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Quando la vulnerabilità non è equamente distribuita

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 64-76)

Alberto Pinto

3. Quando la vulnerabilità non è equamente distribuita

Judith Butler viene da tutt’altra corrente femminista. Il fi- lone a cui va ascritta – sebbene Butler non manchi di polemiz- zare anche contro questa tradizione di pensiero – comprende pensatrici per le quali il femminile è sostanzialmente una co- struzione storico-culturale, che non ha una propria essenza, se non nella forma di una subordinazione della donna rispetto all’uomo, la quale, ad ogni modo non ha nulla di naturale44.

Un simile modo di declinare la differenza sessuale potrebbe essere fatto risalire a Simone de Beauvoir e al suo famosissimo

Il secondo sesso. La tesi principale di Beauvoir in quest’ope-

ra è che la donna, pur avendo teoricamente la stessa libertà dell’uomo, si è trovata ad occupare nella storia, più o meno con complicità, il ruolo del secondo sesso; ad essa, dunque, da un lato, è preclusa la via della trascendenza, cioè della dimensione progettuale e trasformativa del mondo, dall’altro, resta solo la via dell’immanenza, cioè dell’accettazione passiva della realtà sociale in cui vive45. Beauvoir afferma così polemicamente che

«Donna non si nasce, lo si diventa»46, intendendo sottolinea-

re come nessun destino biologico possa determinare a priori quale ruolo la donna andrà a rivestire nella società. Donna è un’idea storica, un’incorporazione di possibilità culturalmente determinate, non un dato naturale; ed essere donne significa solo aver costretto il proprio corpo a conformarsi ad uno spe- cifico ideale normativo che le vuole subordinate agli uomini. Se la donna non è nata donna, ma lo è diventata, ciò vuol dire che essa può cessare in qualsiasi momento di esserlo, emanci- pandosi dalla propria condizione di inferiorità.

44 O. Guaraldo, Figure di una relazione, in L. Bernini - O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione, cit., p. 92.

45 A. Cavarero - F. Restaino, Le filosofie femministe, cit., pp. 23-25. 46 S. de Beauvoir, Il secondo sesso (1949), Il Saggiatore, Milano, 2012, p. 271.

Alcuni motivi teorici della riflessione teorica di Beauvoir vengono rielaborati dal femminismo della seconda ondata e in particolare da quelle autrici che per prime hanno affronta- to pubblicamente tematiche connesse al lesbismo, come Gayle Rubin, Adrienne Rich e Monique Wittig. È proprio quest’ul- tima ad aver arricchito l’apparato teorico di Beauvoir pubbli- cando nel 1981 Non si nasce donna47, il cui titolo è un chiaro

riferimento all’opera della filosofa esistenzialista. In questo testo Wittig sostiene che la discriminazione prodotta dalla nozione di sesso si sviluppa all’interno di un sistema politico e linguistico – il pensiero straight – che produce una discon- tinuità nel continuum dello spazio sociale, istituendo alcune differenze «come marchi differenti dalle altre differenze»48.

Nello specifico, secondo Wittig, il pensiero straight concepisce il sesso come qualcosa di naturale e diadico. La demarcazione della differenza tra uomo e donna non è quindi per la poetes- sa francese qualcosa di antecedente all’interpretazione che si dà di tale differenza, ma è un atto gravido di assunzioni nor- mative. Parlare di differenza sessuale equivale in altri termini a produrre quella stessa differenza, finendo così per rendere l’eterosessualità una necessità ontologica e, contestualmente, per trasformare gli organi sessuali umani in «indicatori privi- legiati» dell’identità sociale dei soggetti49.

Butler riprende le intuizioni di entrambe le filosofe arri- vando a sostenere che se il sesso è da tutti considerato un dato pre-sociale la colpa è da imputare a quel framework di norme

47 M. Wittig, “One is Not Born a Woman”, Feminist Issues, 1, 2 (1981), pp. 47-54.

48 S. Garbagnoli, Monique Wittig: l’eterosessualità come presupposto.

Per una semiologia politica del senso comune, in S. Garbagnoli - V. Perilli

(a cura di), Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo

materialista in Francia, Alegre, Roma, 2013, p. 147.

49 J. Butler, Variations on Sex and Gender: Beauvoir, Wittig, Foucault, in S. Salin (a cura di), The Judith Butler Reader, Blackwell Publishing, Mal- den, 2004, p. 29.

sociali che ha lavorato da sempre in direzione di una sua na- turalizzazione. In tal senso agli occhi di Butler la distinzione sesso-genere formulata dal femminismo della seconda ondata – in base alla quale il sesso rappresenta la fatticità biologica, mentre il genere la sua interpretazione socio-culturale – appa- re del tutto fittizia, dal momento che il sesso è culturalmente costruito almeno tanto quanto lo è il genere50.

Il sesso per Butler «viene a contare» – ovvero si materializ- za – infatti attraverso la ripetizione citazionale di determinate norme regolative51, come avviene, ad esempio, nel caso degli

ideali di mascolinità e femminilità, i quali agiscono da impera- tivi estetici e comportamentali attraverso cui la differenza ses- suale viene resa socialmente intelligibile come pre-discorsiva e pre-politica52. Di conseguenza non è l’esistenza di una diffe-

renza sessuale a rendere culturalmente rilevante la distinzione tra l’orientamento eterosessuale e quello omosessuale, ma è «il valore attribuito all’eterosessualità a rendere culturalmente si- gnificative le differenze tra i sessi»53. Scopo dichiarato di Butler

nelle prime opere era infatti di scardinare i presupposti etero- normativi che permeavano la teoria critica femminista, i quali a suo avviso, restringendo il significato di genere agli assunti della pratica eterosessuale, non facevano altro che istituire un «regime di verità»54 che produceva esclusioni all’interno del

movimento femminista e che delegittimava le pratiche sessuali minoritarie come l’omosessualità55. Attraverso una personale

50 J. Butler, Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’i-

dentità, Laterza, Roma-Bari, 2013, p. 13.

51 J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 1.

52 F. Zappino, Il potere della melanconia, in J. Butler, La vita psichica

del potere, Mimesis, Milano, 2013, p. 14.

53 L. Bernini, Riconoscersi umani nel vuoto di Dio. Judith Butler, tra

Antigone ed Hegel, in L. Bernini - O. Guaraldo (a cura di), Differenza e relazione, cit., p. 16.

54 M. Foucault, La volontà di sapere, Feltrinelli, Milano, 2009; Id., Illu-

minismo e critica, Donzelli, Roma, 1997.

e originale rielaborazione della teoria degli atti linguistici di John Austin56 – in particolare della nozione di «perfomativo»,

cioè di quell’atto linguistico che «crea ciò che nomina» e che consente al parlante in un certo senso di compiere un’azio- ne – Butler ha tentato di restituire dei margini di agency po- litica a coloro che in un modo o nell’altro eccedevano i ruoli ritenuti socialmente accettabili dal paradigma eteronormati- vo, sfruttando le instabilità costitutive che si venivano a creare all’interno del processo di iterazione del dispositivo di genere. La conclusione a cui giungeva la filosofa di Berkeley era la ce- lebrazione delle pratiche di travestimento e recitazione drag come il simbolo di una politica trasgressiva che, attraverso la parodia, rivelavano la struttura citazionale e precaria del gene- re, rendendo visibile la falsità di una natura sessuata concepita in modo essenzialistico e binario57.

Nel decennio successivo, in parte attenuando i toni volon- taristici di Gender Trouble, Butler si è aperta, anche in conco- mitanza di tragici eventi internazionali come l’11 Settembre, ad una riflessione più generale sulla vulnerabilità umana e sul- la «potenza del lutto»58 come meccanismo di rottura nei con-

fronti dell’invisibilità a cui vengono condannati tutti «i corpi che non contano», siano essi quelli dei morti omosessuali di AIDS o quelli dei civili uccisi nelle guerre in Medio Oriente, o ancora quelli che vengono abbandonati dal sistema econo- mico e sociale. È possibile dunque rintracciare un sottile filo rosso che unisce le prime riflessioni di Butler sulla performa- tività del genere con quelle degli ultimi anni – concretizzatesi in testi come Vite precarie e Critica della violenza etica – in cui la filosofa americana, prendendo posizione contro le forme di disumanizzazione prodotte dalle varie wars on terror, elabora un’etica della non-violenza fondata sul riconoscimento della

56 J. Austin, Come fare le cose con le parole, Marietti, Genova, 1987. 57 J. Butler, Questione di genere, cit., p. 195.

comune vulnerabilità e su una nozione di responsabilità che prende atto dell’inestinguibile opacità del soggetto a se stesso59.

Se, da un lato, quindi Butler continua ad interrogarsi su cosa significhi diventare soggetti – ed essere riconosciuti come tali – entro le cornici di un dato quadro di intelligibilità, adesso il rapporto tra regimi di verità e processi di soggettivazione non viene più indagato esclusivamente in riferimento alle norme di genere.

Anche in Butler, esattamente come in Cavarero, la rifles- sione sulla vulnerabilità appare quindi legata al problema delle guerre contemporanee; tuttavia Butler, a differenza della fi- losofa italiana, sposa un’impostazione più di frame-analysis, guardando quindi alle cornici di intelligibilità culturale che impediscono fin dall’inizio ad alcune vite di accedere allo sta- tuto dell’umano. Secondo la nostra autrice è possibile infatti inaugurare un nuovo corso per la categoria della vulnerabilità solo se siamo disposti a riconoscere quanto la nostra condizio- ne di vulnerabilità possa avvicinarci a coloro che si trovano ad esperire, sebbene in forme sempre assai diverse tra loro, ana- loghe condizioni di vulnerabilità e spossessamento60. Butler

è convinta infatti che dalle esperienze di lutto individuale e collettivo possano scaturire nuove forme di legame sociale

59 J. Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano, 2006. 60 J. Butler, Fare e disfare il genere, a cura di F. Zappino, Mimesis, Mi- lano, 2014, p. 60. Come scrivono Butler e Athena Athanasiou in Disposses-

sion, esistono due modi diversi di intendere lo spossessamento: da un lato,

lo spossessamento indica quell’inaugurale processo di assoggettamento alle norme di intelligibilità culturale il quale determina il soggetto come un es- sere costitutivamente dipendente dal mondo sociale; dall’altro, lo sposses- samento si riferisce a quei dispositivi disciplinari e a quelle pratiche sociali da cui le persone sono sistematicamente rese abiette. Lo spossessamento in questo secondo senso è quello che accade quanto una persona viene privata della propria terra, dei mezzi di sussistenza e viene così esposta inevitabil- mente alla violenza e allo sfruttamento. Cfr. J. Butler - A. Athanasiou, Dis-

possession: the Performative in the Political, Polity Press, Cambridge, 2013,

che sappiano sottrarsi al «ciclo della vendetta» di cui parlava Eschilo, rifiutandosi dunque di rispondere alla violenza subita con la stessa moneta.

Al di là delle differenze storiche, culturali e geografiche, la tesi di Butler è che sia possibile fare appello ad un noi collettivo, poiché ciascuno di noi sa cosa significa aver perso qualcuno61;

è in questa consapevolezza di una vicinanza nella vulnerabilità dunque che possono essere rintracciati forse nuovi parametri con cui provare a ripensare la vita politica62.Nel dolore ci è

offerta infatti la possibilità di esperire «uno stato di spossessa- mento» che si rivela fondamentale nel cogliere «la socialità di ogni vita incarnata»63; fare esperienza del dolore quindi non

conduce necessariamente all’isolamento privato, ma può spin- gere i soggetti ad intraprendere un progetto di trasformazione della comunità politica in cui vivono, al fine di creare reti di supporto sociale che sappiano offrire tutela a tutte le vite vul- nerabili64.

Ciò, tuttavia, può avvenire, secondo Butler, solo a patto di operare una frattura nei frameworks di intelligibilità che, da un lato, innalzano la violenza a caratteristica imprescindibile della sfera politica e, dall’altro, determinano quei meccanismi di produzione differenziale della vulnerabilità65, i quali fanno

sì che alcune vite non siano considerate propriamente delle vite e verso le quali quindi non sorge alcuna responsabilità sul piano etico e politico. Si tratta di meccanismi di disconosci- mento che possono ovviamente assumere forme diverse, ma che sembrano essere tutti accomunati dal fatto di prendere di mira gli schemi cognitivi e le strutture affettive attraverso cui gli individui percepiscono se stessi, gli altri corpi e l’ambiente

61 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 46.

62 O. Guaraldo, Comunità e vulnerabilità, cit., p. 216. 63 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 52.

64 J. Butler, Fare e disfare il genere, cit., p. 60.

65 J. Butler, Frames of War. When Is Life Grievable?, Verso, Londra - New York, 2010, pp. 24-26.

circostante66. Basti pensare al modo in cui vengono combattute

oggi le guerre, dove un ruolo sempre più decisivo viene gioca- to dalle rappresentazioni dei media – la guerra, come direbbe Butler, è un «assalto ai sensi» –, le quali sono responsabili di veri e propri processi di derealizzazione di intere popolazioni, il cui annientamento e spossessamento diviene possibile pro- prio nella misura in cui tali popolazioni non sono riconoscibili come vite umane. Quando un’intera popolazione viene pre- sentata come una minaccia alla sicurezza nazionale – Butler fa l’esempio dei civili palestinesi nella cornice bellica del di- scorso pubblico israeliano – anche le informazioni relative al numero di civili uccisi in un bombardamento riferito a quella popolazione perderanno qualsiasi rilevanza proprio perché è la stessa distinzione tra civili e militari a non essere reputata più un criterio con cui differenziare una condotta bellica legale da una criminale67.

In modo speculare, possiamo individuare una dinamica cognitiva pressoché identica nel diverso giudizio che tendiamo ad attribuire al fenomeno dei terroristi suicidi, le cui riflessio- ni, almeno in Occidente – lo abbiamo visto anche con Cavare- ro – sembrano prendere come chiave di lettura preponderante il tema dell’orrore. Secondo Butler invece il focus del proble- ma non risiede tanto nelle particolari modalità in cui viene compiuta la strage – le quali, secondo alcuni autori, sarebbe- ro intrinsecamente intollerabili per noi occidentali68 – quanto

nell’appartenenza etnica e sociale delle vittime coinvolte nella carneficina. In altri termini, si domanda Butler, perché tendia- mo ad inorridire solo di fronte alla morte di determinate vitti- me – quelle occidentali – mentre nel caso dei massacri, spesso assai più distruttivi in termini di vite umane, compiuti dagli

66 Ivi, pp. 49-50. 67 Ivi, p. XXVII.

68 J. Rose, “Deadly embrace”, London Review of Books, 26, 21 (2004), pp. 21-24.

attentatori suicidi in Medio Oriente non reagiamo alla stessa maniera69?

Del resto, i notiziari televisivi spesso non danno nemme- no notizia di queste morti o, se lo fanno, utilizzano un frame sicuramente assai meno rispettoso della storia individuale del- la vittima di quello che userebbero se dovessero raccontare la morte di un cittadino europeo o americano. Si può immagina- re, quindi, che sia difficile per noi occidentali riuscire a prova- re una reale empatia per quelli che appaiono semplicemente come dei numeri di uno dei tanti bollettini di guerra a cui sia- mo stati abituati in questi ultimi anni. Ciò che noi percepia- mo attraverso i sensi è infatti inevitabilmente mediato dalle strutture interpretative dell’ambiente sociale che ci circonda; di conseguenza, se secondo tali strutture interpretative alcu- ne popolazioni non meritano in alcun modo di essere protet- te proprio perché non possono essere considerate delle vite a tutti gli effetti, allora è chiaro che mostreremo compassione solo nei confronti di alcune perdite, mentre mostreremo una fredda e distaccata indifferenza nei confronti di altre.

Tali meccanismi di derealizzazione trovano un perfetto terreno di coltura e proliferazione nel clima generato dall’at- tuale crisi delle liberal-democrazie, un clima in cui, di fronte ad eventi che mettono sempre più a repentaglio la sicurez- za nazionale, si attuano continue sospensioni del diritto con inevitabili conseguenze sul piano della militarizzazione degli spazi pubblici – con la proclamazione o proroga a tempo in- determinato di stati di emergenza – e della privazione di al- cuni soggetti delle garanzie previste dai trattati internazionali e dalle costituzioni nazionali70. In questi casi infatti assistia-

mo, da un lato, alla spoliticizzazione di alcuni individui, i qua- li vengono «presi fuori» dall’ordinamento giuridico e ridotti

69 T. Asad, Il terrorismo suicida. Una chiave per comprenderne le ragio-

ni, Raffaello Cortina, Milano, 2009, p. 67.

70 J. Butler, “Il lutto diventa legge”, Effimera, 13 novembre 2015: <http://effimera.org/il-lutto-diventa-legge-di-judith-butler/>.

alla loro «nuda vita»71 e, dall’altro, all’affermarsi di un discorso

pubblico securitario che viene alimentato dallo Stato stesso al fine di attuare un controllo generalizzato sulla popolazione72;

in tal modo lo Stato accresce «le proprie prerogative extra- legali»73 e fa progressivamente ricorso a formule vaghe e assai

lontane dal principio della certezza del diritto come criterio di auto-legittimazione. Una situazione che a Butler ricorda molto quella dei detenuti di Guantanamo, anche loro imprigionati senza davvero essere prigionieri – poiché «detenuti in attesa» – in nome dell’emergenza nazionale74; o quella delle vittime del

carcere di Abu Graib, sottoposte a torture degradanti e umi- lianti dal personale militare di servizio in quella struttura solo perché ritenute appartenere ad una cultura inferiore75.

Infine, secondo Butler, questi meccanismi di disconosci- mento avvengono anche ad un livello meno immediato attra- verso l’introiezione da parte degli individui degli ideali neo- liberisti della responsabilità individuale e dell’auto-imprendi- torialità. In un contesto dove si richiede ai soggetti di essere «responsabili soltanto per se stessi» – sebbene la possibilità di divenire economicamente autosufficienti sia strutturalmente messa a repentaglio dalle forme di governamentalità neolibe- rista76 –, coloro che non riescono a soddisfare questi ideali van-

no incontro ad un senso di «fallimento morale»77, percependo

71 G. Agamben, Homo Sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 1995.

72 G. Agamben, “Guerra allo Stato di diritto”, Il Sole 24 Ore, 23 gennaio 2016: <http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2016-01-23/guerra-stato- diritto--212159.shtml?uuid=AC3pO39B>.

73 J. Butler, Vite precarie, cit., p. 87. 74 Ivi, pp. 71-110.

75 J. Butler, Frames of War, cit., pp. 63-100; S. Sontag, Davanti alla

tortura degli altri, in Ead., Nello stesso tempo. Saggi di letteratura e politica,

Mondadori, Milano, 2008, pp. 104-116.

76 J. Butler, Notes Towards a Performative Theory of Assembly, Harvard University Press, London, 2015, p. 25.

così di essere diventati degli individui dispensabili. Percepir- si dispensabile equivale secondo Butler ad introiettare l’idea che la propria vita sia insignificante e che pertanto non ci sarà nessuna rete di supporto sociale pronta a soccorrermi qualora io sia ammalato, affamato e abbia bisogno di protezione; ciò significa, a sua volta, che qualora dovessi venire a mancare non ci sarà nessuno a piangere pubblicamente la mia morte78.

Essere considerati indegni di lutto, dunque, compromette in modo radicale la possibilità di godere appieno dello status di essere umano. Chi si trova impossibilitato ad accedere ad un memoriale o ad un necrologio – si pensi al numero di migranti morti annegati negli ultimi anni nel Mar Mediterraneo –, di- viene vittima di un meccanismo di «soggettivazione differen- ziale» del lutto, il quale iperumanizza di fatto alcune vite e ne disumanizza altre79.

Tuttavia, se è sul piano della rappresentabilità pubblica che si consumano questi processi di disumanizzazione, allora sarà proprio in questo campo che andranno elaborate nuove stra- tegie e nuove alleanze in grado di alterare performativamente i confini dei quadri di intelligibilità dominanti. Ed è questa la ragione che ha spinto Butler negli ultimi anni ad interessarsi proprio a quelle forme di protesta e mobilitazione che hanno cercato di produrre uno squarcio all’interno della sfera della riproducibilità delle parole e delle immagini, a partire proprio da quei soggetti e da quei gruppi sociali la cui vita viene resa invivibile dai frames culturali e dall’ordine del discorso: dalle proteste dei latinos, cioè dei lavoratori illegali messicani e lati- noamericani80 – i quali sono scesi in strada nella primavera del

2006 in diverse città della California cantando in spagnolo l’in- no nazionale statunitense The Star-Spangled Banner e chieden-

78 J. Butler, Vita buona e vita cattiva, in Ead., A chi spetta una buona

vita?, cit., pp. 20-21.

79 O. Guaraldo, Comunità e vulnerabilità, cit., p. 206.

80 J. Butler - G. C. Spivak, Che fine ha fatto lo Stato-Nazione?, Meltemi, Roma, 2009.

do piena uguaglianza – fino ad arrivare alle manifestazioni più recenti degli Indignados, dell’Occupy Movement e delle altre proteste che negli ultimi cinque anni hanno portato un gran numero di persone ad occupare fisicamente le strade di alcu- ne importanti capitali europee e mediorientali, come nel caso delle proteste di Piazza Syntagma ad Atene, di Piazza Tahrir al Cairo o di Piazza Taksim ad Istanbul. In queste manifestazio- ni le persone non solo portano in piazza, cioè nel pubblico, i propri corpi desideranti e precari, ma in un certo senso offro- no anche una riconfigurazione della distinzione stessa tra sfera pubblica e sfera privata: spesso i manifestanti infatti dormono e mangiano in strada, predispongono cure mediche e allesti- scono nuovi sistemi di condivisione degli spazi81, rifiutandosi

Nel documento Vulnerabilità. Etica, politica, diritto. (pagine 64-76)