra.

Questo processo ha assunto una veste ancora più sinistra ai giorni nostri nel teatro bellico contemporaneo, dove – come nel caso del fenomeno degli attentatori suicidi – si assiste ad un’inquietante «dinamica di soggettivazione»12 che fa sì che

tutti noi rischiamo di essere colpiti da una violenza che irrom- pe prepotentemente nello spazio pubblico e che punta all’an- nientamento simbolico dell’unicità incarnata dell’essere uma- no. Cavarero definisce tale scenario orrorista e non terrorista, proprio per indicare questo meccanismo di derealizzazione tale per cui ciascuno cessa di essere un chi unico ed insostitu- ibile e diventa qualsiasi, cioè, una mera vittima accidentale di morte violenta13.

L’orrorismo secondo Cavarero attiene in primis ad una violenza che punta ad infierire sul corpo, distruggendolo nella sua unità figurale, come nel caso degli smembramenti o delle decapitazioni; in secondo luogo, si tratta di una violenza che viene perpetrata a danno di esseri umani inermi, di soggetti cioè che non hanno alcuna possibilità di rispondere all’offesa che subiscono; infine, la violenza orrorista è una violenza in- sensata, che eccede non solo la morte in sé, ma anche qualsiasi fine che può giustificare la sua attuazione.

Se, indubbiamente, i corpi smembrati e gli arti maciulla- ti costituiscono la scenografia abituale del teatro bellico tan- to dei tempi antichi, quanto di quelli odierni, ciò che secondo

12 O. Guaraldo, Figure di una relazione, in L. Bernini - O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione, ombre corte, Verona, 2009, p. 104.

13 A. Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, Feltrinelli, Milano, 2007, p. 9; M. Andreani, Anatomia politica dell’orrore. La questione

della vulnerabilità e la figura dell’inerme in Judith Butler e Adriana Cavare- ro, in L. Bernini - O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione, cit., p. 59.

Cavarero in entrambe le epoche sembra non essere mai preso in considerazione è il punto di vista di coloro che la guerra e la violenza la subiscono soltanto. In altri termini, all’interno dell’ampia costellazione di definizioni e di studi specialistici sul terrorismo e sulle nuove guerre tecnologicamente guida- te14 sarebbe egemone un preciso modello epistemologico, in-

centrato su quello che Cavarero definisce come «il piacere del guerriero», il quale, individuando l’essenza del politico nella celebre distinzione amico/nemico messa in luce da Carl Sch- mitt negli anni Trenta15, eleva lo «scontro per la vita e la mor-

te» ad unica declinazione possibile della categoria di conflitto, producendo nei fatti un’inevitabile identificazione della politi- ca con la guerra16. A questa cornice di senso militarizzante si

accompagna, secondo Cavarero, una certa tendenza dell’este- tica contemporanea a ricercare nella violenza deliberatamente compiuta su vittime inermi una fonte di investimento erotico, così come testimoniato, ad esempio, dall’opera filosofica di Georges Bataille sulla «contaminazione voluttuosa tra eros e morte»17.

14 Basti pensare al ruolo che i combat-drones rivestono oggi nell’attua- le scacchiere militare, dove diviene sempre più difficile determinare quali siano le responsabilità umane dirette di un dato bombardamento o attacco. Cfr. R. Braidotti, Il Postumano. La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre

la morte, DeriveApprodi, Roma, 2014, pp. 14-15.

15 C. Schmitt, Il concetto di politico (1932), in Id., Le categorie del poli-

tico, Il Mulino, Bologna, 2013, pp. 108-112.

16 O. Guaraldo, Comunità e vulnerabilità. Per una critica politica della

violenza, ETS, Pisa, 2012, pp. 88-89.

17 In particolare, c’è una fotografia, esposta e commentata nell’ultimo lavoro del filosofo francese, Le lacrime di Eros, che disturba Cavarero e di cui pare lo stesso Bataille fosse talmente ossessionato da tenerla sulla pro- pria scrivania. Si tratta di una fotografia databile verso i primi del Nove- cento, che mostra un prigioniero cinese sottoposto al «supplizio dei cento pezzi», il Lingchi, riservato di solito ai crimini più gravi. In esso il con- dannato veniva ucciso lentamente utilizzando un coltello con cui veniva asportata, pezzo dopo pezzo, ogni parte del suo corpo. La vittima della foto in questione appare già senza braccia e in avanzato stato di scorticamento,

Tuttavia, questo non è l’unico modo in cui può essere de- clinata la vulnerabilità. Come ci ricorda Cavarero «irrime- diabilmente dischiuso alla ferita e alla cura il vulnerabile sta tutto nella tensione di questa alternativa»18. La vulnerabilità

può spingere quindi gli altri ad annientarci per sempre o può dare origine ad una relazione di cura e di attenzione etica nei confronti del prossimo. Nel suo ultimo lavoro, Inclinazioni, la filosofa italiana, abbandonando i toni luttuosi di Orrorismo, tenta di leggere il tema della vulnerabilità assecondando que- sta seconda accezione. La vulnerabilità è infatti da un punto di vista etimologico una «questione di pelle», almeno stando ai due principali significati del termine. Il primo rimanda all’idea di uno squarcio dell’epidermide – così come testimoniato dal latino vulnus, che significa «ferita» –, cioè di quel bordo super- ficiale che protegge e separa il corpo dallo spazio esterno e che solo un colpo violento, come quello sferrato dai guerrieri in battaglia, può scalfire; il secondo riconduce il termine vulnus alla radice vel, che allude ad una superficie liscia e nuda e che, evitando rimandi anche indiretti alla figura del combattente, insiste su un’idea di pelle intesa nel senso di un’esposizione as- soluta, proprio come avviene nel caso dei neonati o delle per- sone anziane19. Se leggiamo la vulnerabilità in questo secondo

senso, la violenza del ferire viene meno e lascia emergere «una pelle, tenera e indifesa, che suscita la carezza»20.

Optando per una delle due etimologie, pertanto, scegliamo di rapportarci in modo diverso al tema della vulnerabilità: nel primo caso guardiamo al vulnerabile assecondando un preci-

mentre la testa è rivolta al cielo e ha uno sguardo estatico simile a quello del San Sebastiano del Sodoma. Bataille, nel riferirsi a questa tremenda im- magine, prova addirittura a fantasticare sul partito che avrebbe tratto dalla sua visione il marchese de Sade. Cfr. A. Cavarero, Orrorismo ovvero della

violenza sull’inerme, cit., p. 75; G. Bataille, Le lacrime di Eros, Bollati Borin-

ghieri, Torino, 2004, pp. 230-233.

18 A. Cavarero, Orrorismo ovvero della violenza sull’inerme, cit., p. 42. 19 Ivi, p. 218.

so modello, che Cavarero definisce «teorema della violenza», mutuandolo dall’antropologia hobbesiana21, fondato sulla

transitività della triade vulnerabilità-mortalità-uccidibilità; nel secondo caso, la nuda esposizione dell’inerme diventa invece l’occasione per concettualizzare la vulnerabilità e la dipenden- za come momento di convocazione etica22. Una convocazione

che per Cavarero dà vita ad un orizzonte di senso alternativo a quello imperniato sul nesso causale che lega il vulnus all’ucci- sione e all’omicidio; e che, pur non occultando la dimensione della ferita, guarda ad essa non più come ad un trauma che conduce necessariamente alla morte, ma come ad un’esposi- zione radicale che trova nella carezza il suo possibile risvolto23.

Trovarsi in una condizione di vulnerabilità può quindi anche spingere colui a cui siamo esposti a prendersi cura di noi, “in- clinandosi” rispetto al proprio asse verticale.

Del resto, il titolo di quest’ultima opera di Cavarero prende spunto da un frammento giovanile di Walter Benjamin dedi- cato al concetto di inclinazione (Neigung) nelle opere politico- morali di Kant24. A differenza di Kant, che considerava que-

sta nozione come qualcosa di anti-etico – per Kant il soggetto

21 Nello stato di natura l’omicidio non rappresenta affatto un crimine, in quanto costituisce una conseguenza diretta del bellum omnium contra

omnes. Nella misura in cui gli uomini sono animati da «un perpetuo e in-

cessante desiderio di potere dopo potere, che cessa solo con la morte», l’uc- cisione non solo funge da meccanismo di auto-difesa, ma funziona anche da principio fondativo della categoria politica dell’uguaglianza. Un’ugua- glianza che Hobbes declina nel senso di un’uguale capacità ad uccidersi a vicenda. Cfr. T. Hobbes, Leviatano (1651), Bompiani, Milano, 2001, p. 161; A. Cavarero, Inclinazioni, cit., pp. 112-113.

22 A. Cavarero, Inclinaciones Desequilibradas, in B. S. Tajafuerce (a cura di), Cuerpo, memoria y representación. Adriana Cavarero y Judith

Butler en diálogo, Icaria editorial, Barcellona, 2014, p. 27.

23 A. Cavarero, Inclinazioni, cit., p. 221.

24 W. Benjamin, Gesammelte Schriften, 14 voll., Suhrkamp, Francoforte sul Meno, 1999, vol. VI, p. 55. Cavarero fa riferimento comunque all’inter- pretazione del frammento fornita da Brendan Moran in Eros, Thanatos in

morale non deve cedere infatti alle affezioni esterne né a leggi eteronome –, Benjamin suggerisce invece che proprio l’incli- nazione potrebbe aspirare a diventare, qualora decidessimo di dare un nuovo significato al termine, il concetto supremo della morale. È lecito ipotizzare che Benjamin qui intendesse criticare il modo in cui la tradizione filosofica ha da sempre guardato al fenomeno delle inclinazioni degli esseri umani e contro la cui pericolosità ha pensato bene di predisporre tutta una serie di «dispositivi di verticalizzazione»25 incentrati sul

paradigma rassicurante dell’uomo retto.

Sotto la locuzione generica di «inclinazione» siamo stati in- dotti dalla trattatistica morale a rubricare, spesso utilizzandoli come sinonimi, la vasta gamma di desideri, istinti, predispo- sizioni, temperamenti, che contraddistinguono la vita di tutti gli esseri umani. Tuttavia, sono soprattutto certe inclinazioni a creare fastidi a filosofi e letterati, come quelle inerenti alla sfera sessuale ed emotiva, in quanto vengono percepite come una minaccia all’equilibrio dell’individuo26. Le inclinazioni, del re-

sto, come scriveva Hannah Arendt in Alcune questioni di filo-

sofia morale, ci fanno sporgere all’esterno su oggetti o persone

e «portano fuori» il nostro io27; nel renderci estatici compro-

mettono la nostra postura etica, immaginata dalla tradizione come qualcosa di dritto e verticale. Secondo Cavarero, esisto- no pertanto due diversi paradigmi posturali in ambito etico, a

The Erotic. Approaches to a Cultural Contextualisation, Oxford, Inter-Dis-

ciplinary-Press, Oxford, 2005, pp. 1-5.

25 A. Cavarero, Inclinazioni, cit., p. 8. La seguente espressione è un chiaro rimando al lavoro di Michel Foucault, il quale in Sovergliare e punire descrive minuziosamente le tecniche messe a punto dal potere a partire dal XVII se- colo per raddrizzare la postura dei suoi corpi docili: «si abituano le reclute a portare la testa alta e dritta; a tenersi senza curvare la schiena, a far avanzare il ventre, a far risaltare il petto e rientrare la schiena» (M. Foucault, Sorvegliare

e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 2005, pp. 147-148).

26 A. Cavarero, Inclinazioni, cit., pp. 9-10.

27 H. Arendt, Alcune questioni di filosofia morale, Einaudi, Torino, 2006, p. 39.

cui corrispondono due corrispondenti modelli di soggettivi- tà: il primo, riconducibile ad un’ontologia individualista, è un modello che guarda al soggetto come ad un’entità autoreferen- ziale, coesa, indipendente e razionale; il secondo è un modello, spesso definito all’interno della letteratura femminista come “relazionale”, che insiste invece sugli elementi di esposizione, di dipendenza e di vulnerabilità che contraddistinguono la vita di tutti gli esseri umani. Un modello questo che non si limita per Cavarero a sostituire la categoria di autonomia con quella di relazione, ma che sceglie di immaginare la relazione stessa come qualcosa di primario e costitutivo per il soggetto e che tiene conto del fatto che siamo, volenti o meno, degli esseri che «spesso in circostanze di forte sbilanciamento» si affidano gli uni agli altri28.

Questo modo di concettualizzare la vulnerabilità sembra avere molte assonanze con l’etica del volto di Emmanuel Lévi- nas. Anche Lévinas è convinto infatti che sia la relazione con l’Altro a costituire il soggetto e che sia addirittura impossibile pensare di situare l’io al di fuori di tale rapporto primordiale29.

A ricoprire un ruolo di primo piano all’interno della riflessio- ne del filosofo lituano è la nozione di «volto», la quale serve a spiegare come tutti noi, da sempre, siamo soggetti ad una se- rie di rivendicazioni morali alle quali non possiamo sottrarci. Il volto, secondo Lévinas, è ciò il cui significato consiste nel comandamento del «tu non ucciderai». Esso è letteralmente qualcosa che rifiuta di farsi inglobare dalla mia coscienza e che, mutandosi in «resistenza totale alla presa»30, non si lascia pos-

28 A. Cavarero, Inclinazioni, cit., p. 24.

29 E. Lévinas, Totalità e Infinito, Jaca Book, Milano, 2012, p. 34. Un rapporto che Lévinas tende a declinare, soprattutto nelle opere successi- ve, anche nei termini estremi dell’espropriazione e della persecuzione, ri- marcando in tal modo la precedenza irrecusabile della relazione etica con l’Altro nella costituzione della soggettività. Cfr. E. Lévinas, Altrimenti che

essere o al di là dell’essenza, Jaca Book, Milano, 2006, pp. 123-163.

sedere. Questo volto, che si palesa a me nell’incontro «faccia a faccia», è un volto senza difese, esposto alla morte e all’omici- dio, ma la cui uccisione, al contempo, sembra essermi preclu- sa. Tale epifania è per Lévinas innanzitutto una convocazione, un richiamo ad una responsabilità che mi è antecedente e che non ho mai contrattato e che venendo «prima di ogni liber- tà, prima di ogni coscienza, prima di ogni presente»31 impone

solo il suo adempimento.

Cavarero, pur riconoscendo il proprio debito nei confronti dell’etica lévinasiana, rivendica rispetto ad essa anche dei cru- ciali elementi di differenza, i quali hanno a che vedere sostan- zialmente con due questioni. La prima è l’utilizzo da parte di Lévinas di un linguaggio che continua ad esaltare il «signifi- cato metaempirico della postura eretta»32 – l’Altro, infatti, sta

di fronte a me, accogliendomi nella sua «rettitudine di volto»33

– e che, pertanto, sembra prefigurare una certa simmetria geo- metrica che mal si addice allo scenario della vulnerabilità, dove abbiamo due individui che non si trovano mai in una perfetta condizione di reciprocità. La seconda è data dal fatto che, se- condo Cavarero, Lévinas tende ad assecondare un certo regi- stro linguistico che continua a declinare la vulnerabilità come esposizione all’omicidio e alla morte violenta; ciò sarebbe evi- dente quando Lévinas in Pace e Prossimità – opera su cui anche Judith Butler ha più volte riflettuto34 – prende spunto dall’epi-

sodio biblico di Giacobbe ed Esaù per esporre il dilemma etico che sorge dall’incontro con il volto dell’Altro35. Giacobbe, nel

venire a sapere dell’avvicinarsi imminente del fratello Esaù alla guida di un esercito «si spaventò della sua morte, ma si an-

31 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., p. 16. 32 A. Cavarero, Inclinazioni, cit., p. 193.

33 E. Lévinas, Totalità e Infinito, cit., p. 205.

34 J. Butler, Vite precarie, cit., pp. 131-151; J. Butler, Strade che divergono.

Ebraicità e critica del sionismo, Raffaello Cortina, Milano, 2013, pp. 73-90.

35 E. Lévinas, “Pace e Prossimità”, Lettera Internazionale, 7 (1986), pp. 27-30.

gosciò di dover forse uccidere»36. Per Cavarero è evidente qui

il doppio registro di Lévinas: se da un lato infatti la violenza sembra rinunciare al dominio del conatus essendi per lascia- re spazio ad un un volto che trasmette un’umana e primaria vulnerabilità che si sottrae alla possibilità della mia offesa37;

dall’altro, siamo ancora in presenza di un contesto guerriero dove due soggetti belligeranti si affrontano in uno scontro per la vita e la morte. Il «teorema della violenza» dell’antropologia hobbesiana non verrebbe quindi del tutto abbandonato.

Cavarero, invece, seguendo – e allo stesso tempo estremiz- zando – l’esempio tracciato da Hannah Arendt in Vita Activa, sceglie di fare della nascita e non della morte la categoria cen- trale della propria riflessione sulla vulnerabilità. Tuttavia, per Arendt la nascita non è il simbolo di una vulnerabilità prima- ria e asimmetrica che chiama – o non chiama – alla responsa- bilità, ma rappresenta semmai l’esempio inaugurale di quel- la mutua apparizione che trova poi nell’azione e nello spazio della politica la sua manifestazione più compiuta38. L’evento

natale dunque è per Arendt una figura dell’immaginario che serve ad esprimere la condizione di immanente pluralità degli esseri umani39, la quale costituisce il presupposto necessario

all’esistenza di ogni vita politica. Questo l’ha portata, secondo Cavarero, ad ignorare un aspetto abbastanza ovvio e cioè che la nascita non è una scena di reciproca e orizzontale interdipen-

36 Ivi, p. 29.

37 A. Cavarero, Inclinazioni, cit., p. 224.

38 H. Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano, 2012, p. 7.

39 Come troviamo scritto in La vita della mente, per Arendt infatti «non l’Uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta» (H. Arendt, La vita della

mente, il Mulino, Bologna, 2009, p. 99). La politica, essendo quella sfera

dove gli esseri umani, differenziandosi gli uni dagli altri, mostrano se stes- si, è invitata pertanto a dare risposta proprio a tale condizione plurale: «il mondo, come ogni in-fra [in-between], mette in relazione e separa gli uo- mini nello stesso tempo. La sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda» (H. Arendt, Vita Activa, cit., p. 39).

denza, ma è una condizione sbilanciata di esposizione assolu- ta. Se si vuole fondare dunque sulla categoria della natalità un modello relazionale alternativo a quello proposto dall’ontolo- gia individualista, bisogna per forza di cose considerare il rap- porto che lo scenario natale intrattiene con quello della mater- nità. Secondo Cavarero, infatti, è proprio la relazione primaria tra la madre e l’infante a rappresentare la cornice di senso ide- ale in cui sviluppare l’intuizione di Benjamin sull’inclinazione come concetto fondamentale della morale; è proprio qui infatti che il «vulnerabile per antonomasia» e colei che è chiamata a rispondere alla sua esposizione si consegnano l’uno all’altra, piegandosi rispetto al proprio asse verticale.

Nell’esaminare le potenzialità etiche e simboliche offerte

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 52-64)