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Hans Jonas e il paradigma post-umanista della vulnera-

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 100-109)

Sandra Rossett

3. L’etica “ebraica” della vulnerabilità nel Novecento

3.4. Hans Jonas e il paradigma post-umanista della vulnera-

bilità

Entro una prospettiva universalistica viene proiettata an- che la riflessione che Hans Jonas ha dedicata alla vulnerabilità. Insoddisfatto, come Lévinas, dalla modalità attraverso la quale la fenomenologia husserliana e l’esistenzialismo heideggeria- no avevano affrontato il problema della vita, egli farà ricorso infatti alla vulnerabilità come categoria attraverso la quale for- nire una più adeguata formulazione dell’ontologia e dell’etica filosofica. Allievo di Husserl e di Heidegger a cui è stato fedele nella prima tappa del suo percorso dedicato alla interpretazio- ne della gnosi antica, nella seconda tappa, che coincide con il suo trasferimento negli Stati Uniti, Jonas comprende, a partire dal suo contatto con la cultura scientifica dell’epoca, come l’o- rizzonte di problematizzazione dell’essere non possa più essere concepito nei termini della storicità fondamentale dell’uomo, così come presupposto da Heidegger, e nemmeno nei termi- ni della intenzionalità costitutiva della coscienza umana, così come teorizzato dalla filosofia husserliana. Jonas comincia cioè a porre il problema dell’essere a partire dalla considerazione del fenomeno generale della vita che accomuna gli umani agli altri viventi. Questo obiettivo lo conduce ad interessarsi delle scienze della vita del suo tempo e in particolar modo della bio- logia, sapere al quale dedica una serie di ricerche che culmi- nano nella sua raccolta di saggi del 1966, intitolata The Pheno-

menon of Life35, che sarà ripubblicata in una versione tedesca

ampliata del 197336. In quest’opera Jonas prende le distanze

dal dualismo cartesiano tra res cogitans e res extensa, nella cui eredità si pongono, a suo dire, sia la fenomenologia, sia l’esistenzialismo e individua, come ponte che collega l’essere umano alla natura, il fenomeno della vita organica. Si tratta ai suoi occhi di un fenomeno caratterizzato da una costitutiva libertà che, seppur distribuita in gradi diversi, accomuna tutti i viventi. Nel suo discorso, non l’uomo viene quindi ridotto al livello delle piante e degli animali, così come risulta dal di- scorso darwiniano sulla biologia; al contrario, è l’intera natura che viene vista come partecipe delle forme d’essere tradizio- nalmente attribuite all’umano. In questa valorizzazione non troviamo però nulla della celebrazione ottimistica della vita, tipica delle filosofie della vita otto-novecentesche. Per Jonas il fenomeno della vita è associato, infatti, alla consapevolezza della sua precarietà, dato che esistere significa sempre, sia per l’essere umano, sia per gli altri viventi, essere costantemente esposti alla minaccia della sofferenza e della morte. Scrive in proposito Jonas:

La possibilità del non essere è tanto costitutiva per la vita, che il suo essere in quanto tale è essenzialmente un librarsi sopra que- sto abisso, un costeggiare il suo orlo. Così, l’essere stesso, piutto- sto che uno stato dato, è divenuto una possibilità costantemente offerta, da strappare sempre da capo al suo contrario sempre presente, il non essere, dal quale alla fine viene inevitabilmente inghiottito37.

A questa condizione universale di vulnerabilità, in cui risuona l’eco delle lucide analisi di Schopenhauer, e che fornisce con- tinuità alle ontologie dell’essere “scisso” e “mancante” nel cui solco si pone la riflessione degli autori che stiamo consideran-

36 Sull’edizione tedesca del 1973 è stata fatta, nel 1999, la traduzione italiana del testo di Jonas: Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica (1973), a cura di P. Becchi, Einaudi, Torino, 1999.

do, Jonas fa corrispondere un’etica della responsabilità estesa all’intero ambito del vivente. L’argomentazione ‒ presente in

The Phenomenon of Life, dove si legge che «solo un’etica fonda-

ta sull’ampiezza dell’essere e non esclusivamente sull’unicità o singolarità dell’uomo può avere importanza nell’universo delle cose»38 ‒ viene compiutamente sviluppata nel libro del 1979 Il

principio responsabilità in cui Jonas afferma l’esigenza di am-

pliare la portata del principio di responsabilità, di cui intende rinvenire il fondamento e le strategie attuative, all’intera natu- ra: «[…] l’agire umano si è de facto modificato […] un oggetto di ordine completamente nuovo, nientemeno che l’intera bio- sfera del pianeta, è stato aggiunto al novero delle cose per cui dobbiamo essere responsabili, in quanto su di esso abbiamo potere»39.

Con la tematizzazione della responsabilità come forma di coinvolgimento intersoggettivo che non riguarda soltanto l’es- sere umano ma anche le altre manifestazioni del vivente, Jonas recupera tutte le potenzialità del pensiero schopenhaueriano e prospetta questioni e problemi che sono stati ripresi e sviluppa- ti anche dal paradigma post-antropocentrico e post-umanista dell’animalismo novecentesco. In Lévinas e Butler il discorso resta invece bloccato entro i confini di una riflessione troppo angustamente umanista, non interessata ad argomentare sul fronte delle implicazioni antispeciste a cui la categoria della vulnerabilità conduce e rimanda. Della prossimità tra l’esse- re umano e gli altri viventi si accorge infatti Lévinas quando, ad esempio, in Altrimenti che essere scrive che «L’io incarnato ‒ l’io di carne e di sangue ‒ può perdere la propria significa- zione, può affermarsi animalescamente nel proprio conatus e nella propria gioia. È un cane che riconosce come padrone Ulisse che viene a prendere possesso dei suoi beni»40, ma per

38 Ivi, p. 306.

39 H. Jonas, Il principio responsabilità (1961), Einaudi, Torino, 1993, p.10.

l’autore “questa condizione della vulnerabilità stessa” invece di essere un dato a cui porre la necessaria attenzione risulta essere “un’ambiguità insuperabile” di cui ci si deve sbarazzare per non intralciare il percorso di riconfigurazione dell’essenza dell’umano.

Rispetto a Lévinas, Butler fa un passo in avanti. In un’in- tervista da lei rilasciata a due attivisti e teorici della liberazio- ne animale, alla domanda se agli umani e agli animali debba essere riconosciuta una medesima dignità, l’autrice risponde infatti con queste parole: «gli animali sono esseri sensuali, la cui sofferenza ed esistenza sono percepibili attraverso il suono e il movimento; gli animali, pertanto, possono ‒ e di fatto lo fanno ‒ esprimere una medesima [rispetto all’essere umano] proibizione ad uccidere»41. Un medesimo giudizio è stato for-

mulato dall’autrice in un’altra intervista42 e in alcune riflessioni

della sua opera Frames of War dove sostiene che «l’“ontologia” dell’umano non è separabile dall’“ontologia” dell’animale. Non si tratta semplicemente di due categorie che vengono a sovrapporsi, ma di una co-costituzione che implica la necessità di riconcettualizzare l’ontologia della vita stessa»43. Si tratta di

affermazioni importanti rispetto alla possibilità di utilizzare i significati della vulnerabilità in un senso universale che coin- volga tutte le forme di vita44. Ma, in realtà, la riflessione butle-

riana è rimasta circoscritta entro la formulazione di un’etica

41 M. Filippi - M. Reggio (a cura di), Corpi che non contano. Judith

Butler e gli animali, Mimesis, Milano-Udine, 2015, p. 23.

42 P.P. Antonello - R. Farneti, “Antigone’s Claim: A Conversation with Judith Butler”, Theory & Event, 12, 1 (2009).

43 J. Butler, Frames of War: When is Life Grievable, Verso, London, 2009. Per la traduzione del brano citato, cfr. M. Filippi - M. Reggio (a cura di), Corpi che non contano, cit.

44 Per questo motivo il pensiero di Butler è stato preso recentemente in considerazione dai teorici della liberazione animale come un paradigma importante nella operazione decostruzione delle barriere presenti tra la vita umana e la vita degli altri animali (cfr. M. Filippi - M. Reggio (a cura di),

antropocentrica incapace di tematizzare in modo sistematico la vulnerabilità degli altri viventi e le forme di violenza e di do- lore che ne sono conseguite. Richard Iveson nel suo saggio Sce-

ne domestiche e di specie45 attribuisce questo problema ad una

sua sudditanza eccessiva all’umanesimo di Lévinas. Un uma- nesimo che ha avuto un ruolo preponderante nella riflessione butleriana degli anni Novanta tesa, come si è visto, a mettere in luce il ruolo della norma eterosessuale nella produzione e nella negazione di ciò che è conforme all’umanità. Ometten- do di rilevare come alla base dell’operatività di questa norma vi sia una dicotomia più originaria ancora, quella che istitu- isce la contrapposizione tra umanità e animalità, Butler non comprende infatti la natura dei processi di discriminazione e di esclusione, che funzionano tutti secondo le logiche dell’an- tropocentrismo specista, il quale, quando vuole svalutare e discriminare, finisce sempre per “animalizzare”46. L’animale

è da sempre sinonimo di irrazionalità, di male, di disordine; caratteristiche, queste, tradizionalmente usate per contrasse- gnare anche le identità umane soggette al dominio: le “razze” definite inferiori, le donne47, le identità queer, i disabili. Questa

45 R. Iveson, Scene domestiche e questione di specie, in M. Filippi - M. Reggio (a cura di), Corpi che non contano, cit., p. 67.

46 Una traccia evidente dell’operatività di questo modello è presente nel lessico quotidiano dove molteplici e numerosi sono gli esempi che vi si riferiscono: “essere trattati come cani”; “essere messi a morte come animali in un macello”, “essere picchiata come una bestia”, ecc.: espressioni attra- verso le quali ci si contrappone alle forme di trattamento disumanizzante degli umani senza però mettere contemporaneamente in discussione la violenza attraverso la quale viene gestita la relazione con gli altri viventi.

47 È stata, in particolar modo, una delle correnti del femminismo no- vecentesco, l’ecofemminismo, a mettere in luce l’operazione attraverso cui il patriarcato ha animalizzato la donna; sulla base di questo rilievo, le eco- femminste hanno ritenuto che la lotta contro l’androcentrismo dovesse es- sere combattuta in parallelo con quella contro l’antropocentrismo (cfr. C.J. Adams, The Sexual Politics Of Meat, Continuum, New York, 1990; Ead.,

Ecofeminism and the Eating of Animals: feminism and the defence of ani- mals, Black Powder Press, Sacramento, 2000; C.J. Adams - J. Donovan (a

stessa omissione è presente anche nel pensiero butleriano più recente, affidato alle pagine di Vite precarie, in cui non vi è spa- zio per la considerazione degli animali non umani e dei lutti forclusi e negati che vi si collegano48. Butler non è stata cioè ca-

pace di comprendere e tematizzare i meccanismi di potere e le gerarchie che si nascondono dietro la polarizzazione umano/ animale; una polarizzazione che è necessario “denaturalizzare” con la stessa forza e con la stessa determinazione da lei utiliz- zata nel mettere in discussione la norma eterosessuale49.

Questa è la direzione presa dal pensiero animalista che si è andato affermando nella seconda metà del Novecento e il cui obiettivo è stato di superare il grande salto e la radicale diversità ontologica a partire dalla quale è stata pensata la re- lazione tra gli umani e gli animali. Queste filosofie compren-

cura di), Animals and Women: Feminist Theoretical Explorations, Continu- um, New York, 1995).

48 Anche il ben argomentato libro di Olivia Guaraldo, Comunità e

vulnerabilità. Per una critica politica della violenza (Ets, Pisa, 2012), teso a

riconfigurare l’idea di comunità sulla base dell’esperienza della perdita e del lutto, omette di prendere in considerazione le forme spesso molto dolorose di lutto che si legano alla perdita degli animali amati; lutti non tollerati dalla nostra società, che si dimostra ancora indisponibile ad equiparare il dolore che deriva dalla morte di un animale a quello causato dalla di un congiunto. Prende invece le mosse da questo problema il saggio di James Stanescu, Questione di specie. Judith Butler, il lutto e le vite precarie degli

animali (in M. Filippi - M. Reggio (a cura di), Corpi che non contano, cit.,

pp. 27-45) che, partendo dalla tematizzazione butleriana dedicata al lutto negato, intende definire le linee di una comunità inter-specista in cui anche gli animali possano trovare un posto adeguato.

49 Un discorso a parte merita Simone Weil che, anche se nei suoi libri non ha mai affrontato in modo organico, al pari di Lévinas e di Butler, il problema della vulnerabilità dei non umani, di fatto ha vissuto una forma radicale di non violenza alimentare verso gli altri esseri viventi: ha rifiutato sin da bambina di nutrirsi di carne e una volta adulta ha ridotto al minimo le esigenze di cibo, sino a divenire anoressica. Ha praticato cioè un regime alimentare che sembrava voler tendere alla imitazione delle forme di non violenza degli organismi autotrofi, come le piante, che vivono nutrendosi soltanto di sostanze inorganiche.

dono sia una componente più radicale, post-antropocentrica e post-umanista ‒ che attraverso il pensiero di teorici antispe- cisti come Peter Singer50 e Tom Regan51 applica il postulato di

un’eguaglianza universale52, sul piano dei diritti, estesa anche

ai non appartenenti alla specie umana ‒ sia una componente più moderata53 che, pur non mettendo in discussione la pre-

minenza dell’interesse intraspecifico e l’umanesimo a cui esso si riferisce, ritiene che sia necessario bilanciare la responsabi- lità etica verso gli umani con quella che deve essere garantita alle altre specie esistenti54. A questo secondo filone ‒ in cui la

tematica relativa al trattamento degli animali viene ricompre- sa nel più ampio dibattito su rapporto uomo-ambiente ‒ ap- partiene l’ultima tappa del pensiero di Hans Jonas che, così come afferma anche Paolo Becchi55, nonostante insista su di un

nuovo rapporto con la natura, non nega le prerogative speciste dell’essere umano, chiamato ora a farsi carico non solo di se stesso, ma anche del mondo e degli altri viventi.

50 P. Singer, Liberazione animale. Il manifesto di un movimento diffuso

in tutto il mondo (1975), Il Saggiatore, Milano, 2015. Fin dalla sua prima

pubblicazione nel 1975, Animal Liberation di Peter Singer è diventato una sorta di manifesto del movimento animalista, in quanto ha rivelato a milio- ni di persone le atroci sofferenze impartite dagli esseri umani agli animali, con particolare riguardo alle industrie alimentari e cosmetiche.

51 T. Regan, Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali (2004), Sonda, Casale Monferrato, 2009. Anche quello di Regan è uno scioccante libro di denuncia degli abusi subiti dagli animali e di smascheramento della retori- ca del “trattamento umano” sostenuta da chi sfrutta gli animali.

52 Cfr., per un approfondimento del rapporto che i filosofi della tra- dizione occidentale hanno avuto con gli animali, G. Ditadi (a cura di), I

filosofi e gli animali, Isonomia, Vicenza, 1994.

53 Cfr. M. Midgley, Perché gli animali. Per una visione più umana dei

nostri rapporti con le altre specie (1983), Feltrinelli, Milano, 1985; J. Pas-

smore, La nostra responsabilità per la natura (2004), Feltrinelli, Milano, 1991.

54 Sul confronto tra animalismo radicale e animalismo moderato, cfr. L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Laterza, Roma-Bari, 1997, pp. 35-51.

55 P. Becchi, La vulnerabilità della vita. Contributi su Hans Jonas, La scuola di Pitagora, Napoli, 2008.

Questi diversi orientamenti del filone animalista ‒ a cui corrispondono strategie di intervento spesso in disaccordo tra loro, come ad esempio la pratica del riconoscimento dei di- ritti agli animali ‒ trovano un filo conduttore nel medesimo scavo ontologico adottato, teso a valorizzare la natura carna- le e sensibile dei viventi e a prevedere forme di responsabilità con cui fronteggiare la vulnerabilità che ne consegue. Siamo di fronte ad un discorso di valorizzazione dell’uguaglianza, dove però non si tratta di eguagliare l’individualità ritenuta inferio- re a quella superiore, così come è stato prospettato da alcuni pensatori animalisti che sono andati alla ricerca, negli animali, delle prove della loro intelligenza, al pari di come le femmini- ste della prima ondata sono andate alla ricerca delle prove che dimostravano il possesso da parte delle donne della ragione. In contrapposizione alle filosofie orientate a valorizzare la dif- ferenza56, le filosofie post-umaniste e post-antropocentriche

della vulnerabilità ritengono che l’allentamento dei rapporti di dominio e di prevaricazione debba necessariamente percorre- re la via dell’eguaglianza, ma esse lavorano su un concetto di eguaglianza ottenuto teorizzando una “posizione originaria”, in cui gli animali e gli uomini sono considerati soltanto come creature senzienti, passibili di provare piacere, dolore e soffe- renza, indipendentemente dalla specie a cui appartengono57.

In tale situazione di eguaglianza diventa allora ragionevole,

56 Anche il pensiero animalista ha elaborato un filone di pensiero della differenza. Cfr., ad esempio Luisella Battaglia, la quale ritiene che il rispetto verso i non umani “debba fondarsi su una filosofia della diversità che riconosca e garantisca il rispetto dei non umani in quanto tali e non in quanto umanizzabili, o aspiranti all’umanità” (L. Battaglia, Etica e diritti

degli animali, cit., p. 57).

57 Questo argomento è utilizzato anche dal filosofo Donald Vandeve- er (“Animal Suffering”, Canadian Journal of Philosophy, 10, 3 (1980), pp. 463-471) per rivedere e aggiornare la teoria contrattualistica di Rawls, in modo tale da ipotizzare una situazione in cui i contraenti del patto sanno solo di essere creature senzienti a cui potrebbe toccare in sorte di essere un cane, una cavia, un maiale.

così come gli animalisti asseriscono, l’accettazione del princi- pio per cui nessun essere senziente dovrebbe venir trattato in modo da avere una vita non degna di essere vissuta. Si tratta di un principio universale di uguaglianza ricavato facendo leva su un livello minimo, la natura carnale dei viventi, un livello che però è sempre in gioco ed è al contempo decisivo quando si tratta di stabilire le condizioni che rendono vivibile una vita. Nella valorizzazione di questo principio è possibile individua- re il filo conduttore che mette in comunicazione e consente di approntare forme di condivisione tra umanesimo58 e post-

umanesimo della vulnerabilità, correnti di pensiero di cui è necessario tenere conto per aggiornare e traghettare il discorso sui diritti oltre le secche della crisi attuale59.

58 Anche una filosofa “umanista”, vicina al liberalismo politico, come Martha Nussbaum ha cominciato a tenere conto, nella sua riflessione eti- ca, della categoria della vulnerabilità, e nel farlo ha sentito l’esigenza di avviare un discorso sui diritti che devono essere riconosciuti agli altri vi- venti. Un’intera sezione del suo libro Le nuove frontiere della giustizia (M. Nussbaum, Le nuove frontiere della giustizia (2006), il Mulino, Bologna, 2007, pp. 341-424) è dedicata infatti alla «giustizia verso gli animali non umani».

59 Così come suggerito dallo stesso atto fondatore del partenariato globale tra l’Unione europea e i paesi del Sud del Mediterraneo, la Dichia- razione di Barcellona, nella quale la vulnerabilità viene menzionata come uno dei quattro punti attraverso i quali aggiornare il discorso occidentale sui diritti per renderlo compatibile con la sfide della bioetica e delle biotec- nologie.

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 100-109)